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ARACNE

Come cambiare il mondoin sessanta ore

Vincenzo Nesi

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Copyright © MMVIIARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, 133 a/b00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–1379–3

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: ottobre 2007

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Ad Armanda,a Bob,a Mimmo, Leandro e Giovanni,che mi hanno insegnato ad insegnare.

In ordine di apparizione.

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Premessa

Questa e una storia in cui si raccontano fatti veramen-te accaduti, appena un po’ romanzati nel tentativo dievitare querele. Ho raccontato le mie esperienze di va-ri anni di insegnamento all’universita facendo finta chealcune fra le tante cose che mi sono sembrate interessan-ti, oppure spiritose, talvolta amare, siano capitate tuttenello stesso anno. In realta si sono svolte nell’arco di undecennio.

Sessanta ore sono la durata di un corso “trimestrale”del corso di laurea in Fisica. Il tempo concesso a ciascunodi noi docenti per entrare in contatto con una cinquan-tina di universi sconosciuti. E la storia dell’esplorazionedi questo mondo e delle mille avventure che essa com-porta. E la storia dell’incontro con mostri spaventosi ecreature divine. Ma e anche la storia delle difficolta chesi incontrano nel tentare di agire in maniera coerentecon le proprie convinzioni, delle soddisfazioni ma anchedelle amarezze che questo comporta.

Questa storia e stata una fra le tante gioie della miavita. La dedico ai ragazzi e alle ragazze di tutte le classinelle quali ho insegnato.

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I primi maestri

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Studenti ed allievi

Nel gergo dei docenti universitari, di solito, si distinguefra studenti ed allievi. I primi sono coloro che, come unamassa indistinta, frequentano le lezioni, oppure sempli-cemente si presentano a sostenere gli esami alla fine diun corso. Se ne parla come di un unico essere, sempresimile a se stesso. Ci sono i docenti che, instancabilmen-te, affermano che nella loro classe non c’e nemmeno unostudente degno di menzione. Altri che, invece, in ogniclasse scoprono persone di talento.

Gli allievi, invece, sono una cosa diversa. Gli allievisono coloro che il docente segue molto da vicino, con ilcompito di allevarli per farli divenire gli accademici didomani.

La mia esperienza di studente, di ricercatore ed in-fine di docente attiene soprattutto alla matematica e,in parte minore, alla fisica. E credo non sia facilmenteconfrontabile con altre discipline.

Le motivazioni che spingono un ragazzo, o una ra-gazza, finite le scuole superiori, ad iscriversi a matema-tica piuttosto che, ad esempio, a Giurisprudenza posso-no essere abbastanza diverse. Difficilmente chi si iscrivea Matematica o a Fisica lo fa con il desiderio di scalarela considerazione dei propri simili nella societa. Anche i

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piu ingenui sono consapevoli che, in Italia, il matemati-co gode di scarsa considerazione sociale. Le ragioni sonoprofonde e certamente hanno almeno un secolo di sto-ria, ma qui vorrei solo sottolineare che la maggioranzadegli iscritti a Matematica o a Fisica e dotata, almenoinizialmente, di grande passione per la disciplina di cuista per intraprendere lo studio. Un certo numero sognadi diventare uno scienziato di fama internazionale.

Negli States gli studenti piu bravi e motivati scelgo-no di studiare in questa o quella universita, per poterfrequentare le lezioni di un famoso matematico. Maga-ri nella speranza che questi diventi il loro riferimentoscientifico nel futuro.

Nel nostro Paese, invece, la mobilita interna e moltominore. In parte per un certo “mammismo” ed in parteperche, obiettivamente, studiare in una citta diversa daquella dove si abita richiede un investimento economicospropositato.

Gli studenti quindi, nella stragrande maggioranza deicasi, si iscrivono ad un corso di laurea operando sceltedettate dal caso. Si vive in una certa citta e non si pen-sa che, se si ha la passione per una certa disciplina, sidovrebbe andare a studiare a cinquecento chilometri didistanza.

Se possibile, si studia nella propria citta. Se proprioe necessario allontanarsi, si opta per il luogo piu vicinoal proprio luogo di residenza.

E come se, decidendo di andare a cena fuori, si sce-gliesse sempre e comunque il ristorante piu vicino allapropria abitazione. Chi farebbe una simile sciocchezza?

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Eppure, per preparare il proprio futuro professionale,si fa proprio cosı. Mangiare bene, evidentemente, e piuimportante che studiare bene.

Ci si iscrive ad esempio a fisica e, spesso, non si sache si andranno a calpestare gli stessi corridoi che, ma-gari mezzo secolo prima, furono calpestati da un premioNobel. Ancor meno si ha la consapevolezza della repu-tazione e del valore internazionale dei docenti di quelcorso di laurea, ottima o mediocre che sia.

All’estero c’e una grande varieta. Il sistema britanni-co e diverso da quello francese e tutti e due sono diversida quello statunitense. In Gran Bretagna o negli States,ad esempio, le universita possono assumere docenti par-ticolarmente noti, offrendo loro salari assai piu alti dellamedia. Da noi questo e impossibile, per legge.

Le universita che hanno speso molto per procurarsiun docente prestigioso, finiranno per attirare un mag-gior numero di studenti e di livello piu alto. In questomodo le entrate dell’universita aumenteranno, in parteattraverso le tasse di iscrizione ed in parte per i maggio-ri finanziamenti concessi dagli enti di ricerca. Con piusoldi a disposizione, le universita potranno fare altre ac-quisizioni eccellenti e via di questo passo. In breve, perpoter concorrere con altre universita, magari dal nomepiu prestigioso, e necessario valorizzare le proprie risorseumane.

Il sistema italiano e abbastanza singolare, se non pro-prio del tutto speciale. Non ci sono gli strumenti legi-slativi per avviare questo circolo, virtuoso o meno chesia.

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Prime lezioni di volo

Quando cominciai la mia avventura di matematico, dastudente, io non facevo eccezione alla regola e non sape-vo minimamente a cosa sarei andato incontro. Non cono-scevo i giganti che mi sarei trovato ad incontrare. E nonsapevo nemmeno che, come dappertutto, anche a mate-matica avrei incontrato persone che non avrei ricordatocon piacere.

Un paio di anni prima, avevo abbandonato gli studiper un lungo periodo. Ero gia in forte ritardo.

Nel corso degli studi, sia al liceo che all’universita,la maggioranza dei docenti mi aveva deluso. Ma alcunimi avevano fatto intravedere che cosa potesse diventarela matematica per me. E cosı, ad un certo punto dellamia carriera di studente, mi resi conto che sognavo didedicare la mia vita professionale a studiare. Date lecircostanze, questa mia decisione sembrava, persino ame, alquanto irrazionale. Avevo bisogno di chiarirmi leidee.

Chiesi consiglio ad un docente che, allora, mi sem-brava Dio sceso in terra. Col tempo, seppi che la consi-derazione che il mondo matematico aveva di lui, comematematico, non era all’altezza delle mie fantasie. Mainvece, per quanto mi riguarda, non tradı le mie aspet-

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tative e mi diede un consiglio che avrebbe cambiato lamia vita.

Mi disse che l’unico modo per diventare un matema-tico professionista, degno di questo nome, era di affidar-si ad uno scienziato di chiara fama. Mi spiego che fra idocenti del corso di laurea in Matematica ce ne eranoalcuni che rappresentavano una garanzia. E, infine, miconsiglio un nome. Era quasi una scelta obbligata, datoil mio curriculum di studi. Feci io altri nomi, ma mi fuchiarito che stavamo parlando di mondi assai distanti.

Bussai alla porta dello studio di questo scienziato,Giancarlo Ladini. Un signore dall’aria stralunata. Loavevo visto altre volte, in giro per il dipartimento. Misembrava che fosse lı per caso. Che stesse sempre cer-cando qualcosa. Forse il bagno? Magari semplicementel’uscita.

Mai, fino ad allora, avevo sospettato quanta robaci fosse in quella testa dalle dimensioni apparentementenormali.

Ladini mi consiglio di cominciare a frequentare lelezioni di un corso, molto avanzato, che avrebbe comin-ciato ad insegnare dopo pochi giorni.

Fu pazzesco. Immaginate di salire in macchina conSchumacher che vi porta a duecento all’ora e, mentreguida, vi invita a gustare la bellezza dei luoghi, a concen-trarvi sul panorama. Ma quale panorama! Non riuscivonemmeno a vedere la strada!

Eppure, che eccitazione! Non avevo mai visto nulladi simile, prima di allora. In parte per colpa mia. Avevoevitato alcuni corsi che credevo di non essere capace di

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seguire, o perche troppo difficili o perche il docente miaveva intimidito con la sua arroganza; oppure per tuttee due le cose messe insieme.

Ora invece avevo provato questa sensazione. Facileda descrivere. Immaginate di ammirare un quadro delvostro pittore preferito, o ascoltare l’esecuzione di unbrano musicale che amate. Semplicemente, da i brividi.

Dopo un mesetto di questa cura, gli chiesi un brevis-simo colloquio. Gli confidai che, nonostante i miei sforzi,non riuscivo a capire tutto quello che spiegava a lezione.

Mi rispose che si sarebbe preoccupato se gli avessidetto il contrario. Mi parve un incoraggiamento straor-dinario. Cominciai a pensare che lo spirito del corso fossediverso da quello che avevo immaginato. Giancarlo, conle sue lezioni, ci portava a visitare luoghi stupendi e,qualche volta, cercava di trasmetterci la sensazione co-me di una visione aerea del Colosseo. Probabilmente eracosciente del fatto che molti dettagli ci sarebbero sfug-giti. Solo una lunga visita all’esterno e all’interno di unsimile monumento, avrebbe permesso di “capirlo”. Maquesta visione aerea mozza il fiato. E il primo passo. Ra-dica, in chi fa questa esperienza, il desiderio di conoscereil Colosseo. Lo appassiona. Gli fa decidere che, presto,scendera a terra e andra ad ammirarlo da vicino.

Ero affascinato da Giancarlo, dal suo modo di farelezione, intrigante e misterioso. A volte confuso, persino,ma sempre stimolante.

Dopo un po’, non so con quale coraggio, gli chiesi latesi. Me la assegno, senza preoccuparsi di approfondirese fossi veramente all’altezza di ricevere un simile regalo.

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In quel periodo, per aiutarmi a preparare la tesi, miricevette forse quattro o cinque volte. Era capace di far-mi aspettare anche due, tre ore, davanti alla porta delsuo studio. Ma quando arrivava il mio turno, se anchesi fosse presentato il Rettore in persona avrebbe dovutoaspettare che Giancarlo finisse di lavorare con me.

Giancarlo, oltre ad essere dotato di un talento sem-plicemente ereditato nel suo patrimonio genetico, colti-vava questa sua abilita condendola con una passione eduna dedizione al lavoro abbastanza estremi.

La sua rapidita di apprendimento era fenomenale.Capitava che scienziati di ottima reputazione interna-zionale gli raccontassero lavori di mesi e lui, in pochiminuti, aveva capito tutto. Ed era subito pronto a daredei suggerimenti, spesso decisivi per gli sviluppi succes-sivi. Vedere una persona, coltissima e geniale, lavoraredavanti ai miei occhi ad un problema che per me erail primo della mia vita, fu un’esperienza nuova, grati-ficante, destinata ad influenzarmi per molti decenni avenire.

Mi fu chiaro molto presto che non sarei mai diventatoun matematico bravo quanto lui. In cuor mio speravo,inizialmente, che avrei constatato di essere migliore dilui in altre cose. Ma non c’era speranza. La sua culturaclassica, artistica in particolare, mi appariva faraonica.

Infaticabile nelle passeggiate in montagna. Dava deipunti a noi che, allora, eravamo dei ragazzini. Insom-ma una di quelle persone che, se avesse deciso di fareun’altra cosa, magari il direttore d’orchestra, ci sarebberiuscito. E con la stessa facilita con cui si era guadagnatola stima della comunita scientifica internazionale.

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La disponibilita intellettuale che Giancarlo ha dimo-strato con i suoi allievi in decenni di lavoro, rimane pro-verbiale. Con aria amichevole e con grande leggerezza,ha continuato a proporre sempre nuove idee. Soprattuttoha continuato a proporre, continuamente, instancabil-mente, una visione della matematica come di un modofecondo di interpretare la realta, il cui limite poteva di-ventare il chiudersi in una sterile specializzazione. Nonesistevano steccati culturali. Solo la buona scienza. E,quella, non conosceva le separazioni imposte dai limitidi chi la fa.

Questo modo di dedicarsi ai propri allievi, ha segnatoil mio modo di intendere l’insegnamento. Quello che mie stato dato, in quegli anni come anche nei precedenti enei successivi, ho cercato di restituire ai miei studenti edai miei allievi. Non sarebbe mai stato possibile, per me,trasferire le cose che poteva dare Giancarlo. La genialitanon si apprende. La disponibilita umana ed intellettualeinvece sı.

Ancora oggi, parlo con Giancarlo di matematica. Ladistanza, fra di noi, non si e affatto assottigliata. Ma,siccome gli parlo di cose a cui io ho pensato per diecianni e lui no, nella prima ora riesco a tenergli testa.

Di persone come Giancarlo non ce ne sono molte.Alcune decidono di andare a lavorare all’estero, dovele condizioni di lavoro, per simili fenomeni, sono piufavorevoli. Ma altri, per la fortuna di persone come me,rimangono. Per questi scienziati eccezionali e piu difficileche per una persona normale come me, contentarsi diquello che si puo fare qui, a casa nostra.

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Giancarlo mi mando a studiare, per il dottorato, ne-gli Stati Uniti. Lo Stato Italiano, attraverso un ente diricerca, mi diede un supporto economico, assegnandomiuna borsa di studio. L’universita che mi accetto nel suoprogramma di dottorato, fornı un supporto economicodi pari portata, permettendomi di non pagare le onerosetasse universitarie.

Andai presso il prestigioso “Institute of Integrationby Parts” in America. Un’esperienza stupenda, che miavrebbe cambiato per sempre.

In quel vero tempio della scienza, ho conosciuto ma-tematici famosissimi. Le presentazioni di solito andava-no piu o meno in questo modo: «Da dove vieni?». «DaRoma». «Ahh, Roma! Che magnifica citta!».

Per me, uomo del sud, si generava l’attesa di unalunga chiacchierata su temi ludici. Invece, per la partedei convenevoli, si era all’epilogo. Basta smancerie. Sia-mo anglosassoni. La successiva domanda andava drittaal punto. «Con chi ti sei laureato?». «Giancarlo Ladini».Era fatta. Avevo un biglietto da visita, molto meglio diuna lettera di raccomandazione. Forse per questo, perme, le cose sono continuate ad andare sempre bene.

Il dottorato mi ha regalato altri maestri, delle verestelle, che mi hanno dato molto, senza nessuna remorao esitazione. In questo senso la mia esperienza e stataquella di vedere un mondo molto diverso da quello nelquale tutti noi sembriamo vivere.

Condivisione e stata la parola d’ordine. Le idee non sivendono, si rendono pubbliche. Le idee non si criptano,si condividono.

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Le miserie umane esistono dappertutto. I matemati-ci non fanno eccezione. Ma probabilmente, a causa delfatto che si tratta di una scienza povera, senza quindii finanziamenti imponenti e talvolta grotteschi concessialla medicina oppure alla fisica, la matematica e prati-cata da una percentuale piu alta di persone che lavoranocon autentica passione. Feynman, un premio Nobel perla fisica, autore di numerosi libri autobiografici, sostene-va che allo scienziato e richiesta una onesta intellettualeche va al di la di quella convenzionale. Egli riteneva chelo scienziato vero dovrebbe praticare un modo di farericerca che preservi “l’integrita della scienza”. Non soquanti riescano ad attenersi a questa visione.

Di sicuro, io ho incontrato sulla mia strada alcuni diquesti eroi.

E ovvio che io parli con grande affetto di colui che,nel mondo accademico, e stato il mio primo maestro. Mae importante, per la storia che sto raccontando, capireche sebbene Giancarlo abbia avuto una enorme influenzasul mio modo di fare ricerca, il suo modo di insegnareera molto diverso da quello che poi e diventato il mioideale. C’e un episodio che forse da il senso di quello chevorrei dire.

Quando ero studente in America, Giancarlo venne afare visita all’istituto gemello di quello in cui studiavo io.A Fisica. L’ammirazione nei suoi confronti, da parte deisuoi colleghi in quel dipartimento, era palpabile. Gian-carlo fu invitato a tenere una conferenza. Naturalmenteandammo tutti ad ascoltarlo.

Era la prima volta che lo vedevo in azione in quelle

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vesti. C’erano tutti i suoi colleghi ed amici, molti suoiallievi italiani, che stavano studiando per conseguire ildottorato in quella sede. La persona che lo introdusse,manco a dirlo, era un altro italiano che lo presento conuna certa deferenza. I fisici italiani sono molto ricercatiin campo internazionale!

Come sempre accade in queste circostanze, fu datala parola al conferenziere. La prassi vuole che il confe-renziere ringrazi per l’ospitalita e poi passi a parlare dimatematica. Invece, quella volta, accadde una cosa de-cisamente inaspettata. Intervenne uno degli ospiti. Unuomo alto, bello ed atletico. Un professore di fisica inquell’universita, che lo conosceva da almeno vent’anni.Prese la parola e disse: «Caro Giancarlo, lasciaci direche e veramente un piacere averti qui. Per sottolinea-re la nostra gioia, abbiamo deciso che, alla fine dellatua conferenza, faremo una piccola votazione informale,fra di noi, per decidere di che cosa hai parlato!». Risategenerali.

Giancarlo aveva idee nuove, fantasia e tecnologia.Capirlo, quando parlava di cose nuove, era pero sfidatitanica.

Recentemente un mio allievo, che ora lavora negliStati Uniti, mi ha scritto ringraziandomi per “le primelezioni di volo”. Credo che lui abbia ali piu lunghe e fortidelle mie e quindi penso che sia una immagine moltogenerosa da parte sua.

Ma amo quell’immagine che credo riassuma il sen-so di quello che dovrebbe essere un buon maestro. Unapersona capace di farti spiccare il volo e poi di lasciartiandare.

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Il mio atterraggio a Matematica

Dopo aver girato qualche anno per il mondo, ero torna-to in Italia. Avevo vinto un concorso da ricercatore, illivello piu basso della scala accademica, non senza unagrossa dose di fortuna. Passato qualche altro anno, mifu proposto un trasferimento.

Il “trasferimento”, in teoria, non e una promozio-ne. Non si sale di grado accademico. Semplicemente cisi sposta da una sede all’altra. In pratica, puo essereun grosso premio. Ad esempio quando si viene chiama-ti in una sede piu prestigiosa di quella di appartenenzao, piu modestamente, in una sede piu gradita, fosse an-che soltanto per motivi logistici. E un meccanismo assaibizzarro, che sembra fatto apposta per aggirare un con-corso regolare. All’epoca non lo sapevo, ma capisco chequesto sia difficile da credere.

Semplicemente, mi fu chiesto se mi volevo trasferireed io dissi di sı. Ma non riuscii a presentare la necessariadomanda entro i termini di scadenza previsti dal bando.La presi con filosofia, e credetti che non se ne sarebbefatto piu nulla. Invece la persona che mi aveva fatto laproposta di trasferimento mi chiamo e, arrabbiatissima,mi chiese conto e ragione del mio comportamento. Lespiegai le mie ragioni (ottime, ma questa e una storiatroppo lunga) e conclusi dicendo: «Non ti preoccupare,vorra dire che vincera qualcun altro». A quel punto lei

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mi assalı: «Noo! Nessuno ha presentato domanda! Ilconcorso e andato deserto». «Oh bella! E com’e possibi-le?». «Perche noi abbiamo detto a tutti di non presentaredomanda! Cosı si usa!».

Trasecolai! Avevo lavorato e preso il dottorato inAmerica. Evidentemente pochi anni in Italia non mi era-no bastati per cambiare mentalita. Questa “logica” miera estranea. Potevo capire a mala pena che si chiedessea qualcuno di non fare domanda, ma che questo qual-cuno non rispondesse con il famoso gesto dell’ombrello,o con un sonoro “pernacchio” di eduardiana memoria,mi sembrava assolutamente folle, ed era molto al di ladella mia capacita di comprensione. Ero giovane. Quellafu una delle prime occasioni in cui mi scontrai controuno dei mostri della nostra vita accademica.

Molti tendono a fare oggi quello che si faceva ieri.Senza per questo essere persuasi che sia la scelta mi-gliore. Convinti, pero, che cambiare la prassi e faticosoe sostanzialmente inutile. Il mondo e sempre andato inun certo modo. Cambiare le regole ed i comportamentispetta ad altri.

Fatto sta che, nonostante si fossero levate voci con-tro la mia “arroganza”, si decise di “ribandire” il posto.A distanza di piu di dieci anni, ancora mi domando co-me sia potuto succedere. Avrebbero potuto decidere perun’altra soluzione, ed invece mi fu data una secondapossibilita.

A quel punto pero, io avevo perso la voglia di con-correre. Se fossi stato devoto, avrei senz’altro acceso uncero a San Gennaro che, mandandomi una malattia nongrave ma improvvisa e tale da tenermi inchiodato a let-

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to per due settimane, mi aveva reso impossibile alzarmiin tempo dal letto per mandare la famosa domanda. Inquesto modo San Gennaro, che evidentemente proteggeanche i miscredenti purche napoletani ed ammiratori diMaradona, mi aveva evitato la vittoria in una competi-zione truccata, alla quale partecipavo da inconsapevole“dopato”.

Fui persuaso a fare domanda per il nuovo bando esono grato alla solita ostinata protettrice, la quale miconvinse che, da parte mia, questo fosse un atto dovuto,almeno a lei che tanto si era data da fare per me. Vennenominata una commissione e questa volta arrivarono bentre domande per trasferirsi in quel posto da ricercatore.

Vinsi. Credo, obiettivamente, con merito.Il professor Cardarelli faceva parte della commissio-

ne e cosı, dalla lettura del mio curriculum, mi conobbe.Avrei fatto parte del gruppo degli “analisti”: quei ma-tematici che fanno ricerca in analisi matematica oppu-re, piu semplicemente, insegnano nei corsi si laurea delnostro ateneo contenuti riferibili a quella disciplina.

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L’accademico Cardarelli

Era arrivato a matematica anche lui per “trasferimen-to”. Il professor Cardarelli era un accademico e qualcu-no pensava che il suo arrivo dal profondo nord avrebbecambiato i destini della comunita degli “analisti”. Oggi,viceversa, molti dicono che la sua presenza sia passataquasi inosservata. Per me e per questa storia, invece, sisarebbe rivelata decisiva.

Mi fu affidato il compito di fargli da “esercitatore”.In pratica mi dovevo occupare di preparare le esercita-zioni. Insomma dovevo seguire il passo scelto dal Car-darelli e preparare, e poi svolgere in classe, gli eserciziche ritenevo adatti ad illustrare le cose che Cardarellispiegava nelle sue lezioni.

Non so se questo compito fu inteso come una puni-zione, visto che l’uomo non era particolarmente amato.Fatto sta che quella fu la piu classica botta di fortunache io, conoscendo la mia buona stella, riconobbi prestocome tale.

Ci davamo del “lei”. Fin dall’inizio, quando prepara-vo gli esercizi da svolgere in classe, andavo a chiedergliun parere. Facevo del mio meglio per impressionarlo conesercizi stimolanti e non banali, ma nemmeno inutilmen-te complicati. Li illustravo rapidamente alla lavagna e,

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puntualmente, Cardarelli mi gratificava di un commentodel tipo: «Questo e interessante! (Pausa). Forse se leifacesse questa piccola modifica . . . ».

Lui parlava, io ascoltavo ed avevo la sensazione diessere preso in braccio da un papa che, con le sue lun-ghissime braccia, ti protende piu in alto. Lı dove tu,piccino come sei, non puoi arrivare. E quante cose sivedono da lassu!

I nostri incontri divennero routine e, nonostante l’a-bissale distanza fra me e lui dal punto di vista matema-tico, c’era qualcosa di me che gli piaceva. Mi concesse il“tu” dopo la mia prima conferenza in Istituto. Andai dalui, come al solito, per parlare degli esercizi. Ma non cela feci e gli chiesi cosa pensasse del mio “seminario”. Mirispose: «Ah, volevo dirglielo. Mi e piaciuto molto. Sivede un lavoro di un decennio!». Ancora oggi, quando loracconto, provo un senso di gratificazione. Poi aggiunse:«Comunque, io al lei non ci tengo». Non era la primavolta che un matematico famoso mi faceva dei “compli-menti matematici”. Ma ci sono alcune persone alle qualiuno desidera fortemente piacere e Cardarelli, per me,era una di queste.

Cardarelli considerava le onorificenze accademichecome un obbligo da pagare alla sua intelligenza che,sapeva bene, era assolutamente superiore.

Un giorno gli chiesi come si facesse a diventare un ac-cademico e mi rispose: «Tu sai cosa diceva Poincare delleaccademie? Quando il giovane Poincare era in ascesa,ma non ancora affermato, disse che le accademie raccol-gono una accolita di rimbecilliti che, per sembrare me-

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no deficienti, “cooptano” persone ancora piu incapaci diloro.

Passato qualche anno, Poincare fu riconosciuto quelgenio che era e, inevitabilmente, fu chiamato a far par-te delle piu prestigiose accademie. Qualcuno gli ricordoi suoi precedenti giudizi. Allora Poincare disse: “Vedi,mio caro, come corollario (gergo matematico che signi-fica ovvia conseguenza) del mio precedente enunciato siha che, a furia di prendere persone sempre piu idiote,queste ultime finiscono per cooptare un genio. Senzaaccorgersene”».

Questa storiella e un buon esempio del Cardarelli-pensiero.

Come docente, un paio di anni con Cardarelli miavevano trasformato da un volenteroso arruffone ad unprofessionista vero. Cardarelli mi aveva fatto capire che,per insegnare bene, bisogna aver chiaro il contenuto del-l’intero corso fin dal primo giorno di lezione. Occorremolto impegno e lavoro, e questo lo sapevo. Ma non ba-sta concentrarsi sulla lezione di domani. Alcuni concetti,spiegati domani, dovranno essere riproposti all’attenzio-ne degli studenti fra un paio di settimane. E necessariopresentare subito queste idee in modo tale che, al mo-mento opportuno, gli studenti ne possano cogliere i lega-mi con i nuovi concetti in maniera naturale. Cardarellimi spiego l’importanza di curare l’aspetto culturale dellamatematica. Questa impostazione e difficile da illustrarein poche frasi. Il Cardarelli ebbe due anni di tempo perfarmela assorbire. Il mio solo contributo fu di ascoltarecon attenzione.

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All’inizio avevo parlato della differenza che passa fraessere un allievo, ed essere uno studente. Ladini ha avu-to molte decine di allievi ed io sono stato uno di loro.Con lui si apprende come fare ricerca e questo e mol-to utile con i propri allievi, ma non e sufficiente con ipropri studenti. Cardarelli mi ha offerto una miriade diconsigli e suggerimenti. Per me sono state mille perle daammirare. Inizialmente in solitudine e, successivamente,insieme ai miei studenti.

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I primi rapporti con Pasquali

La mia formazione di docente era divenuta molto piusolida dopo la mia esperienza con Cardarelli. Dal puntodi vista culturale non credo che sarebbe stato possibi-le avere un maestro migliore. Ma l’insegnamento, percome e maturato nei miei sogni, richiede un ulteriore in-grediente. La dedizione. Per comprenderne il significato,dovevo ancora fare alcuni degli incontri decisivi. Il piuinaspettato fu quello con Pasquali.

Quando ancora ero studente, avevo sempre pensatoche il professor Pasquali fosse un uomo superficiale enoioso. Mi sbagliavo su entrambe le cose.

Questo mio iniziale giudizio era ancora predominantequando, l’anno dopo essere stato esercitatore di Carda-relli, mi fu assegnato lo stesso compito, ma per il corsodi Pasquali. La materia era la stessa insegnata da Car-darelli l’anno precedente. Credevo, con presunzione, cheavrei sbaragliato Pasquali nel gradimento degli studentivisto che il mio, dopo la cura Cardarelli, aveva subitouna drastica impennata.

Non fu affatto cosı. Pasquali era un ottimo docente.Forse un po in crisi di motivazione quando ci incontram-mo, professionalmente, quella prima volta.

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Il nostro corso era programmato dalle otto alle diecidel mattino. Tre giorni a settimana. Incontrai Pasqualidopo la prima lezione. Mi disse: «Ho detto ai ragazzi chefaro lezione dalle otto e trenta alle dieci. Cosa vuoi. Nonfaccio interruzioni, sommo i quindici minuti del quar-to d’ora accademico della prima e della seconda ora e. . .». Lo interruppi. «Sono sicuro che hai parlato a tito-lo personale. Io comincio alle otto». «Ma nun te ce vie’nessuno!». «La vedremo» replicai e su questo sapevo ilfatto mio. Su questo argomento torneremo piu avanti,quando parlero della mia esperienza di docente a Fisica.

Un primo scossone, nella nostra collaborazione, siebbe alla prima prova scritta. Dopo la prova, Pasqualiaffisse le soluzioni sulla sua porta. Sembravano un de-lirio di onnipotenza. Tre righe per spiegare esercizi cheandavano svolti in due ore, magari su tre facciate.

Appena lo incontrai non mancai di fargli conoscere ilmio pensiero fornendogli un consiglio non richiesto. Glidissi che avevo notato sulla sua porta la presenza dei fo-gli con le soluzioni degli esercizi assegnati per il compitoin classe. Gli parlai chiaro: «Oggettivamente, quelle trerighe di geroglifici non spiegano un bel niente. Sembranoun esercizio di vanita fatto soltanto per sottolineare ladistanza fra te e i ragazzi. Se vogliamo affiggere le solu-zioni, allora questi fogli devono aiutare i ragazzi a capiredove hanno sbagliato e come avrebbero dovuto svolgereil compito. Come le scrivi tu, non servono a nessuno!».

Ottimo incassatore, Pasquali fece finta di non dareimportanza alle mie parole. Ma da allora, niente fu piulo stesso fra di noi. Cominciammo a dialogare e a con-frontarci su come insegnare. Mi accorsi di quante cose

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mi poteva insegnare Pasquali, prima fra tutti una abne-gazione totale verso i suoi studenti. A sua volta Pasqualiapprezzo il mio entusiasmo per l’insegnamento e credoche questo contribuı a velocizzare un fenomeno certa-mente gia in atto. Tutto l’orgoglio del fuoriclasse cheaveva deciso anzitempo di tirare i remi in barca, vennefuori prorompentemente.

Oggi il suo sito e un vero spettacolo. Ha piu visitatoridi quello di qualunque altro docente e anche di parecchiestar del cinema. E contiene infinite soluzioni di esercizi,frutto del suo instancabile lavoro, che allora comincio (oforse semplicemente ricomincio).

Seppi, per caso, e solo molti anni dopo, che avevoincontrato Pasquali in un momento drammatico dellasua vita. E che, probabilmente, non aveva “deciso” ditirare i remi in barca. La vita aveva deciso per lui. Lamia ammirazione per lui crebbe ancora. La sua capa-cita di regalare a tutti un sorriso mi sembro, in quellecircostanze, un dono di equilibrio e saggezza.

E, ancora una volta, dovetti fare i conti con la vergo-gna che provo quando capisco come sia facile giudicaresenza capire assolutamente niente.

Sullo spessore intellettuale del Pasquali, oramai, nonnutrivo alcun dubbio. Non mi facevo piu ingannare quan-do, talvolta, “faceva il fesso per non pagare dazio”.

Per principio rispettava le gerarchie. Lui era professo-re associato, un gradino sopra il ricercatore, ma un gra-dino sotto il professore ordinario. Certe decisioni spetta-vano ai professori ordinari e quindi non a lui. Il fatto che,

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spesso, proprio Pasquali fosse l’unico capace di svolgerecerti compiti, non gli scrollava di dosso questa visione,tutto sommato romantica, del suo ruolo.

Era capace di una ironia tagliente ed esilarante. Adesempio, un giorno, chiesi di parlargli per una questio-ne di comune interesse, non importante, ma abbastanzaurgente. Mi disse che doveva fare sorveglianza ad unoscritto, ma che gli studenti erano pochi, l’aula grandee quindi, se lo avessi raggiunto in quella sede, avrem-mo potuto proficuamente utilizzare quel tempo. Andaiall’ora convenuta. Gli studenti erano posizionati in ma-niera abbastanza casuale. Alcuni lontanissimi fra loro,altri piu vicini ma, comunque, non a portata di facilisuggerimenti.

Mi sedetti accanto a lui e cominciammo a parlarea bassa voce per non disturbare i ragazzi. Ad un certopunto notai che due studenti cercavano di scambiarsiinformazioni confidenziali: di copiare, insomma! E lofeci notare al Pasquali. Lui mi disse che questo non erail suo corso!

In effetti Pasquali faceva lezione, senza che si sapesse,per conto di una docente che, evidentemente, riteneva diavere cose piu importanti da fare. Il Pasquali non chie-deva in cambio non dico di essere pagato, ma nemmenoche i colleghi sapessero quanto si dedicasse all’istituzio-ne. Insomma, obiettivamente, lui stava facendo molto dipiu della sua parte. Non gli sembrava il caso di esseretroppo fiscale.

Non colsi l’aspetto, pure cosı eclatante, della sua de-dizione. Mi scocciava che il suo atteggiamento accomo-

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dante servisse a coprire un comportamento poco edifi-cante di un’altra docente. Ma, dopotutto, avevamo que-sta cosa da finire e continuai a parlargli del nostro pro-blema.

A quel punto, vidi una scena che proprio non potevofare finta di ignorare. Una ragazza si era alzata dal pro-prio banco e si sporgeva con tutto il corpo. Cercava diadocchiare il compito scritto della collega che si trovavadue file davanti a lei. La distanza era notevole e la po-veretta, per quanti sforzi facesse, non riusciva ancora arendere efficace la sua, pur notevole, agilita corporea. Aquel punto, sdegnato, mi rivolsi al Pasquali e lo pregaidi intervenire. Dapprima scettico, capı che non avrem-mo ripreso a lavorare finche non avesse dato un segnaledel nostro disappunto alla studentessa in questione.

Pasquali, molto flemmaticamente, si alzo dalla se-dia. Attento a non fare rumore, si avvicino in modo daposizionarsi di fronte alla ragazza in questione che, con-tinuando a guardare verso il basso, non si accorse diniente. Dentro di me gongolavo. Pensavo che avrei vi-sto la giustizia trionfare. Adesso Pasquali certamente lefara una ramanzina esemplare, minacciandola, con tonosevero, di ritirarle il compito. . .. Pasquali invece mor-moro appena un: «Signorina?». Naturalmente, data lavicinanza e la coda di paglia, il soggetto in questione,che fino ad un istante prima si contorceva sforzandosidi mettere a fuoco una formula scritta a tre metri didistanza, alzo lo sguardo e vide Pasquali. Lui, sporgen-dosi delicatamente verso di lei con tutto il suo corpo, conun sorriso dolcissimo, si sfilo lentamente gli spessissimiocchiali e, porgendoglieli disse: «Le possono servire?».

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A quel punto la contorsionista, nel movimento tipi-co delle testuggini, ritiro la testa, ad un tratto divenutapiccolissima. Riprese la sua posizione naturale rannic-chiata nel suo guscio, e da lı non uscı piu per il restodell’esame.

Che lezione di stile per me! E che scoperta! IlPasquali, per improvvisare una scenetta di questo li-vello, doveva essere un uomo dotato di notevole sensodell’umorismo!

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Il passaggio a Fisica

Il professor Pasquali, che oramai riconoscevo come pietraangolare del Dipartimento di Matematica, aveva sempreun’aria apparentemente stonata. Immaginate il tenenteColombo e vi farete una buona idea di Pasquali.

Un giorno, nel suo studio, mi disse che stava perverificarsi il temuto evento. Il prof. Petito sarebbe an-dato fuori ruolo l’anno successivo. E non avrebbe piuinsegnato il “suo” corso a fisica. Pasquali mi fece capi-re che la presenza di un “giovane ordinario”, per sosti-tuire l’ordinario uscente, sarebbe stata auspicabile mache, certo, i nostri giovani professori ordinari non sem-bravano sbranarsi l’un l’altro per competere per quellaposizione. Fece finta, come suo solito, di avere un ruolocompletamente marginale e di essere rassegnato al peg-gio. Avrei capito, col tempo, che il Pasquali si sarebbeamputato un dito senza esitazione, se lo avesse ritenutonecessario per dare ai suoi ragazzi quello di cui avevanobisogno. Pertanto, non esito minimamente a blandirmiin tutti i modi possibili, avendo gia deciso, forse a causadella nostra precedente esperienza di insegnamento, cheio fossi il suo uomo. La persona giusta, al posto giusto.Mi arruolo e, con grande sensibilita, ebbe cura di far-mi credere che avessi preso io la decisione, in perfettaautonomia.

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Dovette faticare pochissimo. Quasi nessuno si curavadi me a quel tempo (che ancora dura). Certo c’era Car-darelli, ma la nostra era una stima platonica. C’eranoamici e colleghi che stimavo. Ma non avevo nessun com-pagno di ventura di cui, invece, io sentivo fortemente ilbisogno.

L’unica dote che tutti mi riconoscevano, modesta-mente, era quella di essere un Super-Rompiscatole. Fa-stidioso. Anche se, tutto sommato, innocuo. L’idea cheandassi volontariamente in esilio a Fisica passo lisciacome l’olio, sostanzialmente inosservata.

Pasquali invece, seppe fare leva su tutte le mie de-bolezze. E punto, in particolare, sulla mia incurabiletendenza a sognare ad occhi aperti.

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Il professor Petito

Ma chi era questo Petito di cui mi aveva parlato Pa-squali? E soprattutto qual’era la sua visione dell’inse-gnamento? E importante avere un’idea della sua impo-stazione per capire quanto la mia o quella di Pasqualifossero radicalmente diverse.

Il professor Petito, a quel tempo, era una vera e pro-pria istituzione. Comincio ad insegnare analisi matema-tica “a Fisica” (abbreviazione per dire “nel Corso diLaurea in Fisica”) subito dopo la prematura scompar-sa di Ramsete II o forse appena dopo. Nessuno se loricorda.

Il suo corso era una maratona. Non c’erano orari.C’era solo un susseguirsi frenetico di lezioni dal conte-nuto esaltante. Il Petito insegnava i due corsi che, allora,si chiamavano Analisi I e Analisi II. In teoria un totaledi 240 ore di lezioni. Ma, in pratica, gli argomenti che luitrattava superavano sia in estensione che in profondita,quello che si insegnava “a Matematica” in 480 ore. Petitocominciava le lezioni ad un orario preciso e poi andavaavanti fino all’esaurimento delle forze.

Generazioni di scienziati di fama mondiale si eranoformati a Fisica. Avevano seguito le lezioni di Petito edi altri docenti considerati dei veri mostri sacri e cheinsegnavano corsi dai nomi prestigiosissimi che incute-

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vano soggezione: Meccanica Razionale, Fisica Generaleed altre meraviglie.

Il prof. Petito non si occupava minimamente di cosaapprendessero i suoi studenti. Tanto meno se ne preoccu-pava. Sapeva che “i bravi” lo avrebbero amato per sem-pre e che, i meno bravi, lo avrebbero odiato solo fino almomento dell’esame. Qui lui poneva una prima doman-da alla quale, di solito, non sapeva rispondere nessunodei presenti (colleghi inclusi). Dopo l’inevitabile scenamuta, proponeva una seconda domanda, questa voltaragionevole. Una buona risposta garantiva il 30. Una pes-sima, il 27. A questo punto la classe si ricomponeva inuna generale approvazione.

Nessuno sapeva in quale spelonca vivesse il prof. Pe-tito. Ma vedendolo arrivare all’universita si poteva fa-cilmente decidere se fossimo in estate o in inverno, in-dipendentemente dalla temperatura esterna, osservandoil colore del suo vestito. Marrone d’inverno (sempre lostesso e molto liso), grigiolino d’estate (diverso dal primoe leggermente meno consunto).

Petito non era stato uno scienziato di fama mondia-le, al contrario di alcuni suoi colleghi che insegnavanoa Fisica in quegli anni. Tuttavia Petito aveva indubbia-mente incarnato un’epoca. L’epoca del docente che nonha dubbio alcuno sul suo ruolo. Selezionare rapidamenteed inesorabilmente, non i migliori, di cui non necessaria-mente ci si doveva occupare, ma invece solo e soltanto lementi nettamente superiori. Se, per ipotesi, non vi fossestato nessun elemento eccezionale nella sua classe, Peti-to avrebbe parlato a se stesso, senza rimorsi o dubbi dialcun genere.

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Ma c’erano sempre fra i dieci e i venti studenti l’annoche, invece, sarebbero diventati i fisici e, talvolta, i mate-matici del domani. Per quelli Petito restava un mito po-sitivo. I testi dei suoi esami scritti erano impressionanti.Alcuni esercizi restano, a tutt’oggi, irrisolti.

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Un cambio

nelle regole del gioco

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Il passaggio al “3 + 2”

Il gruppo degli analisti di cui faccio parte, quell’anno fuinvestito, come tutto il mondo universitario, da una del-le tempeste ricorrenti provenienti dal Ministero. Nientepiace di piu ai politici, che cambiare nome alle cose.Creare nuovi contenitori (non importa se privi di conte-nuto), segnare, attraverso la creazione di neologismi divario genere, il passaggio di onorevoli nella venerata pol-trona di ministro della Pubblica (D)Istruzione, poi dellaRicerca Scientifica. Anche questi ministeri cambiano no-me una volta l’anno e io non ricordo mai l’ultimo. Quel-l’anno stava per entrare in vigore la riforma denominata,per brevita, del 3+2.

Enumerare tutte le riforme della scuola dei vari ordi-ni proposte dal legislatore negli ultimi dieci anni, richie-derebbe una digressione lunga e noiosa. Dire che peralmeno una di queste riforme si sia avviata una seriaanalisi del riscontro dei suoi effetti, corrisponderebbe aduna pietosa bugia. Il governo A vara una riforma ma, almomento di una eventuale verifica dei suo effetti, il go-verno B e impegnato a stravolgere la precedente riformae quindi non e interessato a misurarne l’efficacia.

Il caso della riforma 3+2 pero, credo che meriti unariflessione a parte. Il nostro sistema universitario, primadella riforma, era stato oggetto sia dall’interno che dal-

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l’esterno di molte critiche. La piu radicale di queste criti-che consisteva nell’osservazione, facilmente documenta-bile, che la stragrande maggioranza delle persone che siiscrivono all’universita incontra grandi difficolta. Mol-ti abbandonano. Altri si laureano ma, mediamente, inun tempo molto maggiore di quello che sarebbe previstodall’ordinamento del corso di studi.

Un ulteriore elemento di riflessione veniva dalla Co-munita Europea. In tutta Europa si stavano studiandoda tempo meccanismi per favorire la mobilita dei lavo-ratori. Un punto cruciale, anche se soltanto preliminare,e quello di riconoscersi fra nazioni amiche il diritto dietichettare titoli di studio fra di loro equivalenti. Adesempio, si stava cercando di capire come si facesse afare in modo che un “avvocato” italiano potesse eserci-tare in Francia e viceversa. Sembrava opportuno, se nonproprio inevitabile, operare affinche almeno il numerodi anni di studio per conseguire un certo titolo dovesseessere reso uguale in tutti gli stati membri.

La Comunita non era riuscita a suggerire un suonounico per il simbolo dell’euro, ed aveva prodotto unababele di suoni per quello che doveva rappresentare ilsimbolo della nostra unificazione. Naturalmente la mo-tivazione e validissima. Perche mai gli italiani dovreb-bero privarsi del piacere di udire la soave musicalita delsuono “euri”? E analoghe motivazioni valgono per tuttigli altri europei! Tuttavia a me pare strano che dovendoconiare un nuovo suono che, forse tristemente, dovrebbeessere uno dei simboli dell’unita della vecchia Europa,non ci sia posti l’obiettivo di intendersi fra europei. In-tendersi emettendo suoni assai diversi persino per pro-

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nunciare la nuova parola “comune” non mi sembra unbuon inizio.

Eppure simultaneamente il Governo Italiano decide-va di adottare un sistema universitario ispirato alla tra-dizione anglosassone adducendo, piu o meno esplicita-mente, la motivazione di voler rendere piu simili fra lorotutti i corsi di laurea d’Europa!

Le intenzioni erano lungimiranti ma, francamente,ambiziose. Decisamente.

Il fatto che, in Italia, la riforma del 3+2 abbia pro-dotto la nascita di quasi cen–to–mi–la diverse denomi-nazioni di corsi di laurea, la dice lunga sull’efficacia del-l’implementazione. Non ho detto “centomila” tanto perdire. Si e arrivati, in un colpo solo, ad un numero vi-cinissimo a centomila. Prima della riforma ce ne eranomeno di mille.

Diciamo che si e trattato di uno spiacevole effet-to collaterale. D’altronde la storia recente dell’umanitasembra essere afflitta da questo tipo di effetti.

In questo contesto, dettato anche dalle considerazio-ni appena esposte, molti corsi di laurea pre-riforma chetradizionalmente avevano una durata di quattro anni,decisero di aderire all’idea di una laurea “breve”, delladurata di tre anni, ed una laurea “specialistica”, poten-zialmente a seguire, della durata di due anni. In teoria sisarebbe potuto scegliere di passare semplicemente ad uncorso della durata di tre anni, senza specializzazioni. Maquesto deve essere accaduto in un numero ridottissimodi casi di cui, ad ogni buon conto, non ho notizia.

Qualcuno combatte subito, prima ancora della loroistituzione, una battaglia (vinta!) per respingere la di-

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zione “laurea breve”, in quanto considerata riduttiva evagamente offensiva. E via, mesi di appassionate discus-sioni su come si chiamera un soggetto che ancora nonesiste.

Quasi tutti i docenti universitari hanno la tenden-za, tipica degli italiani, ma distrofica nella nostra comu-nita, di credersi i piu furbi del reame. Corsi di laureaquadriennali che, all’epoca, avevano soltanto una man-ciata di matricole (ovvero di utenti per anno) decise-ro che, contestualmente al passaggio al 3+2, avrebberodiversificato l’offerta formativa.

Tradotto in linguaggio concreto, avrebbero “fonda-to” una miriade di corsi di laurea, dai nomi esotici, perabbindolare gli studenti che, a loro parere, non si iscri-vevano ai “loro” corsi di laurea solo per un equivococulturale. Uno spiacevole malinteso che faceva pensa-re, a questi poco avveduti studenti, che questi corsi dilaurea fossero noiosi, durissimi e senza grandi sbocchiprofessionali.

Clamoroso fu il caso di un corso di laurea con 16 ma-tricole che chiese formalmente al preside della Facolta diScienze di far nascere 9!! nuovi corsi di laurea triennale.Al momento della decisione, un piccolo moto di vergo-gna (o di invidia?), percorse gli altri colleghi e si ad-divenne ad una “diversificazione dell’offerta formativa”che si potrebbe definire “meno articolata”.

Recentemente, si e dovuto nuovamente legiferare permettere un freno, se non un riparo, a questo prolifera-re selvaggio di corsi si laurea: diecimila corsi di laurea,in ogni corso di laurea mediamente venticinque insegna-menti. Sono un matematico e non amo fare conti inutili.

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Si capisce, anche senza fare la necessaria moltiplicazione,che la liberta offerta dalla riforma aveva finito per cau-sare un infernale guazzabuglio: troppi spezzettamenti,troppi nomi diversi per indicare contenuti simili se noncoincidenti e cosı via.

Fatto sta che bisognava ricominciare da capo. Gli or-dinamenti in vigore dovevano essere cambiati e dovevanorispettare una serie di nuovi vincoli.

Fisica decise di passare da un corso di laurea delladurata di quattro anni ad uno articolato in una laureadella durata di tre anni (quello inizialmente chiamato“laurea breve”), seguito da una laurea specialistica del-la durata di due anni. Almeno in teoria la stragrandemaggioranza degli studenti avrebbero smesso dopo il pri-mo triennio, considerato “professionalizzante”. In que-sto modo sarebbero entrati nel mondo del lavoro con unanno di anticipo rispetto al sistema precedente. Il suc-cessivo biennio sarebbe stato una specializzazione pen-sata per quella minoranza che desiderava prepararsi persvolgere lavori particolarmente qualificati. Questa tran-sizione, dal nome della riforma che l’ha generata, vienedi solito chiamata “passaggio al 3+2”.

Furono introdotti anche due altri cambiamenti im-portanti. Invece di offrire corsi con cadenza semestrale,come si era fatto fino ad allora, si decise per dei corsi“trimestrali”: tre trimestri, invece dei classici due se-mestri. Gia che c’erano, potenza dei numeri, l’origina-le e gloriosissimo Corso di Laurea in Fisica fu rifonda-to per fare sorgere tre nuovi corsi di laurea. Il primosi chiamava Nonmimuovo. Il secondo Cerapureprima. Ilterzo, Nonandateadinformatica. Nonostante questa pic-

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cola cosmesi, va dato atto che fisica, e ancora di piumatematica, fecero delle scelte abbastanza ragionevoli.Certamente meno velleitarie di altri corsi di laurea.

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Primi conflitti di interesse

Come mai si era improvvisamente sviluppato questo in-teresse attivo ad attrarre un maggior numero di studentinei vari corsi di laurea?

La preoccupazione sul calo degli iscritti nelle facoltascientifiche ed in particolare nei corsi di laurea in ma-tematica ed in fisica, non era un fenomeno nuovo all’in-terno del mondo accademico. Tuttavia l’idea di porviseriamente rimedio era relativamente recente. In buonaparte dovuta al fatto che dal ministero erano cominciatiad arrivare messaggi minacciosi: si sarebbe valutato ilrendimento dei corsi di laurea. Cominciava a serpeggiarel’idea che avere pochi studenti iscritti potesse portare aduna penalizzazione in termini di erogazione di risorse daparte del ministero. Indubbiamente si sarebbe trattato,come si e potuto constatare in seguito, di un fenomenomolto lento. Tuttavia apparentemente ineluttabile. In-somma pochi iscritti e pochi laureati poteva diventaresinonimo di pochi soldi. Molti iscritti e molti laureati,invece, sinonimo di molti soldi. Si sa, la carne e debo-le. Da qui il fiorire di tante nuove proposte e la citatafrenesia di “diversificare l’offerta formativa”.

Fin qui tutto appare abbastanza razionale. C’e unadomanda di rinnovamento da parte del mondo della po-

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litica che raccoglie il consenso dei cittadini. Si tenta didare una risposta. La richiesta principale e di aumen-tare il numero delle persone che si laureano in materiescientifiche. Simultaneamente si chiede che i tempi perlaurearsi si accorcino. Ne sarebbe dovuto conseguire unridimensionamento dei programmi di studio. Su questopunto invece le cose sono state molto meno razionali. Al-meno per quanto riguarda l’analisi matematica nel corsodi laurea in fisica della nostra citta, si sarebbe continuatoad insegnare essenzialmente tutto quello che si insegnavanel vecchio corso di laurea.

Il primo Cavallo di Troia fu l’introduzione dei tri-mestri a cui ho accennato. Si potrebbe pensare che untrimestre di lezioni duri tre mesi e tre trimestri duri-no quindi nove mesi. In definitiva, quindi, si potrebbepensare che ben tre mesi (spalmati lungo l’anno accade-mico) vengano lasciati ai ragazzi per preparare gli esamie poi sostenerli. In realta le cose stavano diversamen-te. I “trimestri” significavano cinquanta o sessanta oredi lezione, impacchettate, inzeppate, in dieci settimane.Dieci settimane o sessanta ore per apprendere quello cheprima si doveva apprendere in un anno e centoventi oredi lezione.

In questo modo sarebbe stato possibile raddoppiare ilnumero degli insegnamenti proposti. Si sarebbero potutiinserire dei corsi con denominazioni nuove, accattivanti,che certamente avrebbero attratto nuovi studenti.

I nostri interlocutori, a Fisica, avevano le idee chia-rissime su come risolvere questo apparente paradosso.L’unica precauzione doveva essere quella di decurtare

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gli insegnamenti da tutto quello che, a ben guardare,risultava inutile se non addirittura dannoso.

Basta cincischiare! Via, dalle lezioni, tutte le “dimo-strazioni” di “teoremi”. Una perdita di tempo intollera-bile! Visto che si dicono cose vere, teoremi appunto, ache cosa serve spiegare perche sono vere? Gli studentisi possono tranquillamente fidare. Si usera invece tuttoil tempo dei docenti e degli studenti per fornire a questiultimi soltanto un vasto campionario di utilissime for-mule. Esse sono il risultato di un ragionamento logicoche non giova sottolineare.

Con queste formule “gratta e vinci”, i colleghi cheavessero insegnato simultaneamente i corsi di altre di-scipline che si limitano ad usare la matematica, avreb-bero proficuamente potuto andare subito al sodo, senzainutili perdite di tempo: un vero “uovo di Colombo!”.

Ma non basta. Fu operato un altro, devastante, cam-biamento. Tradizionalmente, nei vecchi corsi di laurea,finite le lezioni, gli studenti avevano a disposizione unadiscreta quantita di tempo da dedicare allo studio indivi-duale, nei giorni che precedevano la prova finale, scrittao orale che fosse.

Per il nuovo corso di laurea, si era deciso, non soquanto consapevolmente, che questo tempo fosse enor-memente compresso se non, di fatto, quasi annullato.

Niente esami di fine corso. Anche questi dovevanoconsiderarsi un retaggio del passato. Nel rinnovato cor-so di laurea, invece, rappresentavano una vera e propriacongiura, il cui unico scopo era di favorire ulteriori, in-

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tollerabili, perdite di tempo! Per giudicare gli studentisi useranno solo dei “compiti in classe”, tenuti senzasenza preavviso e rigorosamente nelle ore di lezione (chequindi in questo modo diminuivano ulteriormente).

Il suggerimento era che si entrasse in classe e, in-vece di fare lezione, si dicesse: «Oggi ho deciso di farvipassare una brutta giornata. Tutto quello che direte, po-tra essere usato contro di voi». Questi compiti in classefurono battezzati “verifiche in itinere” per rispettare laferrea e consolidata tradizione che cambiare nomi allecose le nobilita.

Purtroppo la discussione si e fatta tecnica. Prima dicercare di spiegare, facendo mille passi indietro, il noc-ciolo della questione, vorrei notare un dettaglio curioso.Quasi tutte le modifiche introdotte nel nuovo ordina-mento dei corsi di laurea venivano, di fatto, decise daidocenti. Alcune fra queste modifiche comportavano, peri docenti che le avessero prese alla lettera, un alleggeri-mento sostanziale del carico di lavoro: i compiti in clas-se durante le ore di lezione, la soppressione degli esamiorali ed altre cose ancora, rappresentavano un indubbio“sconto” sul carico lavorativo dei docenti.

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Chi decide cosa si insegna?

La tentazione di riversare sul ministro tutte le responsa-bilita dei problemi dell’universita e diffusa almeno quan-to quella di bere una bibita gelata prelevata dal frigo inuna torrida notte d’estate. Tuttavia molte decisioni ditipo strategico su cosa si insegna, come e quando, nonle prende direttamente il ministro. Vengono prese da unorganismo a cui hanno diritto di partecipare, nel casoche stiamo considerando, piu di duecento persone. Inpratica le riunioni di questi organismo, chiamate “Con-sigli”, vengono solitamente frequentate soltanto da unatrentina di volenterosi professionisti della politica (uni-versitaria). Proprio come in parlamento. I professionistirappresentano, legittimamente o meno, soltanto il loroparticolare interesse.

Io stesso, in quel periodo, ho impiegato molte ener-gie per fare valere il mio punto di vista nell’ambito deiConsigli a Matematica.

Ogni volta che ci trovavamo a prendere delle decisio-ni, molti colleghi non conoscevano nemmeno i rudimentidi quello che si sarebbe dovuto discutere e su cui erava-mo chiamati a decidere in tempi strettissimi. Non c’erada biasimarli. Per farsi una competenza era necessarioun grande investimento di tempo che i piu non avevanofatto, chi per un motivo, chi per un altro. Mai, primadi allora, il mondo universitario aveva avuto cosı tan-

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ta autonomia nelle decisioni. In questo senso eravamoquasi tutti impreparati. Qualcuno si rimbocco le mani-che e qualcun altro non si dedico abbastanza da poterseriamente incidere.

Un punto cruciale che va sottolineato e che i mecca-nismi di autogoverno in ambito universitario sono tuttiassembleari.

Per capire rapidamente facciamo un esempio. La no-stra Camera dei Deputati si compone di 630 parlamenta-ri. Insieme ai senatori abbiamo 945 persone che, poche omolte che siano, dovrebbero essere sufficienti a mandareavanti una nazione di oltre 57 milioni di abitanti.

In ambito universitario invece abbiamo un sistema,che, se applicato alla nazione, produrrebbe 57 milioni dirappresentanti.

In questo modo le decisioni sono molto difficili daprendere. D’altro canto la responsabilta risulta enorme-mente diluita. Infatti, chi di noi potrebbe andare tuttii giorni in parlamento a votare? Ed inoltre, con qualecompetenza potrebbe votare su questioni complesse?

L’unica possibilita per riuscirci e di decidere di de-dicarsi quasi a tempo pieno a questo aspetto di politi-ca universitaria, dedicando pero meno energie ad altridoveri accademici. A quel punto le proprie possibilitadi incidere aumentano enormemente. Pochi lo fanno equesti pochi prendono le decisioni. Molti degli altri nonpartecipano alle riunioni nelle quali vengono prese de-cisioni importanti, spesso in aule altrettanto deserte diquelle che, tristemente, si vedono alla televisione quandosi discute in parlamento di provvedimenti “minori”.

Il fatto che io sia stato, a volte, fra questi pochi chehanno inciso, non mi fa cambiare idea sul fatto che ci

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sia un eccesso di rappresentanza e, conseguentemente,un enorme difetto di assunzione di responsabilita.

In altre nazioni si arriva, in certi casi, ad individuareun solo dirigente per il corso di laurea. Con piu potere sesi vuole, ma anche con maggiori responsabilita. Questidirigenti vengono controllati e, a volte, persino rimossidal loro incarico.

Nel caso della riforma 3+2, in molti corsi di laurea haindubbiamente prevalso, fra coloro che hanno veramen-te deciso, la speranza che moltiplicando i corsi e fran-tumandoli in tanti mini-corsi, si potesse piu facilmentegiustificare il fatto che, ad esempio, 200 docenti inse-gnassero a 300 matricole. E che magari in questo modosi sarebbero potute motivare richieste di ulteriori risorsefinanziarie.

Come fu acutamente osservato da un collega fisicoad una assemblea di studenti e docenti alla quale parte-cipai, si trattava di un colossale conflitto di interessi. Idocenti stavano decidendo i termini e le condizioni delloro nuovo lavoro. Gli studenti, in teoria rappresentati,non avevano gli strumenti per poter pienamente capirequello che stava per passare sulla loro testa. Troppe in-formazioni decisive erano, di fatto, a loro completamenteprecluse.

Le decisioni prese quindi, sebbene maggioritarie, nonriflettevano il consenso che, apparentemente, esprimeva-no. Chi non fu disponibile ad una piccola guerra di trin-cea nelle estenuanti riunioni in cui si prendevano le de-cisioni, rimase di fatto tagliato fuori dal processo deci-sionale, indipendentemente dalla bonta delle sue idee.

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La vittoria di una certa linea fu netta. Io speravoche non sarebbe risultata definitiva e anche per questonacque il dream-team.

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Il dream-team di Fisica

Che piacesse oppure no i corsi cambiarono nome e, so-prattutto, durata.

Senza ombra di dubbio questa fu una occasione stori-ca di rinnovamento, purtroppo non colta a pieno. Final-mente eravamo tutti costretti a ripensare ai contenuti.Le voci di una imminente catastrofe culturale si mol-tiplicarono: «Il grandioso livello delle lezioni del corsoquadriennale si abbassera in maniera scandalosa per farposto ad una licealizzazione delle universita». Secondoquesto punto di vista, il cielo, inevitabilmente, ci sarebbecascato sulla testa.

Pero, a ben guardare, questo “grandioso” livello deicorsi di vecchio stampo era virtuale, visto che le stessepersone che sostenevano questa tesi dichiaravano simul-taneamente che la stragrande maggioranza dei laurea-ti non sembrava avere quella preparazione straordinariache ne sarebbe dovuta conseguire.

Intendiamoci. Le premesse per un ulteriore peggio-ramento c’erano tutte. Ma mi intristiva e mi irritaval’atteggiamento dei moltissimi sostenitori dell’idea che,visto che il malato era terminale, tanto valeva dare unamano ad accelerare la fine.

E devo dire che i volontari per questa missione uma-nitaria non sono mancati.

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Il mio punto di vista, come quello di altri, era sempli-ce e forse semplicistico. Certo non saremo mai in gradodi insegnare tutte le cose che insegnava Petito, e a quellivello di profondita. Era impossibile in un quarto deltempo. D’altronde, sebbene Petito avesse in classe 200studenti, in realta faceva lezione soltanto a dieci di loro.Gli altri erano comparse, buone a riempire l’aula, ma,di quello che faceva Petito a lezione, loro imparavano sie no il 10 percento. Se avessimo saputo dare ai “nostri”200 studenti, il 20 per cento di quello che dava Petito aisuoi, avremmo fatto un ottimo lavoro.

Gli studenti eccellenti sarebbero stati penalizzati?Probabile. Ma sull’altro piatto della bilancia c’era lasperanza che avremmo potuto cercare di far diventa-re eccellenti persone che, con Petito, sarebbero rimastetagliate inesorabilmente fuori. Sarebbero state condan-nate, fin dal primo giorno, ad un inseguimento senzasperanze: se non si avesse gia acquisita una solida pre-parazione alle scuole superiori, stare dietro a Petito eraimpossibile.

In quegli anni, il punto di vista vincente a Fisica(come gia illustrato non necessariamente maggioritario,ma comunque vincente) era ispirato al dettato filosoficoche la matematica e come un martello. Un vile strumen-to che si deve acquisire, infilare nella borsa, ed usarenelle rare occasioni in cui non se ne puo fare a meno.Quindi perche perdere addirittura mesi per imparare indettaglio come funziona?

E un ragionamento stupefacente, ammesso che possaessere definito un ragionamento. E difatti non venivaformulato nella maniera che ho fatto io. Semplicemente

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ci fu suggerito di usare le prime lezioni per fornire unalista di regole di un certo tipo. Senza spiegarne in alcunmodo il significato razionale.

Come ebbi a dire in una delle riunioni sull’argomen-to, ci sono due problemi in questo approccio. Il primoe che quando si cerca di insegnare ad una persona in-telligente rinunciando ad avvalersi di questa intelligenzaper fare appello ad altre doti, magari alla memoria, siproduce un senso di profondo malessere nell’ascoltatore.Infatti chi si iscrive a Fisica desidera esattamente impa-rare secondo un progetto logico e non secondo un metodoimprontato ad una apparente ma effimera convenienza.

Il secondo problema e che, in media, le persone in-telligenti sono incapaci di applicare una regola se non nehanno compreso il significato.

Quindi se la matematica fosse veramente un martel-lo, allora bisognerebbe tenere conto che, se non usatocorrettamente, potrebbe dare dei forti dispiaceri: ba-sta frequentare un pronto soccorso per rendersene con-to. Inoltre, con questo martello, si potrebbe scolpire laPieta, oppure spiegazzare chiodi. L’approccio che ci ve-niva suggerito avrebbe finito per produrre chiodi spie-gazzati e dita ammaccate in quantita.

In controtendenza, noi formammo “il team-di-fisica”.Una vera e propria operazione carbonara. Il Pasqualiera il Grande Vecchio ed in qualche misura il mandan-te. Corradino D’Ascia, un giovane ricercatore di cui viparlero in seguito, era l’ispiratore ed io, oggettivamente,fungevo da indispensabile sicario. Ero l’unico professoreordinario. E per questo il Pasquali mi aveva voluto conse.

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La ragione sociale del nostro piccolo club era sem-plice. Volevamo dopotutto imitare quello che in altrenazioni e uno stile condiviso. La parola chiave direi chefosse coordinamento. Facciamo un esempio.

Supponiamo di iscriverci al corso di laurea denomi-nato “La storia di Topolino”. Si tratta di un corso delladurata di due anni ma assai impegnativo. Si vuole di-ventare esperti di un fumetto che ha una lunghissimastoria e tantissimi personaggi. L’impresa e difficile.

Al primo anno si iscrivono 100 studenti. Troppi peruna sola classe. Pertanto si procede a formare due clas-si da 50 elementi. In entrambe, gli studenti seguirannoil corso “Trattazione elementare della storia di Topoli-no”. Sono quindi necessari due docenti diversi per poterinsegnare tale corso: vengono scelti Gastone e Paperino.

Alla fine del primo anno, soltanto una cinquantinadi studenti avranno superato l’esame. E questi “super-stiti” frequenteranno il corso del secondo anno. Quindinon sara piu necessario formare due classi. Il nuovo cor-so, quello del secondo anno, e denominato: “Trattazioneavanzata della storia di Topolino” e sara insegnato da unterzo docente, Clarabella. Nella sua classe confluirannotutti gli studenti che hanno superato il corso di “Trat-tazione elementare”. Alcuni provengono dalla classe incui ha insegnato Paperino ed altri, invece, dalla classein cui ha insegnato Gastone.

Tutti questi studenti hanno gia seguito il corso di“Trattazione elementare”, sostenuto il relativo esamee pertanto sono pronti per intraprendere lo studio di“Trattazione avanzata”.

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Qui cominciano i dolori. Infatti, come e ben noto, Pa-perino e Gastone si parlano raramente. Quando lo fannofiniscono per litigare furiosamente. Accade cosı che, nelpieno rispetto della Legge, sia Paperino che Gastone de-cidano di redigere un programma, di per se ragionevole,ma non concordato.

Paperino, per sua indole, si trova piu a suo agio conle storie che riguardano lo Zio Paperone. Pertanto i suoistudenti escono dal corso da lui insegnato con una egre-gia preparazione sul famoso “avaraccio”, ma senza maiaver letto nemmeno una storia su Topolino. D’altro can-to, sempre per questioni caratteriali, Gastone prediligele storie che lo riguardano personalmente, che insegnacon grande dovizia di particolari e, naturalmente, conindiscutibile competenza. I suoi studenti sono ferratissi-mi su tutte le storie in cui si narra la sfacciata fortunadi Gastone. Purtroppo, pero, anche loro non hanno maiavuto il tempo di leggere le storie su Topolino.

Nessuno puo dire che la scelta di Paperino sia sba-gliata o che quella di Gastone sia meno avveduta diquella di Paperino. In definitiva, per laurearsi in Storiadi Topolino, bisognerebbe conoscere bene tutta la storiadi Topolino. Quindi, in ossequio alla liberta di insegna-mento, nessuno, nemmeno il ministro, puo impedire aPaperino o a Gastone di operare come hanno fatto.

A questo punto sorge spontaneo domandarsi cosafara Clarabella. La docente dovra insegnare al secon-do anno il prestigioso corso “Trattazione avanzata dellastoria di Topolino”. Che cosa insegnera veramente?

Ovviamente dipende tutto dalla professoressa Clara-bella la quale, purtroppo, aveva gia dichiarato che, a suo

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avviso, nel corso “Trattazione elementare della storia diTopolino”, al primo anno, si sarebbero dovuto insegnaresoltanto le storie di Topolino! Quindi, avvalendosi dellasua liberta e della piena autonomia sancita dalle normevigenti, Clarabella decide che mai e poi mai le insegneraal secondo anno.

Il finale e chiaro. Qualunque cosa faccia Clarabella,la frittata e fatta.

Ad ogni buon conto, lei insegnera un corso in cui ci sisofferma ad analizzare in grande dettaglio la psicologiacriminale di Gambadilegno, convinta che, senza studiarequesto argomento fondamentale, ogni tentativo di com-prendere veramente la storia di Topolino risulterebbevano.

Questo sistema di gestire la didattica, purtroppo, hadelle piccole controindicazioni. E produce una serie im-pressionante di ingiustizie. La piu comune della quali eche gli studenti del secondo anno, dopo aver studiatoa fondo la psicologia di Gambadilegno come suggeritodalla loro docente Clarabella, all’esame possono esse-re interrogati indifferentemente da Gastone, Paperino oClarabella. Infatti formalmente i docenti vanno d’accor-dissimo e la commissione di esame e unica, che diamine!A quel punto la preparazione dello studente verra con-siderata buona, eccellente o pessima a seconda di chi sitrovera ad interrogarlo.

Per questo motivo Paperino non si e mai laurea-to. Gastone invece e stato ovviamente insignito della“Honoris Causa” dalla Universita di Topolinia.

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Ebbene, smantellare questa impostazione o se pre-ferite questa prassi, prima dell’avvento del 3+2 non eraall’ordine del giorno. Grazie alle nuove regole la que-stione si poteva invece affrontare. E divenne la ragioneprincipale del nostro impegno.

Per realizzare il coordinamento fu necessaria un’ope-razione complessa. Il nostro punto di vista era tutt’al-tro che condiviso. Doveva quindi realizzarsi attraverso ilconsenso delle persone interessate. Come ho gia sottoli-neato nessuno aveva strumenti normativi per perseguirequesto disegno. Era quindi necessario, preliminarmente,formare una squadra di volontari.

L’idea era di selezionare solo persone disposte a col-laborare fra loro in maniera strettissima. Avremmo do-vuto insegnare, nel successivo trimestre, quattro corsi“in parallelo e divisi per canali”. In altre parole gli stu-denti iscritti al primo anno di fisica sarebbero stati di-visi in quattro classi. Ad esempio si sarebbe seguito unordine alfabetico. A queste quattro classi veniva affib-biato il nome di “Canale”: A, B, C o D. Ogni docentedel nostro team, avrebbe insegnato soltanto in uno deiquattro canali. Il nostro progetto, decisamente innovati-vo in quel contesto, era che gli studenti dovessero fruire,sostanzialmente, dello stesso corso.

Insomma Gastone e Paperino, questa volta con Min-nie e Clarabella, avrebbero deciso insieme se insegnarele storie di Topolino, dello Zio Paperone o di Gambadi-legno. Ma poi si sarebbero attenuti a questo accordo.

Questo progetto, tutto sommato animato da elemen-tare buon senso, rappresentava, in Italia e nella nostra

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citta in particolare, un evento scandaloso ed inconfessa-bile. Mettere in discussione la sacralita della liberta diinsegnamento, ad appena sessanta anni dalla caduta delfascismo, rappresentava un attentato alla democrazia.Nonche alla nullafacenza. Infatti coordinarsi richiedevaun impegno enorme. Fra quelli che non volevano coor-dinarsi si nascondeva anche una parte di coloro che, inperfetta autonomia, decidevano che i propri standard diimpegno dovessero essere di tutto riposo.

Ai fini del nostro progetto gioco un ruolo decisi-vo Corradino D’Ascia, un giovane ricercatore il quale,fregandosene del pessimismo imperante, aveva comin-ciato in proprio ad essere presidente, segretario ed uo-mo tuttofare del suo personale team che, a quel tempo,comprendeva solo lui. Per me fu una continua fonte diispirazione.

Fu lui a coniare il temine “dream-team” e a richia-marci, quando era necessario, affinche non divenisse uno“sleep-team”. Mise a disposizione il suo entusiasmo e lesue magnifiche note che, distribuite gratuitamente, giaspopolavano fra gli studenti. Si trattava di veri e pro-pri libri, scritti per permettere agli studenti di seguire lelezioni con profitto.

Cominciammo a pensare in grande: Fisica sarebbestato il nostro regno. D’Ascia era popolare come unastar e le sue note segnavano un drastico cambio di rot-ta dalla tradizione. Molto piu fruibili, erano scritte perfar capire e possibilmente intrattenere, se non proprioapertamente divertire, e non per mostrare ai colleghi lapropria bravura. Una rivoluzione. Senza di lui non cisarebbe stato l’inizio.

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I primi passi del dream-team

Decidemmo di cominciare, ben prima dell’inizio dei cor-si, a “coordinarci”. Volevamo decidere cosa insegnare,con quali tempi, in quale modo. Ci insultavamo di tantoin tanto. «No! Meglio a modo mio!». «No! Come lo in-segni tu non si capisce niente. Meglio a modo suo!». Mafacevamo sul serio. Alla fine prendevamo una decisione esi procedeva uniti e sempre piu impressionati dall’utilitadi quelle riunioni. L’esperienza di Pasquali era decisiva.Ci riportava sulla terra quando, delirando, proponeva-mo cose che, se “insegnate”, sarebbero servite solo a noistessi per vantarci, magari con altri colleghi, di averlofatto. Ma quelle cose sarebbero passate sulla testa deglistudenti. Troppo poco era il tempo a disposizione perassimilare tutta quella roba.

Decidemmo di fare ancora piu sul serio: siamo si-curi che l’ordine temporale secondo cui insegniamo lecose, ereditato da decine di anni di tradizione, sia an-cora quello piu appropriato? Ne venne fuori un belcambiamento.

A volte Pasquali faceva una faccia disgustata. Altrevolte i suoi occhi vispi saltavano fuori dagli occhiali spes-sissimi. Un segnale che interpretavamo come un vero eproprio nulla osta.

E cosı, nella graditissima indifferenza generale, par-timmo con la nostra piccola rivoluzione silenziosa.

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Finalmente si gioca

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L’ansia del debutto

Si avvicina il giorno in cui devo fare la mia prima lezionea Fisica.

Devo insegnare un argomento che ho gia trattato al-tre volte nella mia carriera. Ho sotto mano gli appuntiche ho scritto per guidare le mie lezioni sull’argomen-to negli anni passati. In gergo le note dei miei vecchicorsi. Ho davanti quelle, ben piu interessanti, di Corra-dino. Molti libri di analisi matematica sono appoggiatisul mio tavolo. Leggo con molta attenzione questi testifino a quando mi sembra di aver assorbito il punto divista dei colleghi che hanno scritto prima di me. Soloallora comincio a scrivere le “mie” nuove note.

In quanti modi si puo scrivere una storia? E di que-sto che si tratta per me: narrare una storia. Ed e unastoria nuova. I personaggi rinascono a nuova vita. Comein una rappresentazione teatrale, gli attori li interpre-tano in modo simile a quello della sera precedente, mamai uguale.

L’ultima mezz’ora prima della lezione mi serve percalibrare le pause, memorizzare la scaletta e non dimen-ticare nemmeno una delle osservazioni che mi sono sem-brate il vero filo logico della lezione. Quelle che leganola tecnica all’aspetto culturale della matematica di cui

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parlava Cardarelli, quell’aspetto che quasi tutti gli ita-liani ignorano (spesso, ahime, vantandosene: «Non homai capito niente di matematica!». Ma nessuno direb-be: «Non so niente di storia dell’arte!», senza provarevergogna).

Porto in classe, con me, la mia coperta di Linus: gliappunti per la lezione. Li ho preparati oramai da qualchegiorno e li ho ripassati appena prima di avviarmi adinsegnare. Mi avvio verso la classe in cui gli studenti miaspettano.

Il mio primo giorno di lezione, ogni anno alla stessamaniera, e magico. Sono molto emozionato. Ho questoassurdo, fantastico privilegio: poter entrare nelle mentidi questi 50-60 ragazzi che, come se fossi un semi-Dio,aspettano da me che dica qualcosa che dia un senso allascelta che hanno fatto. Di solito comincio con informa-zioni di carattere generale. Sono, questi, fra i pochi mi-nuti di lezione rubati al lavoro dell’intero corso. Ne hobisogno. Sono troppo teso e devo partire con qualcosa difacile. Dico il mio nome, dove sono reperibile e lascio airagazzi il tempo di scrutarmi, di cominciare a caricarsidelle prime aspettative.

Poi meno il primo fendente. «Come sapete, l’orarioprevisto per la lezione e dalle otto alle dieci. Io interpretoquesto dato come il dovere di essere a vostra disposizio-ne dalle otto in punto alle dieci in punto. Il quarto d’oraaccademico e una istituzione il cui significato si e stra-volto nel tempo. Inizialmente, fu inteso come una sogliadi ritardo invalicabile per il Professore (notare la maiu-scola) oltre la quale gli studenti si dovevano rassegnare

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all’idea che l’insigne cattedratico non sarebbe venuto.Pertanto gli studenti se ne sarebbero potuti andare almare, sicuri di non dover sopportare alcuna rappresa-glia. Poi, progressivamente, e degenerato in una sogliaminima di relax forzato.

Naturalmente sono consapevole della necessita dellepause, ma non intendo cominciare con una pausa. Nonmi pare che si sia visto mai uno spettacolo che cominciacon una pausa. Il mio spettacolo comincia alle otto inpunto. Chi arriva piu tardi entri pure senza problemi».

Mi volto verso la lavagna, che nel frattempo ho me-ticolosamente pulito, e comincio davvero la lezione:

«Tenetevi forte! Si parte».

Cerco di mettere la stessa cura in tutte le mie lezio-ni. Eppure la prima e l’ultima fanno eccezione. Se ho giafatto una serie di buone lezioni, gli studenti me ne po-tranno perdonare una meno brillante. Se cicco la prima,e una catastrofe. Gli studenti hanno bisogno, in quel-la fase, di crederti infallibile ed irraggiungibile. Il gustoche proveranno quando vedranno che entrambe le cosesono false, sara molto maggiore. Qui giova non essere unfenomeno come il prof. Cardarelli o il prof. Ladini. Perbattersela con loro, per molti, non basta una vita.

Non esito a barare. Se, mentre preparo la lezione,mi viene in mente una battuta che si innesta bene, adesempio prima di un cambio di argomento, non mi ver-gogno (con me stesso) di ripeterla in classe. Cerco, finda subito, di trasmettere alcuni tratti della mia perso-nalita. Spiego, ad esempio, che non bisogna accettaredi ascoltare una “definizione” senza che prima ci si sia

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convinti della sua necessita. «In matematica i libri sonopieni di definizioni. C’e un motivo valido. Immaginate diesprimervi in questo modo: “Per favore, mi passi quellacosa con quattro gambe?”. Subito vi viene dato un ta-volo. Pazientemente riprovate: “No. Intendevo quella sucui ci si siede!”. E vi arriva uno sgabello. Questa voltacominciate ad innervosirvi e battete un piede per terra.Poi tentate ancora gridando: “Con lo schienale!”. Que-sta volta siete fortunati e vi arriva veramente una sedia.Dopo cinque volte di questa storia sarete stufi e, senzaesitazione, battezzerete quell’oggetto di uso cosı comunee lo chiamerete sedia».

«Supponiamo invece che io cominci un discorso dan-do la definizione della parola “sedia” senza mai avernevista una prima. Si rischia di sprecare mesi della vostrae della mia vita ad impararne il significato per poi sco-prire che, a questo concetto astratto, e meglio accostareprima alcune esperienze che danno una certa idea, anchese approssimativa, di cosa sia una sedia».

Quindi, nel mio stile, la definizione e un punto diarrivo e non un punto di partenza. Prima conosciamola sedia e poi le diamo un nome. In questo modo tuttiimparano senza sforzo, e senza angoscia, il concetto disedia.

Appena possibile cerco di fare appello alle loro espe-rienze, al loro intuito geometrico e fisico. Alla loro curio-sita. Uno degli obiettivi e chiarire che non esistono stec-cati nella conoscenza se non quelli dettati dalla propria(ed altrui) ignoranza.

La prima lezione finisce e, in cuor mio, vorrei corre-re a sentire se la lezione e piaciuta. Ma la classe, come

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una buona amicizia, va conquistata un poco alla volta.Si forma un capannello di persone che si avvicinano conle scuse piu diverse. In realta e un primo segnale positi-vo. Gli universi paralleli vogliono stabilire un contatto.Torno esausto in ufficio, dove mia moglie mi chiama altelefono. Sa quanto e importante per me. Le raccontoche e stato bellissimo. Sara un anno speciale.

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Una serenata

Nella seconda lezione violo un altro tabu. «Come sapre-te, esiste un’altra istituzione chiamata “orario di rice-vimento”. Al contrario del quarto d’ora accademico, sitratta di una cosa che rappresenta un’opportunita pertutti voi e per me. Se lo frequenterete, ci conosceremopiu rapidamente, con reciproco beneficio».

E una vera e propria serenata alla classe, in un mo-mento in cui e forte il rischio di non essere corrisposti.Temo di immaginare cosa stiano pensando: «Con tantecose utili da fare, perche sprecare il mio tempo in questomodo?». Oppure: «Non sono capace!». O ancora: «E sepoi dico una scemenza e lui se lo ricorda all’esame?».

Cerco di fare breccia. «Per invogliarvi, la prima vol-ta offriro delle caramelle». (Risolini!) Li guardo, comestupito, facendo finta di aver equivocato le loro risatine.«Preferite le liquirizie?». (Grasse risate isolate!)

«Sara oggi, alle due, davanti al mio ufficio ma dipen-de da voi. Se verrete in massa, come spero, dalla vol-ta successiva prenoteremo, clandestinamente!! un’aula.Non ditelo a nessuno!». Probabilmente con questa frasecomincio a sviluppare la complicita, elemento essenzialedel mio rapporto con la classe.

Comincia l’attesa. Verranno? Saro stato convincen-te? Me ne sto, buono buonino, cercando di ricordare a

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me stesso che l’importante e mettercela tutta. Ma non evero. L’importante e riuscire a conoscere questi mondi ea farsi conoscere. «Nun ce vengono, Enzo. Se vengono indue e grasso che cola». Comincio a dubitare. Ma spero.

Poi suonano al citofono: «Siamo gli studenti del ca-nale C». Siamo! Plurale! Vado alla porta ostentandoquasi indifferenza al responso che sto per avere. Ne ve-do parecchi. Chiudiamo la porta e sono gia una decina.«Pensate che verra qualcun altro?». Piccola pausa, ed ec-co una folla davanti alla porta. Sembra un’insurrezione!Sono al settimo cielo! Ma non lo do a vedere.

Prendiamo le sedie che ci sono. Molti rimangono inpiedi, altri si siedono sul pavimento. Cominciano a par-larsi e a conoscersi. I nuovi mondi vogliono comunicareanche fra loro, e usano me per farlo!

Qui spiego come funziona. Questo e un rito colletti-vo. Un esorcismo. Ci vogliamo liberare dalle reciprocheinibizioni, che fanno perdere preziosissimo tempo, ed ar-rivare subito a capire che siamo un equipaggio. Io sonopagato per fare il Capitano e dico subito chiaramenteche, se la nave affondasse, io sarei l’ultimo ad abbando-narla. Non perdiamo tempo a vergognarci delle nostredebolezze. «Sfruttatemi piu che potete, sono qui con uncompito chiaro: fare imparare ad ognuno di voi quan-to piu possibile. Niente di quello che direte sara usatocontro di voi. Ma tutto quello di buono che farete qui,sara usato a vostro favore». Silenzio pedagogico. Possopercepire il loro stupore e la loro diffidenza. «Questo civuole fregare!».

«Chi comincia?» e nel frattempo mi siedo fra gli spet-

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tatori. Molti abbassano gli sguardi. Altri, piu spavaldi,mi sfidano pensando: «Chiama me. Ti faccio nero!».

Resto ad osservarli. Sto cominciando una parte dif-ficile del mio lavoro. Voglio memorizzare i loro visi. So-lo cosı potro memorizzare i loro nomi. In sessanta orevoglio arrivare a chiamare per nome ciascuno di loro.

Nessuno osa proporsi. «OK, OK; avete ragione. Ave-vo dimenticato di tirare fuori le caramelle!». Estraggodalla mia borsa un enorme pacco di caramelle. E qual-cuno alle mie spalle dice: «Le ha portate davvero!». Lamia credibilita comincia a crescere! Chiamo inizialmentecoloro che, mi sembra, non si imbarazzerebbero nemme-no se venissero alla lavagna in mutande. E il primo, disolito un ragazzo, comincia a svolgere uno degli eserciziche avevamo assegnato (tutti eguali per i quattro canaliin parallelo!) Qui di solito propongo un applauso perpremiare il coraggioso di turno. Quando torna a sedersigli chiedo il nome.

Continuiamo a lavorare. «Bene, bravo! Mangi unacaramella! Adesso tocca ad una donna. Venga lei!». «No.Professore no!». «Le offro una caramella!». «No! Sono adieta!». «Se non viene, paga pegno e le tocca mangiaredue caramelle!!». (Risate, la tensione si sta sciogliendo).

Alla fine ho in mente dieci nomi e trenta visi. So cheli dimentichero quasi tutti. Ma la prossima volta che ciincontreremo, saro capace di stupirli, chiamandone uncerto numero con il loro cognome.

E chiaro che chiamare i propri studenti usando il lorocognome non fa parte dei doveri di un docente. Per merappresenta un veicolo di comunicazione utile e grade-vole. A me fa piacere, persino con persone che conosco

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bene, ma soprattutto con quelle che conosco da pocotempo, quando vengo chiamato per nome. E un segnaledi attenzione nei miei confronti. Mi da lo stesso piace-re che provo quando qualcuno si rivolge a me con unsorriso.

Allo stesso modo io credo che lo studente, in quan-to persona, apprezzi il fatto che uno sconosciuto fac-cia questo piccolo sforzo e gli mostri, in questo modo,una disponibilita leggermente superiore a quella che estrettamente dovuta.

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Un primo incidente di percorso

Il mercoledı insegno dalle dieci alle undici e non dalleotto alle dieci. Alle dieci meno cinque minuti, sono da-vanti alla porta dell’aula che e chiusa. Alle dieci in punto,faccio appello alla telecinesi per aprire quella maledettaporta. Come Troisi in un suo famoso film e con gli stessiesiti . . . Alle dieci e cinque, ho cambiato colorito. Alledieci e sette apro la porta ed entro nell’aula.

Dalla cattedra mi guarda un collega che, scambian-domi per uno studente, mi apostrofa in malo modo «Esca!C’e lezione!». Rimango impassibile. Poi rispondo. «Loso. La mia!». A questo punto il collega guarda l’orologioappeso al muro e dice: «Ma . . . c’e il quarto d’ora acca-demico!». Gli lascio l’illusione, per un attimo, di mollarela presa. Poi lo incalzo: «Sı. Il mio quarto d’ora acca-demico». «Stavo finendo.˙». «Certo . . .», e nel frattempopiazzo il quadernone con i miei appunti sulla cattedra.Mi avvio verso l’uscita lentamente. Dopo due minuti ilcollega esce, abbastanza incredulo, ed accenna ad ar-ticolare i soliti argomenti sul quarto d’ora accademico.Taglio corto. «La mia lezione comincia alle dieci. Sonosicuro che dalla volta prossima sarai piu puntuale».

Alla fine della lezione successiva ricevetti una visita.

«Caro collega, piacere. Sono Altieri, presidente del CCL».

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Definizione: CCL e una abbreviazione per “Consigliodi Corso di Laurea”.

Ho appena fornito un buon esempio di definizionedata al momento sbagliato. Se il lettore conosce tutti iconcetti in gioco, la definizione non gli e utile. Se nonli conosce, non ho aggiunto niente. Ho solo creato unpolverone.

La sostanza e che Altieri occupava una certa cari-ca che poteva essere interpretata in vari modi. Molti lainterpretavano in maniera riduttiva: burocratica e pas-siva. Lui invece si sentiva delegato dalla sua posizionee dal suo ruolo a cercare di risolvere le piccole e grandirogne che il corso di laurea in Fisica, inevitabilmente,creava.

Esercizio. Il CCL si chiama ancora in questo modo?Suggerimento. Per risolvere l’esercizio e utile rileggere la parte relativa

alla denominazione del ministero che si occupa dell’universita.

Mi rivolgo ad Altieri con sincero entusiasmo, positi-vamente colpito dal fatto che avesse voluto fare la miaconoscenza. Evidentemente, si occupava seriamente delsuo ruolo.

«Che piacere conoscerti». Lo assalgo con una seriedi richieste per gli studenti: «Le lavagne devono essereperfettamente pulite, al mattino. Pronte per essere uti-lizzate nelle tante ore di lezione. Attualmente, all’alba,c’e gia uno spessore di due millimetri di gesso! Non nefaccio e non e una questione di rispetto per il docen-te. Sono gli studenti, infatti, che hanno diritto a questoservizio. Attualmente non riescono a leggere cio che scri-

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viamo in questa melma gessosa! Non condividi?». «Beh,sai com’e!?». «No. Non lo so. Com’e?». «Il personale nonsempre collabora». «Ma tu hai mandato un ordine di ser-vizio?». «Non saprei a chi mandarlo. E poi non spetta ame!».˜«Ah no? E a chi spetta? Forse al preside? Benis-simo, allora scriverai al preside?». «Non credo che se nedebba occupare il preside». «E chi allora? Il presidentedella Repubblica?».

Povero Altieri! Stavo scaricando su di lui, inconsape-volmente, i problemi ed i vizi di un popolo, di una storiasedimentata. Non si sa mai di chi sia la responsabilita dicio che va male. Non consola che, quando le cose vannobene, non si sappia di chi e il merito, indipendentementedal fatto che molti se lo attribuiscano.

Altieri deve aver pensato che fossi un extra terrestreo forse solo un rompiscatole. Sta per cominciare a par-lare della cosa che gli sta veramente a cuore, ma io nonme ne rendo conto e passo alla seconda richiesta. «Sai,abbiamo scritto delle dispense che usiamo per il corso.Gli studenti mostrano di apprezzarle. Le forniamo lorogratuitamente, ma servirebbe che le potessero scaricaredalla rete. Dovremmo permettere, almeno a quelli fraloro che non lo possono fare da casa, di usare una posta-zione informatica da cui poter effettuare questa sempliceoperazione».

Mi promette che ne parlera in Consiglio. Con l’espe-rienza di oggi avrei tradotto: «Non ci pensare nemme-no». Gli spiego che sono entusiasta e lusingato di inse-gnare a Fisica. Qui vacilla. Comincia a pensare che que-sto pazzo che ha davanti potrebbe diventargli simpatico.

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Poi ritorna alla realta e si ricorda perche era venu-to da me. «Come sai, i tempi di apprendimento preve-dono delle pause. Non e utile sottoporre gli studenti amaratone troppo stancanti». Poi va dritto al punto. «Ilquarto d’ora accademico va rispettato». Finalmente ca-pisco. Decido di rifletterci con calma e replico che glirispondero per iscritto.

Preparo una lunga lettera dal titolo: “Unita CGSe privilegi accademici”. E la spedisco ad Altieri. Nellasostanza gli dico: «Come puoi facilmente verificare, lalegge parla di ore. Per un fisico, non ci sono dubbi che adun’ora corrispondano 3600 secondi o, se vuoi, 60 minuti.Sul sito, a cura del CCL da te presieduto, e ben visibilel’orario che prevede appunto 60 minuti e non 45.

Rivendico il diritto di discernere, attraverso la miaprofessionalita, quale sia il momento in cui assegnaredelle pause a me stesso e ai miei allievi. Ritengo di doverdecidere la loro durata caso per caso, fermo restando laloro opportunita in termini generali. Certamente trovogrottesco cominciare con una pausa di quindici minuti,prima ancora di aver iniziato la lezione. Pertanto, se mivuoi ordinare di fare tre quarti d’ora di lezione invece diun’ora, allora mandami un ordine di servizio, ammessoche tu ne abbia la facolta».

Il riferimento al sistema di misura CGS (centimetri,grammi e secondi) era, inutilmente, provocatorio. Un fi-sico come Altieri conosce le unita di misura molto megliodi un matematico come me. Dargli lezioni su questo ar-gomento era il modo giusto per farlo uscire dai gangheri.Ma era piu forte di me.

Cercare di costringere le persone a scontrarsi con

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le contraddizioni in cui, quasi tutti, vivono. Si sareb-be potuto fare in modo diplomatico . . . se fossi stato unaltro.

A questo punto, si avvia un dibattito epistolare nelquale lui, con gentilezza e fermezza, cerca di mettere incattiva luce la mia scelta che, credo, ritenesse veramentesbagliata. Gli spiego che non intendo torturare gli stu-denti. Poi gli domando se sta facendo questo per unapressione ricevuta dagli studenti o dai colleghi. Vacilla.

Gli faccio una proposta. «Scegli tre studenti che stan-no frequentando le mie lezioni. Convocali. Chiedi lo-ro se vogliono un cambio. Se lo vogliono, ti promettoche cambiero, senza ordine scritto. Altrimenti, se e percompiacere qualche collega, non se ne parla».

Com’ero ingenuo! Non avrei mai potuto controlla-re che avrebbe veramente fatto quello che gli chiedevo!Mi avrebbe potuto richiamare dieci minuti dopo, dicen-do che aveva sentito certi studenti e, effettivamente, uncambio si imponeva. Ero stato presuntuoso e stupido.

Non sapevo, allora, che Altieri e un galantuomo chenon avrebbe barato nemmeno sotto minaccia di fucila-zione. Mi scrisse un lapidario messaggio dopo qualchegiorno.

«Devo ammettere che gli studenti sono con te. Faibuon uso di questa tua liberta».

Oggi non so se essere piu grato agli studenti o adAltieri per la sua rettitudine. Comunque “uno a zeroe palla al centro”. Annunciai agli studenti che la mia

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piccola battaglia era stata vinta e li ringraziai per esserestati dalla mia parte.

Questa esperienza contrasta con centinaia di altre,in cui, invece, venni sconfitto. Non si poteva dire cheavessi un nemico specifico. Piuttosto, si era tutti im-mersi in una specie di fluido, ben piu denso dell’aria incui si dovrebbe vivere. Tutto risulta assai complicato damodificare. Anche la piu ovvia richiesta di funzionalita,come il fatto che qualcuno si occupi di pulire le lavagne,sembra una proposta avveniristica. Nessuno si opponeapertamente. Ma di fatto, dopo circa un decennio, hoabbandonato questa idea e combatto con il gesso, comehanno sempre fatto tutti quelli che mi hanno preceduto.Come molti miei colleghi, quando vado all’estero, vedo lelavagne pulite e mi domando perche da noi debba esserediverso.

Invece qui, se solo provate a capire chi dovrebbe pu-lire le lavagne e con che frequenza, vi procurerete unsolenne mal di testa.

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Secondo incidente di percorso

Ad un tratto noto che un gruppetto di studenti, solita-mente puntuali, comincia ad arrivare in clamoroso ritar-do alle mie lezioni. Noto un certo disagio e ne deducoche posso provare ad approfondire, in privato. «Per qualeragione arrivate in ritardo? Le mie lezioni sono diven-tate noiose?». «No, professore; il punto e che noi siamostudenti del secondo anno e seguiamo il corso del prof.Trapani. La sua lezione dovrebbe finire alle dieci, in tem-po per venire da lei. Ma lui finisce sempre con mezz’oradi ritardo». «E come mai?». «Dice che c’e traffico e perquesta ragione arriva in ritardo e poi recupera». «Uhm.Gli parlero».

In realta, non avevo voglia di un altro scontro fron-tale e pensai che, forse, qualcuno avrebbe potuto inter-cedere per me.

Pensai che Trapani, come me, faceva parte del Di-partimento di Matematica. Vi rivolsi quindi al professorFanetti, direttore del nostro dipartimento.

Niente era piu distante da me del suo modo di inten-dere le gerarchie. Fanetti era “dentro il sistema” che ame, invece, sembrava stare stretto. Ma era di un’onestainguaribile.

Inoltre, per la sua formazione, il nostro direttore diallora era garanzia di equilibrio e misura. Certamente

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mi avrebbe fatto capire che le cose erano piu complicatedi come mi apparivano e questo mi avrebbe aiutato adaffrontare la situazione con la necessaria diplomazia.

Spiegai quindi la situazione in attesa di un suo spun-to. Mi disse: «Conosci Trapani?». «Non personalmente».«E una persona che non riconosce ne la mia autorita, nequella di alcun altro collega». Si lascio sfuggire, in unalingua a me sconosciuta, quello che interpretai come unepiteto poco gentile nei confronti di Trapani. Ma poisi riprese e concluse dicendomi: «Non credo di potertiaiutare e, francamente, non saprei chi altri lo potrebbefare». «Capisco» replicai.

Ero rimasto da solo con il mio problema. Ma, aquel punto, non avevo niente da perdere, tranne la miatranquillita. Decisi di tentare l’impossibile.

Scrissi una lettera al Trapani.

Caro collega,ti ricordo che le tue lezioni del mercoledı terminano alle ore10. La tua puntualita e essenziale affinche un certo nume-ro di studenti possano spostarsi a frequentare le mie lezioni.Sono sicuro che non sara necessario investire della questio-ne il presidente del CCL.

Certo della tua collaborazione . . .

Rimasi in attesa della formidabile pernacchia, cheaspettai per qualche giorno. Sapevo benissimo che il pre-sidente del CCL di Matematica aveva idee ortogonali al-le mie. Certamente non avrei potuto contare su nessuntipo di aiuto da lui. Insomma un bluff in piena regola.

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La settimana dopo i miei studenti, con larghi sorrisi,arrivarono puntuali e, da allora, non ci furono piu ritar-di. Questa esperienza rafforzo in me la convinzione chenessuno voleva prendere sul serio il proprio ruolo istitu-zionale. Ed invece era bastato che una persona come me,senza alcun titolo al riguardo, minacciasse di fare pub-blicita ad un comportamento vergognoso, perche il mal-capitato si fornisse istantaneamente di una gigantescafoglia di fico.

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Il contesto: il primo sciopero

Arrivando in classe vengo abbordato da uno studente:«Professore, domani c’e sciopero dei mezzi. Lei viene?».

E un argomento delicato ed importante. Dico che neparlero durante l’intervallo.

Al momento della pausa, dico ai ragazzi che vorreispiegare loro il mio pensiero su quella questione dellosciopero.

«Io uso i mezzi pubblici. Per essere qui, domani alleotto, dovro svegliarmi un’ora prima per poter usare lafascia protetta in cui e garantito il servizio e dovro sve-gliare anche tutta la famiglia, visto che la nostra casa emolto piccola. I ferrotranvieri hanno ottime ragioni perscioperare (e chi ne conosce personalmente qualcuno sache non e una frase retorica). Ma io non faccio parte diquella categoria. E credo sia mio dovere venire qui, inorario, a far funzionare l’istituzione che rappresento. Sobenissimo che, per alcuni di voi, questo rappresenterauno sforzo notevole e me ne dispiaccio. Sono disponibilea ripetere la lezione, per quelli che proprio non ce la pos-sono fare. Ma domani saro qui, alle otto, come sempre,. . . se non mi succede niente di grave nel frattempo».

Una voce dal fondo «Ma il professor Terzillo ci hadetto che lui non fa lezione!». «Forse fa il ferrotranvierea tempo perso. In ogni caso questo non influenza la mia

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decisione. Io saro qui, per voi, e faro lezione. Se verrete,faremo un piccolo passo avanti nella nostra conoscenza.Cercheremo di non farci distaccare dai vostri colleghifrancesi che, domani, faranno lezione. Se non verrete,nessuno vi indennizzera per quello che perderete, pocoo tanto che sia. Se pensassi che non ne vale la pena, vidirei di rimanere a casa».

Finita la seconda ora incontro Pasquali: «Eh . . . Siperdono altre due ore, qui nun se po’ lavora!». Ed io pro-vocatorio: «Perche? Stai male?». «No ecchee nun lo sai?C’e lo sciopero!». «Dei ferrotranvieri!». «Eh vabbe. Mai ragazzi nun ce vengono». «Si vedra. Io faccio lezione».«Si, ma non e quello. Pure io ce vengo. Ma ce sarannoquattro gatti».

L’indomani, con una certa apprensione, mi avvio afare lezione. Entro in classe ed e piena. Mancano trepersone. Una cosa fisiologica. Great!

In un’altra occasione dovetti confrontarmi con unasituazione ben piu impegnativa. Mi trovai a dover spie-gare la mia opinione sull’opportunita di fare lezione inun clima di grande protesta contro un provvedimentodel ministro.

Fu per me un’occasione di grande tensione personale.Da un lato condividevo, come docente, le ragioni dellecritiche ai provvedimenti del ministro. Dall’altro ritene-vo che i docenti universitari, astenendosi dalla didattica,violavano un importante diritto, il diritto allo studio.

Intervenni due volte in una pubblica assemblea. Laprima frequentata da docenti e studenti, la seconda pre-

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valentemente da docenti. Come mio solito parlai chiaro.Il mio punto di vista si potrebbe riassumere cosı.

La costituzione sancisce il diritto alla sciopero pertutti i lavoratori, inclusi i docenti universitari. Ma quan-do non e previsto alcuno sciopero di questa categoria,alla quale appartengo, credo sia mio dovere fare lezione.“Astenersi dalla didattica” e una dizione che non capi-sco. E, a mio parere, un abuso bello e buono non previstoin alcun paese, per quanto incivile. Non la considero unaopzione disponibile per la mia coscienza. Nel mio ruolodi docente, oggettivamente, io non rappresento il gover-no. Rappresento lo Stato. Cerco di fare del mio meglioaffinche i miei studenti abbiano un servizio migliore diquello che ho avuto io quando ero studente.

Fare lezione, a mio parere, non avrebbe rappresen-tato in nessun modo un plauso all’operato del ministroche, in quella specifica circostanza, probabilmente stavafacendo un colossale errore.

Fare lezione e contribuire a rendere migliore la futu-ra classe dirigente e un modo, il mio modo, di tentare dicambiare le cose che non funzionano. Cercare di contri-buire a far sı che l’esperienza universitaria, almeno perla parte che attiene al corso che insegno, trasmetta aimiei studenti una migliore considerazione dello Stato.

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L’altra campana

Il presidente del CCL di Matematica invita i docenti adastenersi dalle lezioni per consentire la partecipazionead un’assemblea o una manifestazione. Non ricordo. Perfortuna non sono direttamente coinvolto, perche sto in-segnando a fisica. Lo incontro e gli dico, tanto per nonperdere l’occasione di crearmi un altro ostacolo, che nonsono d’accordo. «Non ci invitare, ordinaci di non faredidattica». «Ma che sei scemo? Cosı mi posso beccareuna denuncia per interruzione di pubblico servizio!». «Enon la puo avere il docente, invece?». Mi spiega che none cosı. Il docente puo “sospendere” l’attivita didattica.Chi puo dire se e quando si deve sospendere? Il docentepuo fare lezione in un altro momento.

In verita non ci sarebbe stato il tempo materiale perrecuperare le lezioni perse. Ma questo, almeno al no-stro presidente, appariva un dettaglio su cui si potessetranquillamente sorvolare.

A questo punto la discussione passa ai massimi siste-mi. Il nostro presidente continua: «Quando ero studenteio, non ho fatto lezione, a causa delle occupazioni, perun anno intero. E pero sto qua. In fondo, pensi davve-ro che faccia tutta ‘sta differenza se fai lezione oppureno?».

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Difficilmente avremmo potuto essere su posizioni piudiverse.

Io credo di aver dato un sonoro ceffone al mio primofiglio, veramente con violenza, una sola volta. Gli lasciaiil segno sul viso. Me ne vergognai subito e ancora mene vergogno molto. Potrei dire che, tutto sommato, nonsembra averne risentito. In questo caso sarei veramenteun imbecille. Della mia eccessiva severita, come di tuttigli errori che ho fatto con loro, tutti i miei figli hannorisentito, e moltissimo.

Una volta, del tutto ingiustamente, rimproverai aspra-mente uno di loro, che all’epoca era piccolissimo, perchesi era sporcato di catrame al mare. Me lo ero dimenti-cato. Me lo ha ricordato lui di recente. Si puo essere piuinsulsamente stupidi? Gli avro fatto del male? Certoche sı.

Eppure per generazioni i padri hanno picchiato i figlisenza nutrire alcun dubbio sul fatto che questo fosse unloro diritto, che questo potesse addirittura essere un im-portante elemento di formazione. Un modo per forgiarneil carattere.

Non mi consola il fatto che cento anni fa fosse comunepicchiare i propri figli. E che si picchiassero piu forte diquanto non si facesse cinquanta anni fa. Io ho alzato lemani sui miei figli, ci ho pianto, ma questo resta uno deifallimenti della mia vita.

Spero che i miei figli siano capaci di fare meglio dime con i loro, se ne avranno.

E allora, quando viene il momento di cambiare? Di

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rendersi conto che “prima” era completamente sbaglia-to? Quando la smetteremo di attribuire i successi dellepersone al modo in cui sono stati educati e ci sofferme-remo a pensare che, alcuni, mietono successi nonostanteil modo in cui siano stati educati?

Quando smetteremo di dimenticare che altri, invece,sono condannati all’insuccesso proprio a causa del modosuperficiale, oppure arrogante, in cui vengono trattati dachi li dovrebbe educare?

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Le prime verifiche

Si avvicina a grandi passi il giorno della prima “pro-va in itinere”. Oh quant’e bello ‘sto nome, oh quant’ebello ‘sto nome. “Prova in itinere”. Sembra di andarein ospedale a farsi una visita urologica. E invece e solouna nuova definizione che sostituisce l’obsoleta dizionedi “esonero”, vocabolo che nessun aspirante preside puopronunciare senza perdere, in un solo colpo, tutta la suacredibilita. Poiche non ambisco a divenire preside, ap-profittero per continuare ad usare la dizione “esonero”,tanto per essere conservatore almeno in qualche cosa.

Lo scopo formale di tale prova e di fare una primavalutazione dei ragazzi. Tre di queste prove, durante ilcorso, contribuiranno a formare il voto di ammissioneall’esame orale che rappresenta la prova finale.

Arriva il giorno del primo esonero. Si tratta, per lamaggior parte dei docenti, della prima prova di “incon-tro ravvicinato”. Per noi del dream-team non era cosı.Avevamo i ricevimenti e, da quelli, attingevamo tanteinformazioni che l’esonero non poteva darci.

Ci organizziamo perche i ragazzi non si disturbino avicenda nel tentativo disperato di scambiarsi informa-zioni sbagliate.

Non e facile. Non ci piace fare i poliziotti, ma dob-biamo tutelare chi vuole lavorare in autonomia. Ci si

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prova. Diceva Cardarelli che gli studenti hanno il dirittodi cercare di fregarci. E noi abbiamo il dovere di beccarli.

Sui tempi siamo intransigenti. Partiamo tutti allastessa ora nei quattro canali. E cruciale, per l’equita,che alle dieci in punto si produca il grido: “giu le pen-ne!”. E che in quel preciso istante tutti i candidati smet-tano di scrivere. “Equal opportunities” la chiamano glianglosassoni. “Non rubare”, tradotto in soldoni.

Alla fine, momento di caos. E poi la domanda fatidi-ca. «Dove affiggera i voti?». Chiaramente chi la formulae lı per caso e non segue il mio corso. «Ho spiegato a le-zione che ritengo illegale, e precisamente una violazionedella legge sulla privacy, divulgare il suo voto». «Allorali mette sul suo sito?». «Tanto per divulgarlo anche inAustralia? Venga a lezione, oppure nel mio ufficio, e leconsegnero il compito personalmente».

Anni addietro avevo tentato un esperimento che ri-sulto troppo anglosassone, anche se molto divertente.Avevo chiesto agli studenti di scrivere uno pseudonimosul loro elaborato scritto. «Mettete uno pseudonimo, af-figgero il vostro voto con accanto il vostro pseudonimo.In questo modo potrete conoscere il vostro voto, ma nonquello degli altri».

Diversi colleghi mi avevano avvertito che non ne va-leva la pena e che, comunque, non si era mai sentito chequalcuno avesse protestato perche il suo voto era sta-to affisso in qualche bacheca. La mia cocciutaggine nonconosce compromessi e supera largamente la mia ragio-nevolezza. Passai fra i banchi per raccogliere i loro datie ricordai loro che dovevano fornirmi lo pseudonimo.

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Panico! Un campionario di reazioni divertenti. Lamaggioranza non aveva proprio alcuna ispirazione. «Mache devo mettere?». «Quello che vuole! Il nome della suaragazza, del suo gatto, una data che le ricordi qualco-sa». «Ci posso pensare?». C’erano centotrenta studen-ti. Avrei fatto notte. I miei suggerimenti peggioravanole cose provocando ilarita. Ad una ragazza che propriosi era impuntata suggerisco: “Wonder Woman”. Risa-te, ma niente da fare. Uno studente fece un divertentegioco di parole con il mio cognome. Ma la reazione piufrequente, dopo le mie insistenze era: «Posso usare qua-lunque cosa?». Ed io, speranzoso: «Si!». «Anche il miocognome?».

A volte, bisogna saper perdere.

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L’archeologo

E il giorno in cui comincio a dedicarmi alla correzionedegli esoneri. Sono seduto davanti a questa pila di com-piti. E la prima verifica del lavoro compiuto. Avro fattobene?

La sensazione che provo e di estrema curiosita, masono anche teso per la responsabilta che devo esercita-re. Come un archeologo, che precipita per un paio dimetri e finisce bocconi, al buio, in un luogo inatteso.Nell’oscurita non vede, ne potra vedere attraverso i suoiocchi. Comincia allora a tastare il terreno con le mani,consapevole che qualunque cosa tocchera, avra almeno3000 anni. E prezioso per definizione. Che sia un picco-lo manufatto o una tomba faraonica. Ma al buio! Nondeve pretendere di capire il valore di tutto quello chelo circonda. Solo farsi una idea. L’unica cosa sicura eche quasi tutto e terribilmente fragile. Basta poco perrompere qualcosa di prezioso.

Fuori di metafora. Ci sono compiti debolissimi chepero (e noi non lo sappiamo nel momento in cui li correg-giamo) sono il frutto di un progresso eccezionale, com-piuto in quelle tre settimane di durissimo lavoro. Unpiccolo germoglio, che puo facilmente venire distruttoda una dose troppo massiccia di acqua o di concime.

Insomma e la foto di una persona in moto e giudica-

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re solo la posizione in quel preciso momento e, secondome, un grave errore. Bisogna anche valutare la velocita.Per fare questo serve fare un’altra foto, per registra-re la prossima posizione. Insomma serve correggere ilprossimo esonero. E bisognera aspettare altre quattrosettimane per questa nuova foto!

Per fortuna c’e il ricevimento. Cerchero di capire sele persone che sono indietro in questo momento sianoferme, oppure invece in movimento, sia pure con un granfiatone.

Stiliamo i voti e propongo di smetterla con la tra-dizionale pagliacciata di dare voti bassissimi e poi pro-muovere chi ha 15 su 30. Propongo voti fino al 34. Tren-taquattro trentesimi! Rivolta interna al team. Prestosedata. Facciamo questo esperimento e, come immagi-navo, il problema dei troppi 34 si rivela il minore deimali.

Grazie all’intervento del professor Dell’Orto, adottia-mo un sistema eccellente per evitare favoritismi, anchese involontari. Ne parlero piu avanti. Ma dico subito chela giustizia relativa fra gli studenti e un bene sacro. Bi-sogna fare ogni sforzo per evitare che si ribaltino, neigiudizi, gli effettivi valori in campo. Non importa se ac-cada al livello dei “bravi”, che meritano 30, o dei menobravi che meritano 22.

Ognuno dei compiti che consegno ai miei studenti,contiene dei piccoli poemi. Scrivo commenti tecnici, maanche sullo stile espositivo. Su quello che mi sembra buo-no e su quello che mi pare non lo sia. Offro suggerimenti,

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con inviti che poi ripeto a voce nella solita pausa, e dipersona a quelli che mi chiedono ulteriori chiarimenti.Non mi stanco di incoraggiare. Ognuno corre, in que-sta fase, solo contro se stesso. Deve preoccuparsi di mi-gliorare alla velocita maggiore possibile. Ma deve essereuno sforzo sostenibile. Bisogna capire subito quale sia unobiettivo ragionevole per questo primo trimestre. Siamogia quasi a meta cammino.

Chi sta sotto il 17 deve correre ai ripari. Ce la puo faresolo se sapra cambiare passo. Chi vuole potra passare dame per parlarne.

Se ne parla, effettivamente, in un momento piu pri-vato. Spiego a tutti che la competizione fra loro non ead armi pari. Alcuni partono con molti giri di vantaggioe non si possono contentare di essere ancora in testa.D’altro canto, chi parte con cinque giri di svantaggio,non deve pretendere di recuperare tutto lo svantaggio inappena tre settimane. E umanamente impossibile.

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Le reazione degli studenti

Gli studenti mostrano di apprezzare la franchezza delmio linguaggio ed il mio approccio sempre molto direttoa tutte le questioni. Molti, fra loro, cominciano a cercareun rapporto individuale. Nella pausa fra la prima e laseconda ora di lezione, molte persone vogliono parlarecon me, chiedono consiglio. Molto spesso si tratta diconsigli che vanno ben al di la dei contenuti delle lezioni.Sono veri e propri consigli strategici.

Nella lezione successiva a quella in cui ho consegnatola prima prova scritta, con tutte le correzioni del caso,durante la pausa mi avvio a prendere qualcosa da bere aldistributore automatico. Una studentessa mi intercettanella tromba delle scale. La conosco di nome e di viso.So che non e andata bene al primo esonero.

Mi dice: «Professore io sono Giusti, il suo peggiorestudente». Quanto deve esserle costata quella frase! Edice proprio cosı. “Studente”. Maschile. Scrollo la testa.«Niente affatto. Non e vero. Il mio peggiore studente echi non lavora, chi non da il massimo che gli e consenti-to in questo momento. Lei sta dando il massimo». Nonsi aspettava questa reazione, credo, ma forse ci sperava.Continuo. «Sono rimasto sorpreso. Prima di correggereil suo scritto, credevo che lei sarebbe andata benissimo».Qui e incredula e mi chiede perche mi fossi fatta quel-

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l’idea. Forse pensa che lo stia dicendo solo per esseregentile. «Vi osservo mentre insegno e mi ha colpito lasua capacita di concentrazione. Lei non perde niente diquello che dico. Che scuole ha fatto? E chiaro che il pro-blema deve essere lı». Mi racconta le sue esperienze allesuperiori e la mia teoria viene subito confermata. Parlot-tiamo altri due minuti. Poi e tempo, per me, di rientrarein classe. La congedo dicendole: «Mi venga a parlare do-mani, in ufficio, insieme a tutti quelli che hanno presomeno di 18. E continui a lavorare».

L’indomani, il gruppo di coloro che avevano presomeno di 18, si presenta quasi compatto. Manca all’ap-pello il drappello di quelli che non frequentano il mio cor-so. Sono studenti iscritti agli anni precedenti, che hannoavuto il loro 13, ma che non frequentano abitualmen-te le mie lezioni. In particolare non hanno assistito almio sermoncino che, comunque, su di loro non avreb-be avuto alcun effetto. Non si diventa credibili con undiscorsetto sensato. Bisogna conoscersi. Per quest’annoper loro e finita. Non cambieranno passo e quindi nonrecupereranno.

Chiedo a questo gruppetto se preferiscano un dialogoin privato, oppure se posso parlare di ognuno di loro difronte agli altri. Forse sentono di stare sulla stessa bar-ca, o forse hanno soggezione e non dicono la verita, masono subito d’accordo. Va bene continuare tutti insieme.D’altronde anche per me e piu facile cosı. Il discorso nondeve diventare troppo personale. La cosa danneggerebbesia me che loro.

Ribadisco il fatto che per loro, a questo punto, lo sco-

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po del primo trimestre e capire se hanno fatto la sceltagiusta iscrivendosi a fisica. Se e cosı dobbiamo puntare asalvarci. Penseremo piu avanti a scalare la classifica deimigliori.

Affido a questo sottogruppo, in maggiore difficolta,un lavoro differenziato (come una fisioterapia per chi sie fatto male).

«Non cercate di fare 100 esercizi. Ecco invece il vostrocompito. Oggi rivedrete le soluzioni che vi ho raccontatoieri, quelle relative all’esonero in cui non siete andatibene. Domani ricaverete due ore di tempo, a casa, in cuinessuno vi disturbi. Non andate al bagno, non alzateviper rispondere al telefono. Niente musica, niente libridavanti a voi. Rifate esattamente lo stesso scritto. Dueore. Il tempo concesso alla prova di esonero.

L’indomani correggerete il vostro compito con il mas-simo dell’attenzione. Poi correggetevi fra voi. Doveteimparare a controllare il vostro stesso lavoro.

Se provate a scrivere una lettera di getto, inevita-bilmente, rileggendola, vorrete cambiare molte cose chevi erano apparse chiarissime mentre redigevate la primaversione ma che, ad una seconda lettura, vi sembreran-no inutilmente contorte. Figuriamoci quando si scrive dimatematica! Qui e obbligatoria una maggiore rigiditanel linguaggio. E questo vale per il lessico e ancora dipiu per la grammatica.

Praticate l’uso del nuovo lessico e della nuova gram-matica che stiamo imparando. Il linguaggio scientifico,ed in particolare quello matematico, aspira a renderele proprie affermazioni non ambigue o, almeno, il menoambigue possibili.

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Sviluppate e coltivate la vostra capacita di autocriti-ca. Fino a quando, con facilita, raggirerete voi stessi condei ragionamenti che vi sembrano convincenti ma non losono affatto, i progressi saranno lenti.

So che vi chiedo molto. Ma se farete questo (imma-ne!) lavoro, ve l’assicuro, ve ne gioverete per questocorso, per il successivo, per quello dopo ancora. In ef-fetti, a giudicare dalla mia esperienza, credo che vi sarautile per la vita».

Adesso non mi resta che aspettare. Usero i ricevi-menti per capire se stanno facendo progressi.

La loro risposta e molto chiara. Molte di queste per-sone cercavano di sottrarsi quando le chiamavo alla la-vagna durante l’orario di ricevimento. Adesso non solovengono senza esitazione, ma fanno domande, al ricevi-mento come a lezione. Si fidano di me. Hanno capito chevalutero la loro crescita e non solo la loro posizione dipartenza iniziale. Remiamo, finalmente, tutti insieme enella direzione giusta.

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Le idee di Dell’Orto

Dell’Orto era il matematico piu noto, in ambiente nonmatematico, che io conoscessi bene. Aveva ricoperto mol-te importanti cariche senza mai candidarsi per alcuna:veniva candidato da altri. Difficile dire se avesse piunemici o amici. L’unione di queste due categorie inclu-deva tutti i matematici italiani. Nessuno, onestamente,poteva provare indifferenza per Dell’Orto.

Ci trovammo a parlare molte volte del dream-team.All’inizio, fedele al suo personaggio, mi apostrofo in ma-niera aggressiva, dicendo che stavamo facendo una seriedi insensatezze. Ma io subito decisi di entrare nel merito.Non appena si accorse che il nostro desiderio di cambia-mento non era solamente di facciata, muto atteggiamen-to. Proponeva alcune cose ed accoglieva i suggerimentiche considerava buoni, non senza dibattere a lungo evendere cara la pelle.

Un giorno gli dissi, con la diplomazia che mi con-traddistingue: «Avevo sempre pensato che tu fossi unvecchio trombone, che parla per il gusto di ascoltarsi.Mi sbagliavo».

Sorrise della mia impudenza, ma ammise che si, c’eraanche quello. La consapevolezza di essere una spannasopra gli altri ti da sicurezza e induce vanita.

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Fra i tanti suggerimenti che propose, alcuni troppotecnici per poter essere apprezzati da non matematici esui quali quindi non mi soffermo, ne diede uno straordi-nario. Disse che il modo migliore di correggere gli scritti,consisteva nel dividere il compito assegnato in classe intante parti quanti fossero i docenti (quattro nel nostrocaso). Ogni docente avrebbe corretto soltanto una partedell’elaborato, ma per tutti e quattro i canali. Se il mo-do di correggere di un particolare docente fosse risultatotroppo generoso, rispetto a quello degli altri tre docentiimpegnati nella correzione, questa generosita si sarebbediffusa su tutto il campione e non solo su un quarto diesso. Quindi non avrebbe danneggiato nessun canale intermini di giudizi relativi. Ovviamente lo stesso discorsosi sarebbe applicato anche a correzioni troppo severe. Misembro un’idea stratosferica e nuova. Era stata invece in-trodotta, come mi spiego Dell’Orto, circa quarant’anniprima in diverse universita americane.

Dell’Orto soggiunse, con un sorrisetto malizioso, chein questo modo si sarebbero anche valutati i docenti.Infatti i migliori voti non si potevano ottenere con lacompiacenza del singolo docente. Nessun docente avreb-be potuto, consapevolmente o meno, favorire o sfavorirei “suoi” studenti .

L’esperimento si rivelo molto interessante. Ci poseanche di fronte al dilemma, mai risolto, di come affron-tare le debolezze dei docenti. Nel sistema anglosassonela selezione e brutale. Un docente che fa nettamente peg-gio dei suoi colleghi, viene obbligato a seguire corsi dicomunicazione. Se ripete gli esiti dell’anno precedente,nonostante i consigli ricevuti, viene licenziato nel su-

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periore interesse della comunita. Va detto che, in quel-le realta, un docente incapace di insegnare difficilmenteviene assunto. La valutazione delle qualita espositive diun docente, viene fatta contestualmente alla valutazio-ne delle qualita scientifiche e finisce per avere un pesomolto rivelante, a volte decisivo. Ma qui si entra in undiscorso che meriterebbe un trattato. Sara per un’altravolta.

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Insegnamento, divertimento e sesso

Il secondo esonero capita di martedı grasso. Dobbiamofarlo quel giorno. Non possiamo permetterci il lusso diperdere un giorno di lezione. E fissato per le due e mez-zo di pomeriggio. Clandestinamente, prenotiamo un’au-la a matematica. La clandestinita era dovuta al fattoche le regole dettate dal CCL di Fisica, ci proibivanodi far sostenere questa prova fuori dall’orario di lezione.Il dream-team, a quel tempo, “resisteva” contro questadecisione.

Mi avvio con Pasquali per raggiungere i ragazzi inaula e, passando per i giardini antistanti il nostro edi-ficio, noto una della mie studentesse vestita da strega.Faccio finta di non vederla e mi mordo le mani per nonaverci pensato! Improvviso un cappello di carta, strettostretto, lungo lungo e me lo piazzo sulla testa. Il Pasqualinon fa una piega. Entro in aula, con aria serissima. So-no tutti ai loro posti. Chiaramente intenzionati a fare ilcompito. C’e Biancaneve, Zorro, un turco con la scimi-tarra e, insomma, un intero campionario di personaggi.Io avanzo con il mio cappellone. Come fosse la cosa piunormale del mondo. Alzo la testa e tutti ci apriamo inun sorriso liberatorio. E bellissimo. Che fico!

Durante la prova si avvicinano, come sempre, variepersone a chiedermi qualche chiarimento o consiglio. Ra-

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gazzi o ragazze che siano, si accostano per farmi vedereil loro compito. Indicano sul foglio la parte sulla qualeci sono i conti che stanno cercando di farsi tornare e misfiorano, quasi si appoggiano a me, che di solito sto inpiedi accanto a loro. Si crea un clima di confidenza chee difficile descrivere.

Ci vorrei provare per spiegare un punto importantenella vita di un insegnante. La disponibilta umana, lafiducia nei miei confronti e mille volte quella che si provaper un perfetto estraneo quale dovrei essere io, dopo 40ore di frequentazione per di piu non individuale.

Succede, a volte, che dopo una lezione io abbia bi-sogno di scrivere per rispondere ad una loro domanda espiegarmi con loro. «Si venga a sedere accanto a me»;e comincio a scrivere. Poi mi sorprendo a pensare chenessuna ragazza di vent’anni accetterebbe un invito delgenere se io fossi la stessa persona, ma senza il mio ruolo.

Si sentono storie orribili sul fatto che il capoufficio,oppure un docente, abbiano approfittato del loro ruo-lo per infastidire una donna. Spesso avverto un certoscetticismo da parte di chi ascolta queste storie. Siamoitaliani, il paese dei grandi amatori. In sostanza tendia-mo a fare sempre il tifo per il maschio. Ahime, mi pareche anche moltissime donne non siano sufficientementeconsapevoli del maschilismo che impera in Italia.

Ecco come funziona negli Stati Uniti. Conosco moltestorie, tutte vere. Un mio caro amico sudamericano, chelavora in un famosissimo centro di ricerca negli States,mi tiene aggiornato. Ad esempio, quando era piu giova-

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ne, uno dei suoi primi incarichi fu di insegnare un corso“undergraduate”. Si tratta quindi di insegnare ad unaclasse di persone ventenni o giu di li. Prima di comin-ciare il corso, la persona che da noi corrisponderebbe alpresidente del CCL, ma che lı ha molto, ma molto piupotere coercitivo sui docenti di quanto non avesse Altieria fisica, manda a lui, come a tutti gli altri docenti di ses-so maschile, un vademecum su come comportarsi con glistudenti. Fra le altre cose c’e scritto: «You are forbiddento make eye contact with female students». Traduco allabuona: «Ti e proibito guardare negli occhi gli studentidi sesso femminile».

Dico subito, per fare piacere a chi la pensa in manieraopposta alla mia, che e possibile abusare di questa rego-la. Se una donna volesse mettere in difficolta il propriodocente e lo accusasse di “sexual harassment”, ovverodi aver tentato approcci a lei indesiderati, il docente inquestione sarebbe nei guai fino al collo.

Esistono donne cosı? Certo. Ad esempio, proprioquesto mio amico, mi racconto di un suo collega, uomo,che avendo ricevuto nel suo studio la visita di una stu-dentessa, con la porta rigorosamente aperta come pre-scritto dalla legge!, si trovo nella antipatica situazionedi un accenno di ricatto.

Se la cavo uscendo di corsa dal suo studio gridando:«Help! Help! I found a woman in my office!». «Aiuto,aiuto! Nel mio ufficio c’e una donna!». La ragazzina, perquesta volta, non riuscı a fregarlo.

Dopo aver fatto contenti i tradizionalisti, devo direche l’idea che sia illegale per un docente “fidanzarsi” inqualunque forma con una propria (o un proprio) allievo

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durante il periodo dello svolgimento del corso rappresen-ta una regola di grande civilta. Pur senza scomodare la“sindrome di Stoccolma”, questa regola stabilisce il prin-cipio che il rapporto umano che si crea fra due individuidi cui uno ha la possibilita di decidere una parte im-portante del destino dell’altra, deve essere regolato dalCodice in maniera diversa dal modo con cui si regolanoi rapporti fra due “pari”.

I problemi di discriminazione, i problemi di abusodel proprio potere, i problemi creati dalla difesa di pri-vilegi insensati, sono vecchi quanto il mondo. A volte enecessario forzare, mediante le regole, il sentire comune.Se non fosse intervenuto l’esercito, negli Stati Uniti cisarebbero ancora scuole per soli bianchi. E non esiste-rebbero alcuni dei piu bei parchi nazionali del pianeta.Naturalmente si potrebbe dire che, a quel punto, la so-cieta fosse matura per quelle prese di posizione. Che lenorme seguano i comportamenti dei cittadini. Forse. Maa giudicare da quanto sia difficile sradicare il razzismoqui come in America, penso che, a volte, sia proprioil coraggio di politici lungimiranti a dare una svolta, aproporre un modello diverso. Penso che se in America sifosse aspettato l’avvento della tolleranza per cambiarele regole, saremmo ancora in presenza di scuole per solibianchi. In attesa.

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L’ultimo esonero

Insieme ai colleghi del dream-team, analizziamo i risul-tati dell’ultima prova scritta. Questo esito servira periniziare l’esame orale, prova conclusiva del corso, con unvoto o comunque un giudizio di partenza. Il nostro meto-do di valutazione ha reso molto semplice fare classificherelative. E chiaro chi ha fatto meglio di tutti, chi se labattera per voti alti e chi non ce l’ha fatta. Eppure cisono alcune persone che sono al pelo. Sono vicinissimealla soglia che ci sembrava il minimo, ma sono ancorasotto tale soglia.

E il momento di discutere il senso di questa soglia mi-nima. Certamente, questa soglia deve essere scelta conl’idea che queste persone dovranno sostenere altri dueesami di analisi. Il primo, a seguire quello che stannoappena completando, comincera nel secondo trimestre.In pratica fra tre settimane. Dobbiamo fare in modo checoloro i quali passino il nostro esame abbiano una realechance di seguire questi nuovi corsi. Dovranno continua-re ad apprendere cose che sono indissolubilmente legatea quelle del primo corso. Vogliamo evitare che i nostristudenti, per la loro insufficiente solidita nel primo corso,vengano condannati ad un inesorabile tonfo nel secondo.

Non ci sono ricette precise. Decidiamo, per una vol-ta, che quest’ultima scelta, direi questo ultimo verdetto,non possa essere emesso caso per caso da tutti noi. Ognu-

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no dei docenti dovra esercitare la propria responsabilitain maniera piu individuale. Ci fidiamo l’uno dell’altro eci diamo, vicendevolmente, carta bianca.

Qui entrano in gioco le componenti di emotivita diognuno di noi. Qualcuno le reprime. Crede sia ingiustodare credito ad uno studente solo perche ha mostratoprogressi fenomenali. Il livello attuale non e quello richie-sto. E un punto di vista rispettabile ma, a mio parere,troppo statico. Non tiene conto del passato ed ancorameno si spinge a prevedere il futuro.

Cerco di riordinare le idee e fare appello ai miei prin-cipi. Ritengo di esercitare una funzione che non esito adefinire di giudice. Sento veramente tutto il peso di que-sta responsabilta. Il Giudice deve dispensare la Giusti-zia. La prima regola che mi impongo e il mantenimentodella “giustizia relativa”. Se 18 corrisponde al peggiorrisultato ancora utile per passare l’esame, allora chi farameglio dovra avere almeno 19. Usero tutti i voti dal 30 elode, al 18, fino al responso negativo.

Sono quindi rimasto solo a decidere del destino deiragazzi per i quali permangono dei dubbi.

Credo che il mio compito sia quello di incoraggiaretutti coloro che, secondo me, ce la potranno fare, an-che se con fatica, a laurearsi e che invece sia quello discoraggiare soltanto quelli che, secondo me, non ce lapotranno fare.

Cerco di calibrare questo giudizio, non sulle mie aspet-tative e capacita. Piuttosto voglio, devo, tenere conto delcontesto. Ad esempio, le mie tante volte in commissio-

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ne di laurea mi hanno insegnato che le persone che silaureano con voti veramente bassi, hanno una prepara-zione estremamente debole. Tengo presente quel riferi-mento per i miei studenti in maggiore affanno. Da anniho scacciato ogni pensiero in cui faccia capolino la vanitadel docente “bravo” che meni vanto del fatto che nessu-no prenda 30 con lui. Quell’attitudine, ai tempi nostri,mi pare solo una dimostrazione di latente frustrazione.

Del gruppo a cui avevo affidato il lavoro differenzia-to, circa una quindicina, ce ne sono ora sei o sette chesaranno certamente promossi. Due o tre che non hannola sufficienza. Ma secondo me ce la faranno. Gli altri, senon hanno gia abbandonato, sono troppo indietro. Fraquesti c’e Giusti. Ha preso undici trentesimi. Troppopoco.

Ci riuniamo con tutti i ragazzi, al pomeriggio, perconsegnare questo primo esito. Secondo le regole che cisiamo dati, io ho concorso solo per un quarto a deter-minare quei voti. E sono grato a Dell’Orto che, con ilsistema di correzione che ci ha suggerito, mi ha resoimpossibile favorire questi ragazzi di cui, oramai, sonodecisamente complice. Parlo con ognuno di loro. Sonorimasti in 47. Un numero straordinariamente alto. In al-tri due canali ce ne sono poco meno di 40. Nel quarto,sono meno di 20. Il primo giorno ne avevo in classe 53.E li ho contati spesso, alla fine delle lezioni, scherzan-do con loro. «Oggi siete 43. Il mio indice di gradimentoe in ribasso!». «Ma c’e l’esonero di Meccanica» dice lavoce di uno di quegli studenti che, se non esistessero,bisognerebbe inventare.

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Passano molte ore. I bravi mi domandano perche ioho corretto loro pure le virgole mentre ad altri no. Ri-spondo che, con loro, sono alla fase dei ritocchi. Hanno lepotenzialita per non sbagliare neanche quelle. Poi faccionotare che, in quell’esercizio, hanno preso il massimo. Sirilassano.

Arriva la ragazza che, in teoria, non ce l’avrebbe fat-ta ma alla quale, forzando le regole, ho deciso di dareuna chance. Le dico che, a rigore, era ancora un po’ sottoil pelo dell’acqua. La interroghero per ultima agli orali,cosı avra piu tempo per studiare. Ne ha bisogno.

E contenta di avercela fatta. Un mese fa avrebbemesso la firma su un esito come questo. Ma mi rendoconto che il mio commento l’ha un po’ impaurita. Ag-giungo: «Secondo me, ce la fara». Non direi questa frasese non la pensassi davvero. La posta in gioco e alta perlei. E quindi anche per me.

L’aula si svuota. Rimane solo Giusti. Che faccia puli-ta e solare! Vorrei consolarla ed ho dei buoni argomenti.Comincio: «Mi dispiace . . .». Sto per continuare. Ho del-le cose da dire, ma lei mi interrompe. «No! Professore. Iosono contenta. Guardi. Guardi il mio compito. Ho preso11. Ma non c’e nemmeno un errore. Nell’esercizio che miha corretto lei, guardi . . . nemmeno un errore! Ho fattopoco. Sono ancora molto lenta. Ma questo 11 vale moltodi piu del 7 che avevo preso al primo esonero».

La maturita di questa ragazza non mi sorprende. Micolpisce il suo tono. E lei che vuole consolare me. Toccaa me e le dico il mio pensiero appassionatamente. Ef-fettivamente il compito e un piccolo miracolo, che leiha operato in appena dieci settimane. Purtroppo aveva

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cinque giri di ritardo e non e riuscita ad arrivare al tra-guardo in tempo. Ma aveva solo dieci settimane. Sonoconvinto che, alla fine del secondo trimestre, sara capacedi fare entrambi gli esami, questo che le e rimasto indie-tro e quello ancora da cominciare. A patto che continui afarsi aiutare. Ne ha ancora un po’ bisogno. Le dico, congrande chiarezza, che la stima che io provo per le perso-ne non dipende dalle cose che conoscono. E che lei si eraguadagnata pienamente il mio massimo apprezzamento.Ci salutiamo con una intensa stretta di mano. Le auguroin bocca al lupo. Mi ferma e mi chiede se insegnero ioil secondo corso di analisi. Le rispondo che, nel secondosemestre, insegnero a Matematica. Quindi no. Avra unaltro docente. Lo conosco ed e bravo. «Professore. Ades-so che sono sicura che non tocchera a lei giudicarmi, lavoglio ringraziare per come ha lavorato. Tutta la classela pensa cosı». Mi commuovo, ma cerco di non piangere.

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L’esame orale

Dovemmo sostenere una dura battaglia, noi del dream-team, per potere ottenere due o tre giorni di tempo neiquali fare svolgere i 40 esami orali. La teoria del CCL diFisica, manco a dirlo, era che fosse una totale perdita ditempo. C’era stato tutto il tempo di valutare le provescritte. Il tempo necessario e sufficiente per valutare ade-guatamente lo studente. Scrissi una lettera aperta aglistudenti, ai docenti e al Presidente del CCL. E ancorasul mio sito. Nessuno mai mi ha risposto, con l’eccezionedel solito Altieri:

«Caro Enzo,ti ringrazio del messaggio e osservo che i punti da te sollevatisono tutt’altro che banali. Sicche meritano riflessione e inda-gine. Ma . . . ci costringe a posporre l’approccio . . . a causadelle nostre limitate forze e capacita. Ma credo che ora do-vremmo . . . affrontare anche la questione delle metodologiedidattiche. . . . e grazie ancora . . . ».

Nella mia lettera argomentavo su due punti principa-li. L’esame orale, senza ombra di dubbio, e utile allo stu-dente. Questo ragazzo o questa ragazza hanno l’opportu-nita di confrontarsi con una persona molto piu esperta.In questo tempo il docente, attraverso le sue osservazionie i suoi suggerimenti, completera il loro percorso forma-

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tivo, insegnando ad esporre piu efficacemente cio che si eappreso. Durante questo incontro il docente cerchera dipersuadere lo studente, facendolo eventualmente scon-trare con le sue debolezze, che e proprio 23 il voto chemerita. Altrettanto utilmente convincera una studentes-sa che crede di essere bravina che, invece, si sbaglia.E eccellente! Tutto questo ed altro ancora, non si fasemplicemente appiccicando un voto ad una matricola.

Il secondo punto, altrettanto importante, e che il do-cente, in questo modo, verifica il proprio lavoro. Se unargomento e stato insegnato alla giusta velocita e conchiarezza, gli studenti lo esporranno con grande preci-sione ed efficacia. Se diversi studenti incorreranno nellostesso errore, e probabile che il docente si sia spiegatomale. L’anno venturo dovra cambiare il modo di espor-re quell’argomento, oppure spostare l’argomento in unaltro punto del corso, nel caso che questo fenomeno sifosse riscontrato anche negli altri canali.

In ogni caso sara il docente a dover cambiare qual-cosa, senza mortificare gli incolpevoli studenti.

Con queste premesse, ho spiegato ai miei ragazzi acosa serve l’esame orale. Parlo chiaro. «Non e il momen-to in cui voglio esercitare una forma di sadismo. None il momento delle sorprese. E il momento in cui, in-sieme, cercheremo di utilizzare il tempo che abbiamoper verificare se il giudizio, ed in definitiva il voto, cheavro in mente prima ancora che vi sediate davanti a meper sostenere l’esame, sia effettivamente corretto. Se unargomento che dimostraste di non aver capito bene do-vesse emergere durante l’esame, cerchero di rispiegarvelo

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in quel momento. Sarete molto piu pronti, dopo alcunigiorni in cui vi siete potuti dedicare solo allo studio del-l’analisi, a comprendere i miei argomenti. Se, alla finedell’esame, saro sicuro che avrete compreso la spiegazio-ne, per me varra come se aveste saputo rispondere findall’inizio. Cercate di dare il meglio di voi. Io cercherodi fare altrettanto».

Li convoco, con loro grande sorpresa, in un ordineapparentemente casuale per un certo giorno ad una certaora.

Quando io ero studente, mi capitava di essere con-vocato alle otto del mattino e di sostenere l’esame alleotto di sera. Eravamo in tanti, ed era difficile fare previ-sioni esatte. Ma era chiaro che i docenti non si curavanodelle nostre sofferenze. Non volevo che fosse cosı per i“miei” studenti. Chiedo che siano puntuali. In questomodo aspetteranno quel che c’e da aspettare ma, tipica-mente, mai piu di un’ora. Li esorto a non venire ad as-sistere agli esami orali dei colleghi. Ricordo che avrannopochissimo tempo per preparare i loro esami. Sebbenequesto fatto non dipenda da me e sia una scelta del CCLche non condivido, intendo rispettarla. Credo sia piuutile che usino questi scampoli di tempo per studiare.

Il mio metodo, apparentemente casuale, per deciderel’ordine in cui sosterranno l’esame e, in effetti, attenta-mente ponderato. Ci sono due principi ispiratori. Primo:ritengo decisivo ascoltare prima gli studenti eccellenti. Eper due ragioni.

La prima e che gli altri, quelli meno bravi, hanno unmaggiore bisogno di quelle 48 ore di tempo in piu. Le

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useranno per studiare prima che venga il momento dellaloro interrogazione.

La seconda, a mio avviso fondamentale, e che al piupresto, intendo “testare” tutto il programma con gli stu-denti eccellenti. Li stimo, e so che se esporranno maleun concetto, c’e da sospettare che l’abbia spiegato ma-le io. Con loro potro accorgermene e non gravare suglistudenti meno ferrati.

Il secondo principio nasce dalla convinzione che as-segnare i voti con equita sia difficile. Mi aiuta moltointerrogare persone, da cui mi aspetto rendimenti simi-li, in tempi ravvicinati fra loro. In questo modo sara piuragionevole proporsi di distinguere fra chi merita 24 e chi25. Per questi motivi l’idea e di usare l’ordine decrescentedei voti dello scritto.

Questo mi aiutera anche ad evitare di esercitare unamaggiore clemenza soltanto sui piu deboli. In questo ca-so mortificherei quei ragazzi e quelle ragazze che, se an-che solo appena piu preparati, meritano lo stesso inco-raggiamento. Questo deve trasferirsi anche al livello, soloapparentemente banale, del voto d’esame.

Arriva il primo giorno degli orali. Il primo a dover so-stenere l’esame e un fuoriclasse. Io lo so. Lui lo sospetta.Gli chiedo se e destro o mancino in modo da farlo ac-comodare dal lato in cui, con la mano con cui sorreggela penna, non mi copra la visuale del foglio sul qualescrivera.

«Come va?» gli dico. «Un po’ teso» dice lui. «Ottimopunto di partenza per fare un bell’esame». Scrivo sul fo-glio che gli metto davanti, il misterioso numero 08033101.Per lui non e chiaro cosa sia questo numero ma non osa

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chiedermelo. Le prime quattro cifre – 0803– registranol’ora di inizio dell’esame. Sono le otto e tre minuti. Lesuccessive due cifre –31– formano il numero trentuno. Eun modo sintetico per ricordarmi che la media del suovoto agli esoneri e trenta e lode. Le ultime due cifre –01–servono a numerare la pagina che sta usando. Il primodato e necessario. Non posso, mi e proprio vietato, te-nerlo troppo a lungo. In tre giorni e mezzo devo esami-nare 47 persone. Ci sono dei tempi morti non indifferen-ti per la “registrazione” dell’esame, quella funzione, unpo’ anacronistica, in cui devo copiare a mano i suoi dati,scrivere su che cosa l’ho interrogato, trascrivere il votoed infine falsificare il tutto, in ossequio alla legge, facen-do finta che all’esame fosse stata effettivamente presenteuna commissione formata da tre membri. Il massimo cheposso concedergli e un’ora lorda. E questo rinunciandoa pranzare e riducendomi veramente a pezzi alla fine diquesta maratona di tre giorni. Durante l’esame, special-mente se il candidato e brillante, e facile che io perda lacognizione del tempo. Con questo piccolo accorgimento,vengo riportato alla realta.

Il secondo dato mi serve per tenere sempre presen-te che, alla fine, devo concretizzare il mio giudizio inun voto finale. Le domande che formulo devono aiutar-mi a verificare se il numero scritto nella prima pagina,che rappresentava la mia stima iniziale, vada cambiatooppure confermato. Infine la numerazione della paginaserve perche, ad orale concluso, rileggero i fogli numeratiprima di formulare il giudizio finale.

Questo modo di numerare i fogli, risultera decisivoquando, dopo molte ore di lavoro, oramai molto stanco,avro difficolta a ricordare come confrontare due persone.

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Allora riprendero i fogli e pensero che Tizio ha preso 23e ha risposto cosı, e allora Caio merita 24.

Il primo esame orale scorre tranquillo. Il candidato esicuro di se. Dopo la prima domanda, un po’ di routineper metterlo a suo agio, gli confermo esplicitamente chesono soddisfatto di come ha risposto e passo ad unodegli argomenti di solito considerati ostici (per saperecome l’ho insegnato!). Se risponde bene sono contento(per me). Va tutto liscio. La terza domanda e moltopiu impegnativa. Oramai l’esame serve solo a dargli lasoddisfazione che merita. Lo ascolto ammaliato dalla sualucidita. Finisce di parlare e faccio eccezione alla miaprassi. Guardare voti e fogli sarebbe una pagliacciata.Gli dico: «Trenta e lode. Complimenti».

Posso sentire la sua emozione ed il fatto che vorrebbedire qualcosa. Ma non dice niente di non convenzionale.«Grazie». «E un privilegio avere uno studente come leiin classe» gli rispondo. Dopo un paio di settimane miscrivera una lunga lettera in cui mi dira molte delle coseche avrebbe voluto farmi sapere in quel momento e che,saggiamente, ha deciso di dirmi in modo piu privato.

Si succedono esami simili. Menti giovani ed agili chestanno lı per farsi ammirare. Non ho difficolta ad asse-gnare diverse lodi ampiamente meritate. Qualcuno pen-sa di non meritarla e me lo dice apertamente. «Nonho risposto bene alla seconda domanda». «Non e vero»,ribatto.

Alcuni studenti sono abituati ad essere giudicati perquello che ricordano. Per questo motivo pensano di nonavere risposto bene. Ma la memoria, in matematica, emeno importante di altre qualita.

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Mi piace un’immagine racchiusa nel testo di una can-zone di De Gregori:

Nino non aver paura,di sbagliare un calcio di rigore.Non e mica da questi particolari,che si giudica un giocatore.Un giocatore si vede dal coraggio,dall’altruismo, dalla fantasia . . .

La fantasia. Ingrediente indispensabile per tutte learti, non puo mancare a nessuno scienziato e, certamen-te, a nessun matematico.

E il turno di una moretta. Si siede e non mi e chia-ro quanto sia brava. Ha fatto bene, ma non benissimo.L’ho vista poco al ricevimento e quindi la conosco menobene. L’esame si presenta piu difficile per me. Ho menoelementi. Mi concentro per avere una strategia chiara.Per gli studenti precedenti, il voto non era in discus-sione. Sapevo gia che avrebbero avuto 30 o 30 e lode.Con lei e diverso. Parto quindi con una domanda chela metta a suo agio. E precisa. Impeccabile. Alzo il tiro.Forse, il 26 allo scritto non le rende giustizia. Non la lodoapertamente. Non sono sicuro e non voglio che riman-ga delusa. Scrive piccolo, ordinato. Con una voce ferma,ma dolcissima, continua ad esporre con grande autore-volezza. Non mi guarda quasi mai negli occhi, se non perascoltare la mia domanda. Poi testa bassa e pedalare. Aquesto punto faccio uso del fatto che il motivo per cuinon aveva preso un voto piu alto allo scritto era che, nelsecondo esonero, aveva preso una cantonata sull’uso di

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un certo teorema. L’ultima domanda e una versione, pa-recchio piu generale, dello stesso quesito. Risponde consicurezza.

Mi e chiaro che lo scritto non ha colto il suo valore.Le dico che l’esame e finito. La invito ad accomodarsiper darmi il tempo di riflettere sul suo esame. Riguardoi fogli che ha riempito. Non un errore. Non una sba-vatura. Merita 30. La chiamo e le dico: «Il suo esamee approvato con 30, brava. Per favore mi dia un docu-mento ed il numero di matricola». Deglutisce. Prendequello che le ho chiesto. Comincio a riempire il verba-le, che devo compilare affinche le mie parole diventinouna realta, anche per la burocrazia. Mentre lo faccio,come sempre, impiego il tempo per commentare l’esameappena concluso. «Il suo esame orale e stato brillante.Lei ha proprio una bella testa. Ragiona in modo moltoefficiente». Il suo occhio diventa quasi liquido. «Non lapensava cosı la docente dell’anno scorso». (Ecco perchela vedevo poco! Era una studentessa del secondo an-no). «Lei mi boccio e mi disse che queste cose io nonle avrei potute mai capire». Quella volta, avevo fatto dipiu che semplicemente promuovere con merito una ra-gazza intelligente. L’avevo riconciliata con quel trauma.«Compiango la mia collega», le dissi. Poi, come fac-cio con tutti coloro che sostengono un esame con me, lestrinsi la mano.

Quasi tutti i miei studenti lo considerano un gestocarino ed alcuni lo apprezzano in modo particolare. Ame piace per vari motivi. Da solennita all’esame. Unasolennita che, secondo me, merita. Ma e anche un con-tatto fisico, che risponde al mio desiderio di conoscerli,

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di entrare in confidenza con loro e di fare in modo chemi considerino per quello che sono. Un essere umano.Esattamente come lo sono loro.

Gli esami continuano e la stanchezza aumenta. Gliesami divengono sempre piu difficili per me.

Domani dovro esaminare gli ultimi studenti della li-sta, quelli che rischiano di non farcela. Si rivelera un’al-tra giornata intensa. Densa di emozioni.

Le persone che devo interrogare, in questo ultimogiorno di esami orali, sono quelle che hanno avuto i votipiu bassi nelle prove scritte. Scopriro, grazie alla rea-zione di uno di loro, che il mio “metodo” di interrogaresecondo un ordine preciso, dal voto piu alto a quello piubasso, ha un difetto, che poi cerchero di correggere neglianni successivi.

Infatti non avevo dichiarato esplicitamente alcunaregola per non metterli in competizione fra di loro. Ilmetodo mostro il suo limite quando, contravvenendo aimiei suggerimenti, uno studente si presento alle otto delmattino, nonostante lo avessi convocato per le quattrodel pomeriggio. Questa sua presenza, oltre a stancarloin maniera tale da ridurlo uno straccio (alla fine sosten-ne l’esame alle cinque del pomeriggio), creo in lui delleaspettative sbagliate. Non rendendosi conto della suasituazione, credette di poter aspirare ad un voto che,invece, era abbordabile per i ragazzi della mattina chepartivano con voti migliori dei suoi, ma non per lui. Ov-viamente, se non avesse presenziato a tutti quegli esami,questa falsa impressione non si sarebbe impadronita dilui.

Fu l’ultimo della giornata. Il suo orale non era al-

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l’altezza del suo scritto, pure non esaltante. Era troppostanco. La responsabilita era tutta sua. Se fosse venu-to alle quattro, come avevo suggerito, avrebbe attesoun’ora, una cosa fisiologica. In quel modo, sarebbe stataun’altra storia.

Decisi di confermargli il voto, credendo che ne sareb-be stato felice. Invece ebbe una reazione rabbiosa e quasiviolenta. Fra le altre cose disse che non era possibile chetutti avessero preso voti migliori dei suoi, adombrandoun trattamento non equo da parte mia.

Era molto, molto arrabbiato. Prese a calci una portae, pur senza mai risultare offensivo o maleducato nei mieiconfronti, mi lascio con un senso di profonda amarezza.

Mancavano ancora due ragazzi. Entrambi campani,come me. Se avessi dovuto fare un viaggio in un po-sto pericoloso, pieno di insidie e avessi dovuto sceglieredelle persone capaci con la loro presenza di spirito, conla loro prontezza, con la loro intelligenza, di salvarmiin ogni occasione, avrei certamente scelto uno di loro.Indubbiamente avevo un pregiudizio (positivo) nei loroconfronti.

Prevedere se sarebbero stati promossi oppure no, nonera facile. Si sedette il primo di loro. Come a volte faccioin queste occasioni, lo esaminammo in due, io e Pasquali.Sulla capacita del Pasquali di decidere su questi casidubbi, ho incrollabile fiducia.

In questi casi le domande sono scelte con molta cura.Sappiamo benissimo che dobbiamo aiutare il candidatoa convincerci che se la potra cavare. Chiedergli di piu loesporrebbe al pericolo di perdere quel credito che il suo

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voto allo scritto, anche se appena appena sufficiente, gliha gia fornito. E un ragazzo sveglissimo. Se fosse natoin un altro posto, ed avesse studiato in una altra scuola,sarebbe fra i primi, senza sforzo.

Ma ha cominciato a studiare seriamente sessanta orefa, quando ha cominciato a frequentare questo corso dilaurea che, per lui, credo sara l’occasione del riscatto.Pasquali e d’accordo. Prendera 19. Giusto per dirgli che,secondo noi, potra crescere. Salutandomi mi fara sapereche lui era stato uno dei tre scelti da Altieri per decideresulla questione del quarto d’ora accademico.

L’ultimo studente e un isolano. Mi ha chiesto di so-stenere l’orale, nonostante, a giudicare dai voti agli eso-neri, non fosse tanto il caso. Vive pendolando in manierafaticosissima fra casa sua e questa sede dove ha decisodi studiare, non so bene per quale motivo.

Fin dalle prime battute e chiaro sia a me che a Pa-squali che il candidato non ce la potra fare. Adesso mitocca l’ingrato compito di convincere anche lui. Gli chie-diamo di scrivere le sue affermazioni matematiche. E co-me chiedergli di scrivere la confessione che vuole esserebocciato. Dopo meno di dieci minuti, gli facciamo capi-re che l’esame non sta andando bene. Ci chiede un’altradomanda. Sarebbe veramente accanimento terapeutico.Gli dico che mi dispiace. Pasquali annuisce. Non abbia-mo dubbi. Gli sarebbe impossibile seguire il successivocorso di analisi, fra tre settimane.

Pasquali ha finito di aiutarmi e mi saluta. Va a pren-dere la nipotina a scuola. Lo ringrazio di cuore per ilsostegno che mi ha dato. Questo ragazzo raccoglie le suecose e poi, non appena Pasquali si e allontanato, ritorna

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da me. Inizialmente mi prega di promuoverlo. Per direa casa che lui ci ha provato veramente. E proprio dura.Che mi costerebbe? Sarei falso se dicessi che non vengoindotto in tentazione. Ma poi cerco di ragionare. Effet-tivamente a me non costerebbe. A lui invece sı. Deveaffrontare la realta.

Gli dico quello che penso, che promuovendolo nonlo aiuterei. Mi stringe la mano, ha gli occhi lucidi manon piange. Mi chiede se, secondo me, si troverebbe me-glio ad Ingegneria. In quel momento, mi piacerebbe fareun altro mestiere. Gli spiego che, se si e studiato trop-po male alle superiori, non si riesce, da soli, a reggereil ritmo di una buona facolta scientifica e che quindi,se questo vuole fare, deve farsi aiutare. Dovrebbe usarequesto anno solo per prepararsi ad iniziare l’anno pros-simo. Gli spiego anche che pendolare aggiunge difficoltaa difficolta e che quindi, non deve essere troppo severocon se stesso. Riuscire, con le sue condizioni di partenza,sarebbe stato piu di un miracolo.

Credo in quello che dico ma, allo stesso tempo, mirendo conto che gli sto dicendo che nascere in un certoposto puo essere una condanna, e piu precisamente unacondanna a vita. Con buona pace delle pari opportunita.

Niente va piu sprecato, in questo nostro bellissimopianeta, del talento delle persone.

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L’ultima lezione

Ho appena terminato la parte tecnica della lezione. Ades-so gli studenti dovrebbero essere in grado di risolvere l’e-sercizio sulle equazioni differenziali che gli daremo. Qua-le sara l’esercizio lo sappiamo gia. Il dream-team ha giadeliberato a tale proposito. In questo modo e facile pre-parare esercizi da svolgere in classe che veramente dianoloro la possibilita di mostrare di aver appreso quanto gliabbiamo insegnato.

L’ultima lezione, cronologicamente, si e svolta primadegli esami orali. Desidero pero che sia l’ultima partedel mio racconto.

Credo di avere gia detto che l’ultima lezione mi coin-volge in maniera speciale. Sono contento di aver portatoa termine un compito. Ma c’e un po di malinconia. Frapoco, questi ragazzi e ragazze usciranno dalla mia vita.E giusto ed inevitabile. Non mi piace insegnare due voltealla stessa classe. Quello che ho da dare, poco o moltoche sia, non e ripetibile. La parte piu bella, la reciprocaconoscenza, e gia avvenuta. Inoltre, il nuovo corso co-mincerebbe con dei pre-giudizi da parte mia e da parteloro che nuocerebbero ad entrambi. Una delle cose belledell’universita e proprio che, in ogni corso, si ricomin-cia da capo. Alle superiori, se il professore di italiano ti

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considera scarso alla fine del primo anno, per te e finita.Tranne casi rari, i docenti non cambiano piu idea suiloro allievi, e viceversa.

Lascio gli ultimi cinque minuti per me. E proprio unregalo che faccio a me stesso. Ho preparato un piccolodiscorso. So che saro emozionato e quindi ho anche pre-parato due cose da lasciare loro, per sottolineare que-sto momento. Prima di andare via le appendero sullalavagna.

Mi siedo sulla cattedra interrompendo, e una dellerare occasioni, il mio moto perpetuo fatto di passeggiatesui gradini che portano ai posti a sedere, di continuiandirivieni fra una lavagna e l’altra. Di salti, flessioni.Tutto me stesso mi serve, e tutto me stesso cerco diusare, per spiegare, per aiutarli a “vedere” quello che iogia posso vedere e loro ancora no.

Ma adesso sono seduto. Ritorno la persona che sono.Non sento il dovere di fare bene in questa ultima par-te. Adesso mi spogliero di tutto il mio residuo ruolo diprofessore.

«Mi vorrei dedicare questi ultimi cinque minuti dilezioni, rubandoli al nostro lavoro. Il corso e finito e misono domandato, prima di venire in classe, cosa rima-nesse di sessanta ore di lavoro insieme. Mi piacerebbesapere cosa vi rimane. Ma l’esperienza mi insegna chegli studenti, giustamente, sono pudichi e non amano di-re quello che pensano dei loro docenti. Vi voglio direpero, cosa rimane a me.

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Rimane il preziosissimo bagaglio delle vostre doman-de, alcune delle quali guideranno le mie lezioni degli annia venire. Domande che, a volte, alcuni fra di voi hannogiudicato ingenue ma che, in realta, erano assai profondee pertinenti.

Rimane l’intima soddisfazione di avervi visto progre-dire enormemente, nell’apprendimento dell’analisi, ognu-no secondo le sue possibilita attuali.

Rimangono le vostre risate, quando abbiamo scher-zato insieme e ho cercato di farvi ridere, per farvi ripo-sare un po’.

Rimane il dispiacere di pensare che le mie battuteabbiano potuto ferire qualcuno. – Per esempio lei. – Eindico un ragazzo in seconda fila, al quale avevo da-to, tempo addietro, una risposta scherzosa che, pero, sipoteva prestare ad una interpretazione sgradevole.

Rimane la consapevolezza di non essere sempre statocapace di rispondere nel modo migliore alle vostre do-mande, di aver fatto a volte delle lezioni piu complicatedel necessario. Ma anche la speranza che non ripeterogli stessi errori. Semplicemente ne faro degli altri».

Continuo, oramai parlo senza paura di scoprirmi.

«Sono un uomo molto fortunato. Ho una moglie cheamo follemente, dei figli meravigliosi con i quali ancoragioco, nonostante siano quasi tutti piu alti di me.

E faccio un lavoro stupendo. Ho questo incredibile

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privilegio di insegnare a ragazzi e ragazze che pendonodalle mie labbra perche desiderano imparare.

Non so se devo essere piu grato alla lungimiranza deipadri fondatori della nostra Repubblica che hanno po-sto le basi per darmi la liberta di insegnare ed hannopensato di affidarsi alla fiducia negli italiani. Niente re-gole. Solo autoregolamentazione. Oppure essere grato atutti coloro che non vedono a quanti abusi porti questaliberta. Anche loro contribuiscono a lasciarmi fare. Viringrazio per tutto quello che mi avete dato».

Sipario!

Appendo una copia di una poesia di Kavafis sullalavagna. Il mio corso e finito.

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Itaca, di Konstantinos Kavafis

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,fa voti che ti sia lunga la via,e colma di vicende e conoscenze. . . .Non temere i Lestrigoni e i Ciclopio Posidone incollerito: maitroverai tali mostri sulla via,se resta il tuo pensiero alto, e squisital’emozione che ti tocca il cuoree il corpo. . . .

se non li rechi dentro, nel tuo cuore,se non li drizza il cuore innanzi a te.

Fa voti che ti sia lunga la via. . . .Recati in molte citta dell’Egitto,a imparare, imparare dai sapienti.

Itaca tieni sempre nella mente.La tua sorte ti segna quell’approdo.Ma non precipitare il tuo viaggio.Meglio che duri molti anni, che vecchiotu finalmente attracchi all’isoletta,ricco di quanto guadagnasti in via,senza aspettare che ti dia ricchezze.

Itaca t’ha donato il bel viaggio.Senza di lei non ti mettevi in via.Nulla ha da darti piu.

E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso.Reduce cosı saggio, cosı esperto,avrai capito che vuol dire un’Itaca.

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Avevo promesso un commento ad una domanda fat-tami da uno dei miei studenti. Mi aveva chiesto se valessela pena di faticare tanto per laurearsi in Fisica. Gli ave-vo risposto che quando ero ragazzo sognavo, come moltimiei coetanei, di fare un viaggio a Capo Nord.

In quello, come in tutti i viaggi, reali o immaginariche siano, se ci si pone l’obbiettivo di arrivare alla me-ta per vedere chissa che, allora, certamente, si resteradelusi.

E il viaggio quello che conta. Se sara bello il tempotrascorso a viaggiare, l’approdo non potra deludere.

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Epilogo

Il corso avra alcuni strascichi. Alcuni bellissimi, altri unpo’ amari.

Finiti gli esami passa da me uno degli studenti e midice che no, proprio non puo finire cosı. Propone unapartita a calcetto. Portero i miei figli e, per un giorno,vedro riunite alcune delle cose piu belle della mia vita.

Una di quelle ragazze nelle quali avevo creduto e cheaveva meno di 18 al primo esonero mi scrisse un’e-maildopo piu di un anno. Le chiesi il permesso di riscriverloqui (alterando solo il suo nome).

Caro professore,. . . Un paio di notti fa l’ho sognata. Ero in un ristorante(stile isoletta greca) e Lei era il padrone del posto. Visioneimprobabile ma alquanto rilassante, glielo assicuro! Comeavra capito Lei occupa sempre un angolino non trascurabilenella mia testolina svampita. . . . Il 26 me ne vado due mesiin Guatemala a lavoricchiare (senza soldi, solo vitto, alloggioe belle sensazioni; si spera), chissa che fra qualche chilo equalche mese il mio destino non sia quello di una RigobertaMenchu bizzarramente occidentale. ah ah ah! Un bacione aLei e famigliola.˙ Tante cose buone e vanigliose.

Baci Eva

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Un altro studente mi scrisse una lettera. Era il primoche lo faceva. Un cinese. Gli avevo detto di contentarsidel suo voto all’esonero e venire all’orale. Ma lui insistevache i voti dell’esonero erano giusti, ma che lui potevafare meglio. Fece lo scritto e dimostro di avere ragione.Ovviamente, finito l’orale, nel momento di stringerglila mano e di complimentarmi con lui, lo ringraziai dinon avere ascoltato il mio consiglio che si era rivelatosuperficiale.

Nella lettera mi diceva che lui voleva farmi sapere co-sa rimane. Che la scriveva solo adesso ad esame conclu-so, affinche questo non influenzasse il mio giudizio. Erauna bellissima lettera. Ogni tanto la rileggo e piango dinuovo.

Dopo qualche mese, arrivarono le “schede di valuta-zione”, commenti scritti dagli studenti, ma senza chese ne riveli l’identita. Riguardano l’efficienza dei loroprofessori ed il gradimento che hanno suscitato. Cheemozione “rivedere i miei ragazzi” a distanza di mesi.

Qualche collega si appiglia al fatto che una piccolapercentuale di quelli che compilano i questionari dice co-se scollegate dalla realta, per concludere che le schedenon valgano niente. Ad esempio alla domanda: “Il do-cente e stato assente alle lezioni?”, un paio di personerispondono: “raramente”. Ma io non ho mai saltato unalezione. La risposta giusta e: “mai”. Ma e irrilevante.La maggioranza, direi la quasi totalita di loro, dimostradi aver capito benissimo come rispondere. Ci sono frasiesilaranti, complimenti imbarazzanti, ma anche consiglipreziosi. “Troppe connessioni con argomenti diversi”. Unbello spunto di riflessione. E non fu l’unico.

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Uno dei commenti spiritosi, faceva riferimento al fat-to che durante la lezione, come gia accennato, rimango incontinuo movimento. “La lezione esercita la mente, maanche il corpo. In particolare i muscoli del collo. Sembradi assistere ad una partita di tennis”.

Ogni tanto, mi informavo su come procedeva il secon-do corso di analisi per i miei ex-studenti. Lo teneva undocente molto piu giovane di me. Bravo. Ma molto me-no comunicativo. Per carattere. Mi chiese consiglio e loincoraggiai a seguire la prassi dell’orario di ricevimentoalla maniera del dream-team. Con sua grande incredu-lita, i “miei” studenti andavano al suo ricevimento inmassa. Le buone abitudini sono contagiose.

Sapevo, da questo giovane collega, che Giusti con-tinuava a migliorare i suoi voti agli esoneri. Un giorno,mentre raggiungevo il mio studio, la incontrai. «Profes-sore. Ho fatto gli esami. Ho preso 24 a tutti e due». Eraraggiante. «Sono molto contento. Per lei e per me».

Qualche studente mi chiese consiglio sull’opportunitadi cambiare corso di laurea ed iscriversi a Matematica.Esercito sempre grande prudenza in questi casi. Per al-cuni di loro, pero, non avevo dubbi. Dopo una progres-siva marcia di avvicinamento, oggi alcuni di loro sonostudenti di dottorato in matematica, alcuni in Italia, al-cuni all’estero. Non ho dubbi che diventeranno prestodei colleghi, in qualche parte del mondo.

Il nostro esperimento, la nostra piccola rivoluzio-ne, si rivelo estremamente instabile. Ogni anno biso-

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gnava cercare di rinnovare il patto di reciproca fiduciafra docenti che si dovevano coordinare. Per motivi va-ri, generalmente validi, questi team dovevano cambiarecomposizione.

Il coordinamento e stato messo continuamente in di-scussione. Senza mai essere preso apertamente di pettosi e comunque lentamente indebolito fino a ritornare alivelli appena accettabili e comunque assai lontani daquello iniziale. Questo e forse uno dei motivi che piumi ha spinto a raccontare la nostra esperienza perche,almeno sul mio portatile, ne restasse una traccia.

Quell’anno la mia produttivita scientifica subı uncrollo. In parte fu un problema di quantita di tempodedicato a questa mia attivita didattica. Questo mododi insegnare assorbe una quantita enorme di tempo. So-lo chi ci prova seriamente, se ne puo veramente rendereconto. Quel che e peggio, cominciai a sviluppare un cer-to senso di colpa verso un’altra parte, non secondaria,dei miei doveri accademici: la ricerca. Chi vuole conti-nuare ad avviare alla ricerca giovani promettenti, ha ildovere di continuare a farla lui stesso al livello massimoche gli e consentito dalle sue possibilita. Ed anche que-sto richiede molto impegno, molto tempo e piu di tutto,molta concentrazione.

Le mie piccole battaglie, vinte o perse che fossero,mi avevano estenuato ed enormemente deconcentrato.Le piccole vittorie lasciavano comunque sul campo mol-te vittime. Spesso pregiudicando irrimediabilmente rap-porti personali con colleghi che si sentivano, spesso giu-stamente, attaccati in maniera troppo personale. Unacollega mi disse: «Anche adesso che ti stai scusando con

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me, lo fai in maniera tale da farmi sentire in colpa».Touche!

Il mio atteggiamento di Super-Rompiscatole era ve-nuto fuori anche con i colleghi di Fisica. Un paio di vol-te, in pubblica assemblea, avevo attaccato il modo concui erano state gestite certe emergenze, accusando lepersone che rappresentavano le “istituzioni” a Fisica discelte strumentali nell’interesse primario dei docenti enon degli studenti. E avevo definito queste scelte atti di“vigliaccheria”.

Provate a parlare davanti a cento persone e soste-nere l’esatto contrario di quello che avevano sostenutoprima i dieci oratori che vi avevano preceduto. E unacosa che procura uno stress terribile. In quella, come inaltre occasioni, ero convinto di essere dalla parte deglistudenti e non mi tiravo indietro. Tuttavia le difficoltache ho avuto a testimoniare la mie opinioni dissonantimi hanno stancato, fisicamente e mentalmente. Non mihanno fatto dormire, nonostante le apparenze secondole quali molti pensano che le opinioni degli altri non mitocchino.

La diplomazia e un’arte. Sarebbe auspicabile che fos-se praticata molto piu di adesso dalle nazioni, ma moltomeno dagli individui che, a furia di essere diplomatici,finiscono per parlare del nulla. Il mio atteggiamento nondiplomatico e frutto di questa convinzione.

In ogni caso, sebbene nelle occasioni assembleari par-lassi con l’intenzione di sostenere le ragioni del dream-team, il mio tono sgradevole, i miei accenti polemici,

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i miei riferimenti sempre espliciti a fatti e circostanze,finirono per irritare anche le poche persone che, nellasostanza, erano dalla mia parte. Il mio modo di fare miprocuro molte antipatie e causo anche dei tentativi dirappresaglia.

Il Direttore del Dipartimento di Fisica contatto quel-lo di Matematica. Il colloquio non mi fu riferito diret-tamente. Ma c’e sempre qualcuno che ha saputo e, inmodo amichevole, ti fa sapere abbastanza da ferirti, manon abbastanza da poterti difendere.

Mi fu comunque fatto capire che il Direttore di Fisi-ca si era lamentato della mia arroganza. Evidentemen-te alcune mie prese di posizione in pubblico non eranopassate inosservate. Immagino che mi avesse definito unSuper-Rompiscatole.

Effettivamente non avrei saputo dargli torto. Anzi,a ben guardare, si trattava di una scoperta non partico-larmente originale. Posso solo continuare ad immaginareche gli deve essere stato risposto che anche a Matematicaquesta mia dote era sulla bocca di tutti.

Tuttavia questa tentativo, cosı esplicito, di “norma-lizzarmi” ha rappresentato una notevole amarezza chel’esperienza a Fisica, per altri versi esaltante, mi halasciato.

Ma sarei l’uomo piu fortunato, se fossi condannatoad insegnare a Fisica. Per il resto dei miei giorni.

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Insegno ancora con l’incrollabile fiducia che in ses-santa ore possa cambiare il mondo. Il mio, e quello deimiei studenti.

Quando questo sogno dovesse svanire, dovrei smet-tere di insegnare.

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Indice

Premessa 7

I PRIMI MAESTRI

Studenti ed allievi 11

Prime lezioni di volo 14

Il mio atterraggio a Metematica 22

L’accademico Cardarelli 25

I primi rapporti con Pasquali 29

Il passaggio a Fisica 35

Il professor Petito 37

UN CAMBIO NELLE REGOLE DEL GIOCO

Il passaggio al “3 + 2” 43

Primi conflitti di interesse 49

Chi decide cosa si insegna? 53

Il dream-team di Fisica 57

I primi passi del dream-team 65

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FINALMENTE SI GIOCA

L’ansia del debutto 69

Una serenata 74

Un primo incidente di percorso 78

Secondo incidente di percorso 84

Il contesto: il primo sciopero 87

L’altra campana 90

Le prime verifiche 93

L’archeologo 96

La reazione degli studenti 99

Le idee di Dell’Orto 103

Insegnamento, divertimento e sesso 106

L’ultimo esonero 110

L’esame orale 115

L’ultima lezione 127

Epilogo 133

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Finito di stampare nel mese di ottobre del 2007dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)

per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma

CARTE: Copertina: Digit Linen 270 g/m2; Interno: Usomano bianco Selena 80 g/m2. ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura

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