Italia 150

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34 IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO GIOVEDÌ 25 NOVEMBRE 2010 conseil.it 150 anni d’Italia, insieme al tuo Quotidiano Ogni mercoledì due pagine dedicate al Risorgimento Andare insieme verso la libertà, il progresso e la crescita civile: questo volevano gli italiani, uomini e donne, che fecero l’Italia unita. Un’Unità conquistata il 17 marzo 1861 con aspre ed epiche battaglie sostenute da questi forti ideali. La politica, l’economia, la letteratura, l’arte, la musica accompagnarono il Paese verso un sentire comune, verso la modernità e l’Europa. Da mercoledì 1° dicembre il vostro giornale ospiterà per quattro mesi, fino al 17 marzo 2011, articoli di storici, docenti universitari, intellettuali, giornalisti che racconteranno gli eventi e i personaggi di quella fondamentale stagione. Una riflessione sull’Italia di allora per meglio capire quella di oggi. Legat R. (sec. XIX): Battaglia di Calatafimi. Milano, Museo del Risorgimento. © 2010. Foto Scala, Firenze

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Fascicolo celebrativo del 150° anniversario dell'Unità d'Italia pubblicato da QN Quotidiano Nazionale, il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione

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34 IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO GIOVEDÌ 25 NOVEMBRE 2010

conseil.it

150 anni d’Italia,insieme al tuo Quotidiano

Ogni mercoledì due pagine dedicate al Risorgimento

Andare insieme verso la libertà, il progresso e la crescita civile:

questo volevano gli italiani, uomini e donne, che fecero l’Italia unita.

Un’Unità conquistata il 17 marzo 1861 con aspre ed epiche battaglie

sostenute da questi forti ideali. La politica, l’economia, la letteratura, l’arte, la musica

accompagnarono il Paese verso un sentire comune, verso la modernità e l’Europa.

Da mercoledì 1° dicembre il vostro giornale ospiterà per quattro mesi,

fino al 17 marzo 2011, articoli di storici, docenti universitari, intellettuali,

giornalisti che racconteranno gli eventi e i personaggi di quella fondamentale stagione.

Una riflessione sull’Italia di allora per meglio capire quella di oggi.

Legat R. (sec. XIX): Battaglia di Calatafimi. Milano, Museo del Risorgimento. © 2010. Foto Scala, Firenze

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30 Il caffè della domenica IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO DOMENICA 28 NOVEMBRE 2010

Alessandro Farruggia

«DICIAMOLO chiaramente:l’Italia è un posto migliore diquello che era due secoli fa, an-che grazie all’unificazione. An-che se mi rendo conto che inmolti non saranno d’accor-do...».Dalla sua bella casa di Oxford,indulgendo in una ironia moltobritish, lo storico Dennis MackSmith — uno dei massimiesperti di Risorgimento, prota-gonista di epiche battaglie conicone della nostra storiografiacome Rosario Romeo e RenzoDe Felice — si gode i suoi no-vant’anni, che «mi fanno senti-re più ottimista».

Al punto da riconoscere i

meriti delRisorgimento ita-liano? Al punto da dire, leicosì critico con i Savoia econ igermichehanno infet-tato ilparlamentarismo ita-liano dell’ottocento e chepoi hanno portato al fasci-smo, che tutto sommato fuun successo?

«Alcuni lo negano che il risorgi-mento abbia avuto meriti. Mavogliamo provare che cosa sa-rebbe stato se l’unificazionenon ci fosse stata? Ipotizzare ifuturi possibili non mi appassio-

na, ma il vostro Paese, laddovenon era parte di altri imperi, ametà ottocento era un mosaicodi regni, graducati, ducati, indi-vidualmente di poco o nessunpeso e anche globalmente di se-conda fascia fino a quando, gra-zie a Cavour, si è trasformatouna potenza europea. L’Italiane ha tratto vantaggi e così tuttal’Europa. E quindi Cavour, purcon i suoi errori e il rapportoconflittuale con Garibaldi, do-vrebbe essere caldamente rin-graziato per la sua capacità di vi-sione e il suo coraggio...».

Crede che anche la Legadovrebbericonoscere ime-riti del Risorgimento?

«Se qualcuno pensa che il Nordnon ha tratto vantaggi dall’an-

Quando l’Italias’è destaIlRisorgimentodegli idealiDa mercoledì il nostro viaggio attraverso la stagione dell’Unità

«Attenti, il pericolo

Denis Mack Smith«Senza il Sud il Nord nonsarebbe decollato. Tantipassi in avanti, però...»

IL “FARSI” dell’Italia nel corso dell’’800fu paradossalmente, ad un tempo,avventura brevissima e per tanti versiimprovviso e lento sedimentarsi dimolteplici raccordi soprattutto culturali,che unirono nei secoli le popolazioni traAlpi e Sicilia.Eppure la presenza, per un verso, del ruolouniversale della Chiesa e il perdurare delledivisioni ereditate dalle frammentazioniterritoriali del medioevo, sembravanorendere impossibile il realizzarsi di

qualsiasi utopia di unità politica. Ma poiarrivò l’’800, che raccoglieva l’espandersidei valori della Rivoluzione francese, conla loro uguaglianza degli individui e lanuova sovranità democratica, tenuteinsieme da un forte sentimento diappartenenza nazionale. Questo significòallora il 17 marzo 1861, questo significòl’Unità d’Italia.L’idea di nazione, dunque, a far da lievitoad un diffuso sentimento di popoli chevolevano riappropriarsi del propriodestino, protesi verso spazi di libertà ostiliai vecchi assolutismi dei principi e alleantiche immobili gerarchie sociali.Secolo cruciale, dunque, l’Ottocento, veroe proprio balzo in avanti verso una“modernità” che si allargava, nel bene enel male, a tutti gli aspetti della realtà eche riassumeva tutte le diverse aspirazioni

al collegamento del nostro paese con lapiù avanzata civiltà europea.Ecco perché il nostro giornale haritenuto importante riflettere –attraverso gli interventi dei nostricollaboratori e giornalisti, di storici,docenti universitari, intellettuali – sualcuni di tali fenomeni e supersonaggi che connotarono il secoloe che trovarono particolarerispondenza nelle diverse regioni

della penisola. Consentendo in tal modo alricordo celebrativo del nostro processounitario di immergersi nel concreto dellamolteplicità delle variabili che siintrecciarono allora e che spiegano ancoraoggi – di là dai miti e dai richiamimonumentali – gli eventi di quellastagione.Dal 1˚ dicembre e fino a marzo 2011 - datain cui ricorre il 150˚ anniversariodell’Unità d’Italia -, dedicheremo ognimercoledì due pagine all’argomento. Sitratta di diciassette appuntamenti, con ilcoordinamento redazionale di AchilleScalabrin e quello scientifico del professorAngelo Varni, che vogliono essere uninvito a riflettere sull’Italia di allora permeglio capire quella di oggi.La politica, l’economia, la letteratura,l’arte, la musica accompagnarono questocammino storico. Che il vostro giornaleracconterà avvalendosi di firmeimportanti - da Petacco a Cardini, da DellaPeruta a Franzina, da Brilli a Bressan, daEmiliani a Ugolini, da Ceccuti aCasamassima, da Ciuffoletti a tanti altri -.Si tratta di un viaggio nella storia di unPaese che appena un secolo e mezzo faconquistò la sua indipendenza. E che oggivuole ricordare, per continuare su quellastrada.

Sopra, un particolare de «La battaglia diNovara del 1848», olio su tela.«La battaglia di Solferino del 24 giugno 1859»di Paul Alexandre Protais

CULTURA E SOCIETÀ

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31Il caffè della domenicaIL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO DOMENICA 28 NOVEMBRE 2010

nessione del Regno delle due Sici-lie sbaglia. E sbaglia anche se pen-sa che il Nord si sarebbe potuto svi-luppare in questo modo prodigio-so fino ad essere in grado di compe-tere alla pari con le parti più avan-zate d’Europa senza il contributoeconomico, tecnologico e umano

del Sud, che è stato rilevante. Sem-mai c’è da chiedersi perchè sia an-dato principalmente a vantaggiodel Nord. Qui la responsabilità del-la classe dirigente del Sud mi pareemergere con chiarezza».

Ma si può dire che infine “sisono fatti gli italiani“?

«Ma certo. Lei pensa il contrariosolo perchè sente parlare di Pada-nia? La presenza di pulsioni auto-nomiste è comprensibile ed è unacostante in tutta Europa, ma que-sto non significa che nel vostro Pa-ese non ci sia un carattere naziona-le e una cultura nazionale, ancor-chè incompiuti. Non stato un pro-cesso perfetto? E’ la storia, chenon è perfetta e va accettata perquella che è. E semmai bisognatrarne delle elezioni per il futu-ro..».

E noi l’abbiamo fatto?«Disordinatamente, parzialmente.Ma se posso avanzare un modestosuggerimento da un novantenneinnamorato dell’Italia, cercate dinon essere prigionieri di rivendica-zioni localistiche nè di vittimismie abbiate la saggezza di percepirel’immagine globale. Se guardate al-la situazione disastrosa nella qualeversava l’Italia ancora alla fine del-la seconda guerra mondiale nonpotrete che riconoscere che sì, ipassi in avanti sono stati notevolipur se tra mille problemi come ilpersistente divario tra Nord e Sud,la ricorrente tendenza al populi-smo, le infiltrazioni della crimina-lità organizzata. L’Italia non è an-cora una nazione in pace con sestessa, ma vi siete rialzati».

Chiè

ora è il localismo»

CLASSE 1920, londinese,Denis Mack Smith è unodei maggiori storici europei.Si è occupato, con taglio dialta divulgazione, di storiaitaliana tra Otto eNovecento. Moltissime lesue opere: dalle biografie diGaribaldi e Mazzini,all’analisi del fascismo, allastoria di Casa Savoia.

CULTURA E SOCIETA’

«L’incontro tra VittorioEmanuele II e Garibaldi a Teano il26 ottobre 1860», di SebastianoDe Albertis. Sotto, «VittorioEmanuele e Cavour durante ilplebiscito della Toscana»

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36 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

di ANGELOVARNI

FULARIVOLUZIONE francese a dif-fondere in Europa l’aspirazione deipopoli a costituirsi in libere comuni-tà nazionali. Nel momento, cioè, incui i sudditi delle precedenti monar-chie assolute si trasformavano in cit-tadini uguali di fronte alla legge e re-clamavano il diritto-dovere di parte-cipare, attraverso i propri rappresen-tanti eletti, alle decisioni di gover-no, ecco che dovevano riconoscersiin collettività omogenee, tenute in-sieme da vincoli che ne giustificasse-ro un identico destino.Nacque allora il concetto di patria,con tutta la sua tensione etico-politi-ca, la sua capacità di porsi in cimaalla scala dei valori cui finiva per es-sere lecito sacrificare anche la pro-pria vita. Con una sfumatura purereligiosa, in grado di sostituirsi conugual forza alla concezione, fino adallora accettata, di un potere eserci-tato per diritto divino. Da qui l’uso

della parola martire al di fuori deltradizionale contesto cristiano, perqualificare chi si sacrificava, appun-to, per la patria, avvolta, così, in sor-ta di aura di sacralità.Le conquiste napoleoniche di tantaparte della nostra penisola, tra fine‘700 e primo decennio dell’’800, im-mersero da subito l’Italia in questa

atmosfera culturale ed in questa pro-spettiva politica. Il progetto di co-struire uno Stato nazionale unitarioe indipendente dallo straniero uscìdalle aspirazioni intellettuali dei no-stri maggiori letterati (da Dante , aPetrarca, a Machiavelli) e divenneprogramma concreto di una batta-glia, dove l’anelito ad un comune ri-

Una sola Patria per Con la Rivoluzione francese nacque l’idea di nazione,

SU PALERMO splendeva il sole quel lunedì 4 marzo 1861, quandosalpò l’«Ercole», una nave a vapore sulla quale si trovava ancheIppolito Nievo, trentenne letterato padovano al seguito di Garibaldi, di

cui era stato il cronista più attento. La nave s’inabissò al largo di Napoli, suadestinazione finale. Il 17 marzo nasceva il Regno d’Italia, e sull’affondamentodell’“Ercole” calò il sipario. Le cause del disastro furono addebitate allo

scoppio di una caldaia.Cento anni dopo, Giulio Di Vita, uno studioso del Risorgimento, riaprì il

caso, sostenendo che gli inglesi avevano versato a Garibaldi tre milioni

DA SUDDITI A CITTADINIPER DECIDERE IL PROPRIO

FUTURO. UNO STATOUNITARIO A COSTO ANCHE

DELLA PROPRIA VITA

Carlo Albertoentra a Pavia(stampadell’epoca);«Maninproclama laRepubblica diVenezia,1848» - MuseoRisorgimento diVenezia

«Bersaglieri che conducono prigionieri austriaci», di Silvestro LegaGalleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze

Quando il mare inghiottì l’«Ercole» LOSQUILLO di Pino Casamassima

Camillo Benso, conte di Cavour( ritratto dell’epoca)

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37CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 1 DICEMBRE 2010

sorgimento delle popolazioni, divi-se in una molteplicità di Stati rettida principi assoluti, si nutriva deivalori di libertà e democrazia, ere-ditati dall’’89, e trasfusi in un’Eu-ropa avviata a grandi passi versonuovi livelli di progresso materia-le e civile.In questo senso l’idea di nazioneche animò il nostro cammino ver-so l’unità rimase estranea ad ogni

considerazione di uniformità dirazza, di sangue, di territorio, persi-no di lingua: di appartenenze, indefinitiva, sanzionate a priori dal-la natura, ritenute, invece, solo in-dizi dell’esistenza di una famiglianazionale. Questa occorreva vives-se, al contrario, nella coscienza diognuno, nella volontà di esserneparte, nella disponibilità ad assu-merne il carico di doveri necessarial compito supremo di contribuireal progresso collettivo dell’umani-tà in armonia con le altre nazioni,ugualmente assurte a indipenden-za e ad autonomo autogoverno.

ERAQUESTA, in particolare, la vo-ce di Mazzini a parlare agli Italianiincitandoli alla lotta e portando intal modo nel nostro paese le sugge-stioni del miglior romanticismoeuropeo, quello che coniugava sen-timento e libertà, grandi ideali e di-sponibilità al sacrificio per rag-giungerli, richiamo alle radici delpassato e aspirazione appassionataalla costruzione di un futuro riccodei valori dello spirito.

Ma non si trattava solo del messag-gio fatto giungere nel paesedall’esule genovese: l’intero grup-po dirigente che seppe realizzare,sotto la guida lucidissima di Ca-vour e in collaborazione con il vit-torioso azionismo garibaldino, il“miracolo” dell’unità, in nessunmomento si lasciò attrarre da unaconcezione della nazione che nonfosse sostanza di libertà per la so-cietà italiana. Senza mai indulgeread un’interpretazione egoistica del-la cittadinanza nazionale, dove il

pacifico combinarsi con gli altriStati nazionali europei escludesseprevaricazioni, superiorità razzia-li, illusioni di conquista.Quando, dunque, negli ultimi de-cenni del secolo, sotto l’impressio-ne della raggiunta unità dello Sta-to tedesco dovuta alla forza delle ar-mi prussiane, la speranza di nazio-ne si tramutò in nazionalismo so-praffattore, il richiamo all’ideale ri-sorgimentale si spense e si spezzòil legame inscindibile con il sognodi democrazia dei popoli. E furonoallora le guerre del ‘900, i soprusietnici, le conflittualità di un oggi,incapace di comprendere il mes-saggio più profondo di quell’eredi-tà lasciataci dall’ elaborazione civi-le e morale dell’’800. La presenteoccasione commemorativa deveaiutarci, di là da ogni retorica, a ri-prendere il filo di quel pensieroche ci vide non ultimi protagonistidella cultura e della politica euro-pee.

di ZEFFIROCIUFFOLETTI

per tante diversitànazione, poi il Risorgimento la consegnò agli Italiani

di franchi francesi («diversi milioni di euro attuali») per agevolare con lacorruzione la “conquista” del Sud in funzione antiborbonica. Si spiegavacosì la resa di Palermo – assolutamente inconcepibile sul piano militare –ottenuta non a colpi di moschetto, ma di piastre d’oro: quelle versate aFerdinando Lanza, il generale napoletano che fece ‘arrendere’ centomilauomini a poco più di mille. Ma si spiegava così anche il naufragio di unanave che trasportava i registri finanziari della spedizione garibaldina. Ilgiovane Nievo avrebbe potuto salvarsi se solo avesse dato retta aHennequin, console inglese a Palermo, che cercò di dissuadere quelgiovane e ingenuo «poet» dall’imbarcarsi sull’«Ercole».

LE CLASSI dirigenti che se-gnarono la nascita dello sta-to unitario provenivano ingenerale dal patriziato urba-no storicamente dominantenelle città dell’Italia centro-settentrionale. Durante ilquindicennio successivoall’Unità – ovvero nel perio-do di quella Destra storicache pose le basi dello Stato li-berale – il 43% dei ministriapparteneva infatti alla no-biltà, o borghesia terriera eproveniva dall’area centro-settentrionale della Peniso-la. Per quanto spesso dissi-mili per cultura e per forma-zione, gli uomini politiciche costruirono lo Stato uni-tario avevano da secoli fattodelle città l’epicentro del ri-spettivo potere politico e so-ciale, sebbene la fonte princi-pale della loro ricchezza deri-vasse prevalentemente dallaproprietà fondiaria e dallarendita che da questa ricava-vano. Tuttavia, più che verie propri percettori di rendi-ta, essi erano spesso veri epropri imprenditori agrico-li.

LA NOBILTÀ ITALIANA –per ragioni storiche, geogra-fiche ed economiche, ma an-che per via della frammenta-zione politica della Penisola– rappresentava un casoestremo di diversificazionenel quadro della aristocraziaeuropea. Del resto, il proces-so che condusse all’unifica-zione fu visto come un feno-meno eversivo da buona par-te della nobiltà romana e an-che da quella meridionale,con conseguenze non indif-ferenti sullo stesso processodi costruzione della nazione.Nonostante le diversità, pro-prio da questa nobiltà citta-dina, spesso colta e aperta al-le nuove correnti ideali e cul-turali europee, provenivanoin gran parte i ristretti nu-clei di patrizi subalpini, ligu-ri, lombardi, veneti e toscaniche alimentarono il liberali-smo – laico e cattolico –dell’era risorgimentale. Sipensi a Federico Confalonie-ri, una delle figure di primopiano del patriziato milane-se e al gruppo del Conciliato-re, oppure al gruppo toscanodi Capponi, Ricasoli e Ridol-fi, unito intorno all’«Antolo-gia» e all’«Accademia dei Ge-

orgofili». Un patriziato citta-dino che proprio perché ero-so nei suoi privilegi di cetodall’avanzare dello stato am-ministrativo e dell’accentra-mento burocratico, era parti-colarmente sensibile alleistanze ideali liberali e pa-triottiche che si manifestaro-no con forza nell’età del Ro-manticismo e della Restaura-zione. Questo patriziato cit-tadino, spesso liberale e libe-rista come nel caso dei lom-bardi e dei toscani, nutrì laferma convinzione che laquestione italiana e la que-stione costituzionale doves-sero andare di pari passo e,magari, trovare soluzionenell’istituzione di un’unio-ne confederale. Pur dotati disensibilità religiosa, i libera-li italiani miravano alla sepa-razione fra Stato e Chiesa oalla riforma di quest’ultima.Infine, essi avevano una co-stante attenzione alle temati-che relative al progresso tec-nico-economico e allo svilup-po dei canali navigabili e del-le ferrovie, ma mostravanoanche una certa sensibilitàsociale, troppo spesso consi-derata, in maniera sbrigati-va, di tipo paternalistico. Inverità, i più illuminati favori-rono l’istruzione del popoloe – quando fu possibile – svi-lupparono il mutuo soccor-so e l’associazionismo, non-ché le Casse di Risparmioper i ceti popolari.

Furono queste – in una real-tà prevalentemente agricolacome era la penisola nellaprima metà dell’’800 – le éli-tes destinate a svolgere unruolo attivo nel corso del Ri-sorgimento e, successiva-mente, nella costruzione del-lo Stato nazionale.

PERTUTTI LORO non pote-vano esserci Risorgimento eStato nazionale senza un pa-rallelo sviluppo dell’econo-mia e della società civile. Ca-vour, Ricasoli e Minghettifurono fra i maggiori arteficidella indipendenza naziona-le e della costruzione delloStato unitario. Furono, perforza di cose e per destino,ma anche per passione, cul-tura, senso di responsabilitàe coraggio, uomini di Statoche venivano, appunto, dal-la Terra e dall’esperienza im-prenditoriale.

IDENTIKIT DELLA PRIMA CLASSE DIRIGENTE

Quell’élite di patrizicon animo liberale

L’INDIPENDENZA DALLO STRANIERO:UN’IDEA DI DANTE E MACHIAVELLICHE MAZZINI, GARIBALDI E CAVOURTRASFORMARONO IN REALTA’

Sentimento e libertàUn’unica famiglia nazionalenonostante la non uniformitàdi razza, di sangue e di lingua

e i segreti dei Mille

Sensibili all’EuropaProprietari terrierie borghesi di originicentrosettentrionali

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38 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 8 DICEMBRE 2010

di ROBERTOBALZANI *

GARIBALDI, UNICOPADRE DELLA

PATRIA A VISITARETUTTO IL PAESE.PER UNIFICARLO

SONO POCHI, nel Risorgimen-to, i personaggi che hanno attra-versato davvero la penisola, dal-le Alpi alla Sicilia. Cavour nonfrequentava volentieri gli am-bienti a sud del Po, ai quali pre-feriva di gran lunga le villes lu-mières, Parigi e Londra. Mazzi-ni, poi, fu addirittura il leaderassente, l’uomo il cui profilo,per moltissimi patrioti, preseforma più nell’immaginazioneche nella realtà: se si escludonoil 1848-49 e il 1860, la sua pre-senza pubblica fu infatti presso-ché nulla, anche a causa della vi-ta da cospiratore braccato che loaccompagnò per quarant’anni.Andò meglio a Massimo d’Aze-glio, in alcuni momenti dellastagione riformatrice anteceden-te il ’48; e, forse, in circuiti piùregionali, a Farini e a Ricasoli.Ma si tratta di personaggi consi-derati dal grande pubblico alla

stregua di comprimari. L’uni-co, fra i “padri della patria”, adaver davvero visto il paese, tan-to sotto il profilo sociale, quan-to sotto quello paesaggistico, fuGiuseppe Garibaldi. Le sue pe-regrinazioni nel teatro bellicodel nord Italia, nel 1848-49 e nel1859; le campagne di Roma; laspedizione siciliana del 1860 equella finita in Aspromonte nel1862; la breve guerra in Trenti-no nel 1866; e, dopo il 1870, lesue presenze in luoghi e cittàdella “nuova Italia”, scortatodal suo “stato maggiore” ed ac-clamato da reduci, società opera-ie e deputati progressisti, rendo-no evidente la mobilitàdell’Eroe dei Due Mondi e lasua straordinaria capacità di ve-nire in contatto con i mille voltidel paese.

UN ININTERROTTO itinerariodi lapidi e monumenti, d’altron-de, conferma il rilievo attribui-to, già all’indomani dell’Unità,al contatto fra il Generale e lepiccole patrie: al punto da gene-rare, in alcuni casi, veri e proprirituali da “santo protettore” lai-

co, come a Cesenatico apartire dagli anni Ottan-ta dell’Ottocento. Manon è della “memoria dimarmo” che ci si vuolequi occupare. Il tema,piuttosto, è quello dei ri-flessi indotti dal passag-gio garibaldino sull’iden-tità dei territori, anche adistanza di tempo. Il casoforse più clamoroso è rap-presentato dalla cosiddet-ta “trafila” che consentì aGaribaldi di sfuggire aquattro eserciti nell’esta-

te del 1849, inseguito con isuoi uomini dopo la cadutadella Repubblica romana.La storia è nota. Uscito daRoma il 2 luglio con circa4.000 effettivi, il Generaleraggiungeva rocambolesca-mente San Marino il 31 lu-glio, con la moglie Anita in-cinta e malata. A quel pun-to, contando di poter guada-gnare la via per Venezia,egli affidava il destino suo edi circa 250 fedelissimi aduna rete di patrioti locali, difatto ignoti, i quali lo aiuta-rono a scendere in Roma-gna, ad evitare gl’imperiali,ad imbarcarsi a Cesenaticoe - dopo esser stato intercet-tato all’altezza delle Valli diComacchio -, a riprenderela fuga con l’inseparabileLeggero attraverso Ravenna,Forlì, Modigliana e, di lì, perCerbaia, Prato, Empoli fino aMassa Marittima e Cala Marti-na, nel Grossetano, da doves’imbarcò, ormai libero, il 2 set-tembre 1849. Nel frattempo,Anita era morta, Ugo Bassi e Ci-ceruacchio erano stati fucilati,la tragedia dei democratici in fu-ga si era compiuta: ma l’Eroeera stato salvato. Il capanno incui aveva trovato ricovero, allaperiferia di Ravenna, sarebbestato equiparato dai repubblica-ni locali, vent’anni dopo, alla ca-panna di Betlemme: un postodove si era fatta l’Unità d’Italia.Il capanno esiste ancora,dov’era e com’era: una società,da 130 anni, ne custodisce la me-moria e ne cura la manutenzio-ne.Ma Garibaldi era sceso pure at-traverso le Marche, da Pesaro al-

la valle del Tronto, durante latrionfale marcia d’avvicinamen-to a Roma, nel gennaio 1849.Egli andava nella Città eternaper la Costituente, e, al suo pas-sare, mobilitava i giovani e i re-duci della recente campagna nelVeneto, delusi e amareggiati dal-la conclusione ingloriosa del“loro” ’48. Diverso lo statod’animo con cui sarebbe giun-to, ferito, a Pisa, nel novembre1862, dopo i fatti di Aspromon-te. Il Garibaldi pisano, il cui ri-cordo è testimoniato sul Lun-garno dal monumento di EttoreFerrari, condensava in sé l’aspi-razione repressa a un moto po-polare per liberare Roma e, d’al-tro canto, il senso di una “guer-ra civile” strisciante fra modera-ti e democratici, che si sarebberisolta a vantaggio dei primi al-cuni anni dopo, a Mentana(1867). Gli itinerari garibaldini

Michelina, che per amore diventò brigantessaLOSQUILLO di Pino Casamassima

IL FENOMENO delbrigantaggio meridionale,esploso dopo l’unità d’Italia,

coinvolse anche diverse donne. Unadi esse fu Michelina Di Desare, lacui «pessima condotta» èdocumentata nei registri del comunedi Caspoli (Caserta) con unasegnalazione del maggio del 1868,cioè tre mesi prima della sua morte,

avvenuta il 30 agosto di quell’anno,quando la brigantessa aveva 26anni.La «malavita» di Michelina erainiziata fin dall’infanzia, quando lafame l’aveva spinta a compierediversi furti, finché a vent’anni – inquel 1861 che aveva salutato l’unitàd’Italia – era andata in sposa a uncafone del luogo: tal Rocco Tanga,

morto però dopo nemmeno un anno.Francesco Guerra era un ex soldatoborbonico, poi affiliato alla bandadi Rafaniello, di cui aveva assuntoil comando alla sua morte.Michelina lo conobbe casualmente,se ne innamorò, e ne condivise lacondizione di brigante.Grazie alla spiata per soldi diGiovanni, fratello di Michelina, la

banda fu sorpresa e sgominata:dopo l’uccisione del suo uomo, labrigantessa si battè strenuamentefino alla morte.Poi anche lei fu denudata, espostanella pubblica piazza, e fotografata:l’immagine del suo cadaverecontrasta con un’altra che la ritraebella e fiera nel suo costume “dellafesta”.

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39CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 8 DICEMBRE 2010

di COSIMOCECCUTI *

RITORNARE alle fonti:carteggi, biografie, diari,memorie. Può essere questa lavia da percorrere, pur con leopportune accortezze, perritrovare nella rivisitazione delRisorgimento, a 150 annidall’Unità d’Italia, unadimensione fedele ed umana,contro le deviazionidell’agiografia e della retoricadi antica memoria o leforzature di certe “moderevisionistiche” dei nostrigiorni, che rischianoegualmente di snaturare ilsignificato ed i valori di unastagione della storia italiana edeuropea che sta alle originidella nostra comunitànazionale.

Anche quellamemorialistica aveva spessointenti ben precisi. Popolaribiografie della seconda metàdell’Ottocento, come quelle diJessie White Mario,l’infermiera dei Mille, dedicatea Garibaldi come a Mazzini,erano dettate dal desiderio dicostruire o rafforzare il mitodegli “eroi”, cercando altresì dievidenziare il contributo dellecorrenti democratiche alprocesso di unità nazionale,soffocato nella storiografiaufficiale dall’egemonia

sabauda, esaltante oltre ognilimite il ruolo svolto dallaMonarchia.

Se rileggiamo le note dialcuni protagonisti, spessoappartati e discreti, si cogliel’efficacia e l’autenticità di unavicenda complessiva assai piùvicina a noi, fatta di grandezzee di miserie, di generosità e diegoismi, in una più correttacollocazione delle figure edegli eventi.

Penso alla recente,opportuna ristampa dellememorie di Giuseppe Bandi, IMille (editore Polistampa), unlivornese che seguedevotamente Garibaldi nellasua più clamorosa impresa.

Ebbene, un solo esempiodemitizzante: l’autore nonparla mai dell’incontro diTeano, “gonfiato” nei

resoconti ufficiali peropportunità politica e retoricanazionalistica. E’ vero cheBandi si ripromette di riferiresolo ciò a cui è statoconcretamente presente (nonsi trovava a Teano), ma nessunaccenno, nelle sue pagine,nessun richiamo all’episodioeretto a simbolo dellacollaborazione e dell’unitàd’intenti. La verità storica, cheaffiora da quelle memorie,ricorda piuttosto l’irritazionedel Re, “geloso” del clamorososuccesso di Garibaldi, ilfastidio delle truppepiemontesi per i volontarigaribaldini, il vivo desiderio di“toglierseli tutti di torno”, unavolta ricevuto nelle mani unregno.

Era stata negata la prorogadella dittatura a Garibaldi, chel’aveva chiesta, era stato feritol’orgoglio dei garibaldini cui fuimpedito di battersi insiemealle truppe regolari per ilcompletamento dell’impresa,

contro le ultime residueresistenze del Borbone.Sollevate dal compito che fratante reticenze si eranoassegnato – liberare ilMezzogiorno - le camicierosse, furono congedate dopol’ultimo atto loro consentito,quello di partecipare opiuttosto assistere alla presa diCapua. Garibaldi, del resto, sene va, poiché si rifiuta diassistere al bombardamentodella città deciso daipiemontesi del Generale dellaRocca: “In vita mia non homai tirato cannonate suicivili”; fu il suo sprezzantecommento nel malinconicosaluto ai volontari.

Al Re fu impedito dallaragion di Stato di recarsi alcampo dei garibaldini, nérivolse loro l’atteso ordine delgiorno. “Il nostro compito erafinito – si lamenta Bandi- manon ne veniva perconseguenza buona e legittimache ci si considerasse cosìdall’oggi al domani comelimoni oramai spremuti e nonbuoni che a gettarsi via”.Eppure è bene cercare ancoraoggi tra quei “limonispremuti” le radici autentichee solide della nostra identità dinazione.(*) Docente di Storia dei partiti edelle rappresentanze politiche,Università di Firenze

conservano, quindi, la testimo-nianza tanto del grande “pelle-grinaggio involontario”dell’Eroe dei Due Mondi,quanto delle fasi alterne delRisorgimento, di cui egli fuprotagonista: luoghi im-portanti non solo per ali-mentare il contributolocale al pantheonnazionale, maper capire, at-t r a v e r s oeventi nondi radodrammati-ci, le fasicomplesse econtrover-se, spesso se-gnate da una traccia rossa comeuna camicia e come il sangue,che hanno fatto della nostra pe-nisola una Nazione.(*) Docente di Storia contempora-nea all’Università di Bologna

Grandezze e miserieIl mito degli eroi nasce perper bilanciare i meriti impropriche Casa Savoia si attribuisce

LA DELUSIONE DEI GARIBALDINI DOPO L’UNITA’

Poi venne la stagionedei ‘limoni spremuti’

«Garibaldi davanti aCapua» di Girolamo

Induno (Museo delRisorgimento di Milano);

«Garibaldi nellabattaglia di

Calatafini» diRemy-Legat (Museo del

Risorgimento di Milano).Sotto: «Garibaldimentre trasporta

Anita morente» diPietro Bauvier (Museo

del Risorgimento di Brescia)

Lememorie di chi c’eraIl successo di Garibaldi nonpiace al re, che in tutta frettaliquida i suoi fedelissimi

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40 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 15 DICEMBRE 2010

di FRANCODELLA PERUTA*

Silvio Pellico, da Saluzzo all’ArgentinaLOSQUILLO di Pino Casamassima

FU CERTO nelle città che il desi-derio di indipendenza dallo stra-niero e il maturarsi della coscien-za nazionale, trovarono fertile ter-reno di espressione. Il tradiziona-le spirito municipale dei tanticampanili d’Italia si nutriva intal modo della speranza di ribadi-re i propri antichi obbiettivi diautogoverno, trasferendoli inuna dimensione capace di ade-guarsi ai nuovi valori propri diuno Stato moderno rispettosodell’uguaglianza, della libertà, dirapporti tra governanti e governa-ti fissati da norme discusse in as-semblee rappresentative.

Quasi un ritorno, quindi, a quel-le collettività comunali che ave-vano segnato la storia di tantaparte della penisola nei secoli pre-cedenti e che ora sembrava possi-bile a molti far rivivere, sia puresu ben altre basi ideali. Un sognoforse anacronistico, ma che co-munque contribuì a far scoccarein molte città la scintilla rivolu-zionaria del 1848, di quella “pri-mavera dei popoli” densa di spe-ranze in tutta Europa.

LA VICENDA di Milano e dellesue “cinque giornate” è per tantiversi emblematica di tali atteggia-menti, fatti di motivazioni con-tingenti ma alimentati da senti-menti affondanti nella storia.Già nel ’47, infatti, l’insofferenzadei milanesi verso le autorità au-striache si era rivelata in numero-si episodi, culminati in scontri dipiazza duramente repressi, doveceti sociali diversi e difformiquanto a obbiettivi politici trova-rono unità d’intenti nel rifiuto disoggiacere alla prepotenza dei sol-dati stranieri comandati dal gen.Radetzky.

Fu, quindi, evidente comeuna simile ostilità fosse di-ventata un fenomeno di

massa e come la risolutezza mani-festata da una parte della cittadi-nanza nell’opporre un’energicaresistenza all’aggressione polizie-sca incoraggiasse i più animosi(mazziniani soprattutto) a rad-doppiare gli sforzi in vista di unpossibile confronto armato.E questo esplose il 18 marzo, do-po le accoglienze entusiastichefatte ai successivi annunci dellerivolte di Palermo, Firenze, Tori-no, Roma e persino Vienna: la ri-chiesta dell’istituzione dellaGuardia Civica fu accompagnatadall’occupazione del palazzo delGoverno e dal levarsi delle barri-cate nelle strette vie cittadine.

RADETZKY, con i suoi 14 milauomini pensò di poter resisteremantenendo alcuni capisaldistrategici – come il Castello – nelcentro e distribuendo la maggiorparte dei reparti lungo i 12 chilo-metri del circolo delle mura spa-gnole sì da isolare la città. I tenta-tivi dei giorni seguenti di inol-trarsi verso l’interno furono, pe-rò, resi vani dall’accanita resisten-za armata dei milanesi schieratidietro circa 1600 barricate, co-struite con il materiale più vario:lastricato delle strade, casse di

ciottoli, carrozze, banchi di scuo-le e di chiese, tavoli, sedie, arma-di, letti, pagliericci, confessionalie così via. Tra il terzo e il quartogiorno di violenti combattimentivi fu la svolta: gli Austriaci furo-no costretti ad abbandonare lepostazioni del centro e la sera del22 decisero di ritirarsi, mentre imilanesi si riversarono nelle stra-de al grido di “fuori i lumi”, “vit-toria, vittoria”. Il trionfo dell’in-surrezione fu pagato dal sacrifi-cio di almeno 300 morti, a segui-to di una partecipazione coraledi uomini, donne, fanciulli, nobi-li, borghesi e soprattutto di umilipopolani, senza trascurare il con-tributo del clero ambrosiano e laconcomitante rivolta delle altreprovince della Lombardia. Sitrattò, dunque, di una indimenti-cabile testimonianza che le aspi-razioni dei milanesi alla libertà,all’indipendenza e al riconosci-mento dell’identità nazionaleavevano messo radici robuste,che neppure la successiva sconfit-ta della “guerra regia” avrebbepotuto indebolire. E lo stesso sipuò affermare per le altre cittàdella penisola che insorsero inquegli stessi mesi. Così, ad esem-pio, Brescia, liberatasi dallo stra-

LA CITTÀ italiana più grandedel mondo non si trova in Italiama in Argentina, ed è proprio Bue-

nos Aires, la capitale, per i tanti residentid’origine italiana che la popolano, un po’come tutto quel Paese sconfinato, dov’era-no sbarcati emigranti arrivati da ogni do-ve della penisola, compreso Saluzzo, unpaesino della provincia di Cuneo. Daqui, alla fine dell’800 partì una piccola

comunità senza arte né parte. Trovaronoaccoglienza nella provincia di Santa Fè,dove dettero vita a un villaggio che prestos’ingrandì fino a giustificare un nome perquel luogo. Lo chiamarono Silvio Pellico,in onore del loro concittadino più illustre.Pellico era stato arrestato a Milano il 13ottobre del 1820 insieme con Piero Maron-celli, come lui appartenente alla società car-bonara dei “Federati”. Rinchiusi nei fami-

gerati Piombi di Venezia, avevano subitoun processo in cui erano stati condannati amorte, ma nel febbraio successivo la senten-za era stata commutata in 15 anni di carce-re duro da scontarsi nella fortezza delloSpielberg, in Moravia. Qui Pellico avevascritto “Le mie prigioni”: «un’opera auto-biografica – avrebbe dichiarato in seguito ilprincipe di Metternich – che ha danneggia-to l’Austria più di una battaglia perduta».

«Cinquegiornate diMilano: attaccodi Porta Tosa»di Giulio Gorra(Museo delRisorgimento,Milano)

Letteraturae Risorgimento,di Marco AntonioBazzocchi;L’Ottocentodi Pinocchio,di Enrico Gatta

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41CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 15 DICEMBRE 2010

di ARRIGOPETACCO

Dall’alto: «LeCinque giornate diMilano» di Verazzi(Museo delRisorgimento diMilano); «Lacontessa diCastiglione»(Museo Francese diAjaccio); «Cristinadi Belgioioso» diHayez (collezioneprivata)

SE POTESSIMO effettuare un son-daggio nell’immaginario popolareper collocare anche una donna nelPantheon maschilista dei “Padri del-la Patria”, sicuramente balzerebbe alvertice della classifica la bella Virgi-nia Oldoini contessa di Castiglione.Libri, film, feuilleton e sceneggiatitelevisivi hanno infatti contribuito arendere la “divina contessa” la damapiù popolare del nostro Risorgimen-to. Questo perché perché, gabellan-do per patriottica la sua impresa se-duttrice nell’alcova imperiale di Na-poleone III, ne hanno fatto immerita-tamente una “madre” della Patria.In realtà, anche se è vero che la bellaVirginia, adempiendo la missioneche le aveva affidato Cavour di char-mer politiquement l’Empereur, coqueteravec lui, le seduir s’il le fallait, favorìl’alleanza franco-piemontese chesconfisse l’Austria nella secondaGuerra d’Indipendenza, è anche ve-ro che a spingerla nel letto dell’Impe-ratore non fu l’amor di Patria, ma la

vanità e l’interesse personale. A Vir-ginia infatti il Risorgimento non in-teressava. Anzi spesso lo irrideva co-me quando, mostrando agli amici lachemise de nuit, “di crespo verde, leg-gera come una nuvola” che aveva in-dossato per la bisogna, sosteneva im-pudentemente che era quella, e nonil tricolore, che avrebbe meritato di

sventolare sui pennoni.C’era invece un’altra donna, in-

giustamente dimenticata da-gli storici, che meriterebbe

un busto al Pincio come è

toccato a tutti i Padri della Patria.Era la principessa Cristina di Belgio-ioso, una milanese bella, ricca, intelli-gente e persino “colta più di un uo-mo”, come si mormorava con tonoscandalizzato. Cristina era ancheuna fervente patriota e una coraggio-sa riformista. Nel suo feudo di Loca-te realizzò la prima scuola materna,la prima società di mutuo soccorso eanche la prima scuola professionaleper i figli dei suoi contadini. Un’im-presa, quest’ultima, che irritò i buo-ni borghesi. “Se facciamo studiare icontadini” la rimbrottò severamenteAlessandro Manzoni, “chi zapperà lenostre terre?” .Perseguitata dalla polizia austriaca,Cristina si trasferì in seguito a Parigidove fondò “L’Italie”, un giornale bi-lingue cui collaborarono Balzac, deMusset, Hugo, La Favette e altri in-tellettuali francesi, ma non gli esuliitaliani, ai quali la principessa avevaaperto le sue pagine. Secondo Mazzi-ni, “scrivere su un giornale direttoda una donna sarebbe stata un’igno-minia”.Rientrata precipitosamente a Mila-no dopo le “Cinque giornate”, Cristi-na fu messa in disparte dai patriotiperché aveva osato criticare il gover-no provvisorio. In quei giorni infat-ti, mentre la guerra era ancora in cor-so, i nuovi governanti stavano già liti-gando per contendersi i ministeri.“Ma non sarebbe meglio” aveva os-servato, “invece che perdere tempocoi vostri litigi, mandare dei cappot-ti ai nostri ragazzi che stanno com-battendo sullo Stelvio in abiti prima-verili?”. Quell’“impicciona” era pro-prio insopportabile.

SOLO GARIBALDI riconosceva isuoi meriti. La definì “prima donnad’Italia” e la portò con sé a Roma do-ve Cristina partecipò alla lotta in dife-sa della Repubblica Romana fondan-do, prima ancora di Florence Ni-ghtingale cui si attribuisce il merito,il corpo delle infermiere volontariearruolando nobildonne e prostitute.Anche questa sua iniziativa destòscandalo. Il gesuita padre Brescianiinveì contro questa “femmina sfac-ciata e impudente” che con le sue “in-fermierine con le maniche rimbocca-te assai sopra il gomito e con risolinisdolcinati accompagna quei meschi-ni all’altro mondo bestemmiando elascivendo con l’Italia in bocca”.Povera Cristina. Sostenitrice dellaparità dei sessi pubblicò nella “Nuo-va Antologia” anche la prima inchie-sta sulla condizione femminile. Mapurtroppo trovò sordi i suoi lettori emorì sola e dimenticata. Gli uomininon le perdonavano l’intelligenza egli storici preferirono esaltare le pro-dezze della “divina contessa” perché

il suo comportamento era assaiconsono a ciò che i Padri del-

la Patria si attendevanoda una femmina.

1848, LE CITTÀINSORGONO:

SULLEBARRICATE

CONTROGLI OCCUPANTI

niero pressoché contemporanea-mente a Milano, che poi avrebbepagato duramente l’anno seguen-te, dopo la definitiva sconfittapiemontese, con i bombardamen-ti e i veri e propri massacri delle“dieci giornate”.

O BOLOGNA, capace anch’essa,l’8 agosto‘48, di respingere dallacittà l’arrogante presenza stranie-ra in una battaglia che vide il pre-valente impegno dei quartieriabitati dal popolo minuto,espressione di una città anco-ra immersa in un mondopre-industriale. Ed anco-ra Venezia con la sua in-domita resistenza di mol-ti mesi, soprattutto traprimavera ed estate ’49,a riprova non discutibi-le di un cammino risor-gimentale capito ed ac-compagnato da un’opi-nione pubblica ben piùlarga dei ristretti gruppiche ne guidarono gli svi-luppi nei decenni seguen-ti.(*) Presidente dell’IstitutoLombardo di Storia Con-temporanea

LA PRINCIPESSA BELGIOIOSO, «PRIMA DONNA D’ITALIA»

Cristina, la bella patriota‘colta più di un uomo’

Le grandi dame del RisorgimentoCoraggiosa riformista in prima lineaMa i ‘padri della Patria’ preferivanola seduttrice contessa di Castiglione

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36 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 22 DICEMBRE 2010

MOVIMENTI di idee tra Italiae Europa, uomini che fuggono,uomini che si nascondono, com-plotti progettati al buio e a volterealizzati, ma soprattutto grandipassioni, grandi ideali, giovaniche partono dal Nord per andareal Sud, giovani che seguono unfantasma e vanno a sacrificarsi:così appare il nostro Ottocento, aguardarlo dalla prospettiva diquel complesso insieme di idee e

di fatti che chiamiamo Risor-gimento, metafora in cui èimplicita una morte prece-dente, e un conseguente ri-torno alla vita. Anche perquesto possiamo dire chel’Italia, non avendo avutoun Romanticismo lette-rario simile a quello del-

la Germania e in generale delNord Europa, conosce il suo ve-ro romanticismo più come “azio-ne” che come vera produzioneletteraria.Il nostro romanticismo, cioè, pas-sa direttamente dalle pagine dei

grandi scrittori dell’inizio dell’ot-tocento agli eventi che poi si sgra-nano per tutto il secolo. Un ro-manticismo immaginato a tavoli-no e poi vissuto, a distanza di an-ni: un paradosso, una sfasaturache però può rivelarsi importan-te. Tanto per fare un esempio: lacomponente ideologica dei “Pro-messi sposi” di Manzoni, conl’immagine di un popolo di umi-li vessato dai potenti, può benissi-mo essere letta allegoricamente

come annuncio di un bisogno diliberazione (della Lombardia da-gli Austriaci, naturalmente, maanche dell’Italia in generale), an-che il coro dell’Adelchi (“Dagliatri muscosi, dai fori cadenti…”) va in questa direzione, lacanzone dedicata da Leopardi“All’Italia”, dove l’Italia è unadonna vessata e ridotta in catene,può essere spostata dal 1819, an-no della composizione, in epo-che più avanzate, dove realmente

c’è chi va a combattere per la na-zione (“l’arme qua l’arme, com-batterò sol io, sol ioprocomberò” urlava Leopardi).

E IN EFFETTI quanto Leopar-di dichiarava con finalità poeti-che, a distanza di qualche decen-nio i giovani patrioti andranno arealizzare di persona. Il poeta vo-leva morire come i combattentileggendari di Salamina per difen-dere la sua patria ingiuriata, i gio-vani come Carlo Pisacane an-dranno a morire per compiereun’impresa di per sé eroica e di-sperata. Non a caso Leopardi ri-cordava i “trecento” spartani gui-dati da Leonida, e questi “trecen-to”, giovani e forti, ritornano nel-la “Spigolatrice di Sapri”, il famo-so componimento di Luigi Mer-cantini per Carlo Pisacane, vistoperò dagli occhi di una giovanepopolana (la spigolatrice, appun-to) che se ne innamora e lo guar-da combattere e morire come unleggendario cavaliere biondo.I giovani intellettuali si muovo-no, così, dalle città in cui sono na-ti per andare a liberare quella par-te del Paese che è ancora soggio-gata. Seguono Garibaldi: il rossodella sua camicia è il colore dellalotta, della passione, del sacrifi-

di MARCO A.BAZZOCCHI*

«Promessi sposi»C’è un popolo di umili vessatodai potenti, evidente allegoriadi un bisogno di liberazione

LOSQUILLO di Pino Casamassima

Franceschiello,il Re Lasagna

GLI PIACEVA la pizza. E, da buon napole-tano, i maccheroni. Solo che lui non era unnapoletano qualsiasi, era un re: Francesco II

di Borbone. L’ultimo re di Napoli. Franceschiello pertutti. Lo chiamavano pure Re Lasagna, a significareuna personalità molle e incapace, a capo di un “eserci-tiello”: soldati molli e incapaci come lui. Esercito diFranceschiello divenne sinonimo di un gruppo di smi-dollati e indisciplinati dediti solo a gozzovigliare.Questa la vulgata appioppata al giovane monarcache, di fatto, non era né migliore né peggiore dei suoipredecessori (né dei suoi tanti successori saliti al “tro-no di Napoli”). Francesco, questo il suo vero nome, èl’ultimo dei Borboni a sedere sul trono delle Due Sici-lie. Aveva solo 23 anni quando ereditò da suo padre,Ferdinando III, una situazione politicamente ed eco-nomicamente disastrosa, nella quale davano il peggiodi sé una serie di personaggi disonesti. Di fatto,nell’unico anno del suo regno, la sua “colpa grave” fuquella di lasciarsi distrarre dai (tanti) problemi deisuoi sudditi. “Preferisco le mie sventure ai trionfi deimiei avversari”: una dichiarazione che gli valse l’epi-teto di “imbecille” da parte di suo suocero, che l’ave-va redarguito per aver distribuito alla popolazione aprezzi stracciati un notevole quantitativo di grano,causando un ulteriore danno economico alle già disse-state finanze reali, sulle quali, come non bastasse, gra-vavano le spese della regina, Maria Sofia: ma nonper gioielli e profumi e pellicce, ma per interventi so-stanziosi a favore della popolazione. Insomma, dueserpi nel nido reale! La loro breve storia da regnanti siconcluse a Gaeta, dove calò il sipario dei Borboni.Era il 13 febbraio del 1861: un mese dopo nasceva ilRegno d’Italia.

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37CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 22 DICEMBRE 2010

cio. Mazzini lo spiega con fermez-za da profeta, ricordando i fratel-li Bandiera : “Il martirio non èsterile mai. Il martirio per unaIdea è la più alta formola che l’ioumano possa raggiungere adesprimere la propria missione”.

TRA I TANTI possibili, il desti-no più anomalo, a metà tra lette-ratura e leggenda, è quello delgiovane padovano Ippolito Nie-vo, che a ventisette anni compo-

ne un romanzo, le “Confessionidi un italiano”, il cui protagoni-sta, Carlo Altoviti, inizia la rievo-cazione di una lunga vita dichia-randosi già italiano (e siamo nel1858). Anche Nievo è un giovaneche va a morire per la patria, mala sua morte è misteriosa e nonavviene sul campo ma in mare,durante una tempesta che som-merge il battello con cui sta tor-nando sul continente. Dopo avercombattuto, è Nievo che deve

giustificare la gestione economi-ca dell’impresa. È lui che, tren-tenne ma già grande scrittore, re-dige un perfetto Resoconto am-ministrativo della spedizione inSicilia e, in parallelo, un Giorna-le della spedizione. Ma i docu-menti più interessanti, e ancoraoggi commoventi, sono le lettereche Ippolito scrive alla madre ealla fidanzata, dove possiamo se-guire, di giorno in giorno, le fasidella spedizione, vissute da unaprospettiva intima, senza retori-ca, ma piena di entusiasmo e dipassioni vere. Nievo tocca conmano le contraddizioni delleguerre in Sicilia, la mescolanzatra veri combattenti e brigantiche intralciano le azioni, le ambi-guità di una lotta condotta soloin nome di alti ideali. Arrivato aPalermo, confessa alla madre cheè un vero miracolo se lui e gli al-tri ce l’hanno fatta, resta incanta-to dalla Sicilia e la paragona alFriuli dove è cresciuto, e poi scri-ve una delle frasi più belle diquest’epoca: “Ciao, ciao, Mam-ma mia! Baciamoci mille voltetraverso il mare, facciamo cosìtra noi due l’unità d’Italia”..(*) Docente di Letteratura Italianacontemporanea, Università di Bolo-gna

«Ritratto diManzoni», diMolteni eD’Azeglio(Pinacoteca di Brera,Milano); sotto: «Lamorte di CarloPisacane», diSciuti (Museo Civico,Catania); Pinocchioin una stampadell’Ottocento. Inbasso a destra,Carlo Lorenzinidetto il Collodi

di ENRICOGATTA

ANCHE Pinocchio, il vecchio ecaro burattino di legno, è un eroedel Risorgimento. Non perché si siaunito ai rivoltosi del ‘48 e del ‘59 oabbia fatto l’Italia, ma perché hacontribuito a fare gli italiani, dandoloro i primi basilari princìpi di unaeducazione nazionale.Carlo Lorenzini detto il Collodicreò «Pinocchio» pubblicandolo apuntate sul «Giornale dei bambini»tra il 1881 e il 1883, in piena epocapost-risorgimentale. Lui sì era unpatriota. Era un mazziniano di fedeforse non proprio adamantina, maviva. Degli italiani non avevagrande stima: li consideravadisonesti e ignoranti essendo felici

di esserlo. «Noi siamo contenti -scriveva in un articolo il Lorenzinipolemista - dei nostri diciassettemilioni di analfabeti - e li citiamotutti i giorni come se fossero

diciassette milioni dienciclopedisti, e tutti i giorni

ci fanno ridere, come sefossero diciassette

milioni diStenterelli». Eccolodunque il modellobase dell’adolescentein miseria nell’Italiapost-unitaria:neanche unoStenterello o un

Pulcinella, o unArlecchino come le mascheredel teatro di Mangiafuoco,ma un burattino allo stato

ancora più grezzo. Unbugiardo, un traditore, unladro, un perdigiornocolpevole di non volermigliorare. E dunquedestinato a restare una

ragazzo di strada, «un tipo dicanaglia, uno scolare chebazzica unicamente la R.Scuola della Corte d’Assise».

CON MAGGIOR garbo, lostesso concetto è espressoanche nel romanzo. «Guai aquei ragazzi - ammonisceil Grillo parlante - che siribellano ai loro genitori

e che abbandonanocapricciosamente la

casa paterna! Non avranno maibene in questo mondo; e prima opoi dovranno pentirseneamaramente». Rincara la dose laFata, quando Pinocchio, pur trabuoni propositi, obietta che oramaiper andare a scuola gli «pare un po’tardi» e che lavorare gli «par fatica»:«Ragazzo mio», replica la Fata,«quelli che dicono così, finisconoquasi sempre o in carcere o allospedale. L’uomo, per sua regola,nasca ricco o povero, è obbligato inquesto mondo a far qualcosa, aoccuparsi, a lavorare. Guai alasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio èuna bruttissima malattia, e bisognaguarirla subito, fin da ragazzi: se no,quando siamo grandi, non siguarisce più».

PER FORTUNA Pinocchio, purfra tanti difetti, è un modello dibontà: piange lacrime amare dipentimento quando crede che laFata dai capelli turchini sia morta efa di tutto per salvare il vecchiobabbo Geppetto. «E dai ragazzibuoni di core, anche se sono un po’monelli e avvezzati male, c’è sempreda sperare qualcosa: ossia, c’èsempre da sperare che rientrinosulla vera strada».Il messaggio per gli adolescentidell’Italia umbertina è chiaro: senon vogliono trasformarsi in«bellissimi somari», devono«avvezzarsi a essere ragazzini perbene»: essere ubbidienti, andarevolentieri a scuola, prendere amoreallo studio e al lavoro, dire semprela verità...

CON LA MATURAZIONEconosceranno anche l’amor dipatria, come accade a Giannettino,che è il protagonista delle successiveopere del Collodi ed è, appunto, ilburattino rigenerato e diventato«ragazzino per bene». Grazie alleproiezioni di uno strumento ottico,la lanterna magica, Giannettinoconosce tutti gli eroi delRisorgimento, da Garibaldi a reVittorio Emanuele. Compresi queigiovanifiorentini che«ai primirumori diguerra del1848,fuggirono,quasi disoppiatto dalleloro case, pernon esseretrattenuti e percorrere acombatterecontro itedeschi aMontanara eCurtatone».Proprio come ilCollodi.

I giovani intellettualiSeguono Garibaldi: il rossodella sua camicia è il coloredella lotta e della passione

Carlo Lorenzini detto il CollodiDei suoi concittadini non avevastima: li considerava disonestie ignoranti. E felici di esserlo

LE NUOVE GENERAZIONI MUOVONOVERSO L’ITALIA DA LIBERARE,A INDICARE LA STRADA SONO

LE OPERE DI MANZONI E DI LEOPARDI.È LA STAGIONE DEL ROMANTICISMO

FATTO DI AZIONE E NON SOLO DI LIBRI

Dalle campagneall’industria,diMaria Luisa Betri;Pellegrino Artusi,la cucina dell’Unità,di Piero Meldini

UN PARTICOLARE EROE DEL NOSTRO RISCATTO NAZIONALE

Pinocchio, il burattinoche ha fatto gli italiani

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32 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 29 DICEMBRE 2010

PAESE prevalentemente agricolo almomento dell’unificazione, in cui i trequarti della popolazione vivevano di at-tività connesse al lavoro della terra,l’Italia acquisì, come è noto, una fisio-nomia compiutamente industriale sol-tanto nel secondo dopoguerra, e in par-ticolare nella fase di grande accelerazio-ne cosiddetta del ‘miracolo economi-co’, tra il 1958 e il 1963. Mentre il com-parto agricolo abdicava per la primavolta al suo primato occupazionale avantaggio del settore secondario e diun terziario in via d’espansione, anda-va scomparendo, dopo un declino con-sumatosi con i ritmi quasi secolari diun ‘lungo addio’, la società rurale, ovve-ro uno dei caratteri costitutivi della re-altà italiana.Anche in quella congiuntura di cam-biamento epocale, tuttavia, in cui si af-fermava pienamente il sistema produt-tivo industriale, la persistenza della fi-gura ibrida dell’operaio-contadino, «le-gato alla terra fin dentro le fabbriche»,non di rado oscillante, per imposizio-ne o per scelta, «tra campo e opificio ecantiere edile e altro ancora», riflettevala prolungata complementarietà tra set-tore primario e settore secondario cheaveva indelebilmente segnato l’origina-le processo di sviluppo industriale ita-liano. E’ la vicenda innescata dal dif-fondersi nella fascia pedemontana edell’alta pianura asciutta dell’area lata-mente padana, dal Piemonte al Vene-to, dei «lavori industriali intrecciati aicampestri», di cattaneana memoria,che ebbero un terreno di coltura parti-colarmente fertile in Lombardia. Ovelo sviluppo del setificio, uno dei settoritrainanti dell’industrializzazione italia-na ottocentesca, fu emblematico di un

sistema manifatturiero evoluto in unrapporto osmotico con l’agricoltura, fa-vorito dalla disponibilità di materiaprima, di forza motrice idrica, e di unamanodopera eccedente, docile e a bas-so costo.

L’ARRETRATEZZA dei rapporti diproduzione nell’area collinare edell’«asciutta» e le condizioni naturaliivi assai meno favorevoli di quelle del-la pianura irrigua, avviata a un intensosviluppo capitalistico, indussero infat-ti la forza lavoro femminile e minoriledelle famiglie coloniche a procurarsiun reddito complementare nel lavoronelle filande, opifici che subentraronoalla trattura della seta, prima rudimen-talmente eseguita a domicilio dai con-tadini. «L’ombra del gelso è un’ombrad’oro», si diceva, a significare gli eleva-tissimi profitti garantiti dalla produzio-ne di seta greggia, grazie alla massicciaespansione della gelsibachicoltura chedalla metà del Settecento aveva trasfor-mato il paesaggio agrario e l’assettoeconomico di quelle plaghe. La remu-nerativa produzione e vendita delle se-te, fino alla Prima guerra mondiale lavoce primaria nel complesso delleesportazioni italiane, attirando pro-prietari terrieri, detentori di capitali, ecommercianti-banchieri, interessati asvolgere un’attività economica nonesclusivamente agricola, fecero da vola-no al decollo di un altro settore delcomparto tessile, destinato a grandesviluppo: quello cotoniero. Nella zonadell’alto Milanese, tra Gallarate, Busto

Arsizio e Legnano, grazie anche alle co-spicue risorse finanziarie e alle compe-tenze tecniche di un gruppo di impren-ditori di origine svizzera o tedesca, lafilatura del cotone cominciò a concen-trarsi in stabilimenti che impiegavanotalora un elevato numero di addetti, av-valendosi di moderni macchinari, e as-sunse ben presto i caratteri di un veroe proprio sistema di fabbrica.

LA PROBLEMATICA territoriale giàmessa a fuoco nelle dinamiche dellaprima industrializzazione in area lom-barda si è riproposta nelle fasi dello svi-luppo della piccola e media impresa,particolarmente intenso negli anni Set-tanta del Novecento, all’indomani delmiracolo economico, in Emilia-Roma-gna e nell’area tosco-umbro-marchigia-na, nucleo della cosiddetta «terza Ita-lia» costituita dalle regioni del Nord-Est-Centro. Le forme di lavoro autono-mo e di pluriattività, connesse alla pic-cola proprietà coltivatrice e al sistemadi appoderamento mezzadrile, di cuiera intessuto il retroterra rurale, han-no favorito la maturazione di capacitàe attitudini messe successivamente afrutto nell’imprenditorialità diffusa,spesso innestata nella tradizione arti-gianale e commerciale di una magliaurbana di medie e piccole dimensioni.Un’ulteriore riprova, dunque, di comeil legame tra agricoltura e industria siastato un dato strutturale dello sviluppoeconomico italiano.

* Docente di Storia Contemporaneae Storia del Risorgimento

Università di Milano

di MARIA LUISABETRI*

LOSQUILLO di Pino Casamassima

I pugnalatori di PalermoI cattolici e la Nazione,di Edoardo Bressan;Il mito della RepubblicaRomana,di Romano Ugolini

GUIDOGIACOSA è un avvocato la cui vi-ta cambia radicalmente il 25 maggio del1862, quando viene mandato in Sicilia co-me Sostituto Procuratore Generale del Represso la Corte d’Appello di Palermo. Gia-cosa è un integerrimo piemontese che si sen-te catapultato in un altro mondo, seppur an-ch’esso appartenente a quello stesso Regnonato un anno prima. Come riporta Leonar-do Sciascia nella sua impareggiabile rico-struzione della vicenda dei pugnalatori, il

Sostituto piemontese «diventa ben presto im-paziente e insofferente di fronte alla realtàsiciliana». E non sa ancora quel che loaspetta... La sera del 1˚ottobre, accade «unfatto criminale di orrida novità»: 13 perso-ne vengono accoltellate alla stessa ora in di-versi punti della città da altrettanti killertanto assomiglianti da parere un solo uomo.Catturato, uno di essi, Angelo d’Angelo, fasubito i nomi degli altri pugnalatori. Il mo-vente è seminare il terrore per far rimpiange-

re alla popolazione il vecchio ordine borbo-nico. Mandante, Romualdo Trigona, prin-cipe di Sant’Elia, la persona più potente diPalermo. Il processo si conclude con con-danne ai lavori forzati per quasi tutti i kil-ler, meno 3 che vengono giustiziati. Il nomeTrigona non verrà mai pronunciato e ilprincipe di Sant’Elia, fresco senatore delRegno, ne uscirà indenne. Ostacolato inogni iniziativa, Giacosa si dimetterà e torne-rà in Piemonte a fare l’avvocato.

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33CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 29 DICEMBRE 2010

di PIEROMELDINI

«BISOGNA riconoscere che Lascienza in cucina ha fatto perl’unificazione nazionale più diquanto non siano riusciti a farei Promessi sposi»: così scrivevaPiero Camporesi nella sualuminosa introduzioneall’edizione Einaudi delricettario artusiano (1970).L’affermazione potrà suonareleggermente enfatica, macorrisponde al vero. Per la suatravolgente e durevole fortuna(quattordici edizioni viventel’autore e un’autenticaalluvione di ristampepostume) e per la crescenteautorità, il manuale diPellegrino Artusi costituisceun vero e proprio spartiacque.Non c’è ricettario italianosuccessivo, fino agli anniQuaranta e oltre, che non siconfronti con «La scienza incucina e l’arte di mangiarbene». Molti lasaccheggeranno; da parecchialtri verrà parafrasata,compendiata, aggiornata,riveduta e corretta; pochissimila ignoreranno.

LE RICETTE artusiane,trasmesse oralmente di madrein figlia e di signora indomestica, e trascritte inmigliaia di quaderni, finirannoper fissare la formula canonicadi numerosi piatti della cucina

italiana, compresialquanti diderivazione locale epopolare.Nel manuale diArtusi i piattiregionali(soprattuttoromagnoli, emilianie toscani, ma ancheveneti, milanesi,genovesi, romani,napoletani esiciliani) sonotranquillamentemescolati fra loro econ piatti dellacucinainternazionale ed’altri Paesi, Franciain testa; i piattipoveri convivonocon quelli dellatradizionearistocratica; aipiatti d’autore, dalvecchio Panunto alrecente Vialardi, sisommano quelli

trasmessi da amici e lettori.Questo ricco ed eterogeneopatrimonio culinario è accoltonella Scienza in cucina senzaesitazioni e soggezioni di sorta— a volte, semmai, con unpizzico di diffidenza — erimaneggiato senza troppiscrupoli, «provando eriprovando». Il ricettarioartusiano, in effetti, nonriflette una cucinad’invenzione, ma una cucinaquasi integralmente ripresa, e aquesta Artusi resterà fedele diedizione in edizione.

LA RAGIONE del successodella «Scienza in cucina» nonsta dunque nell’originalitàdelle ricette, ma nelle tregrosse novità checaratterizzano l’opera: lapreliminare e perfetta messa apunto dei piatti incollaborazione con i duecuochi di casa, FrancescoRuffilli e Marietta Sabatini; iltaglio didattico, conl’illustrazione puntuale delleprocedure e la specificazionedelle dosi e dei tempi; infine, esoprattutto, l’adozione diun’amabile vena narrativa, diun tono colloquiale e di unalingua limpida.All’Italia del 1891, ancoragastronomicamente subalternaalla Francia, Artusi affida unaproposta che è il compendio ela riscrittura dell’intero scibileculinario e che è destinata, nelgiro di pochi anni, a costituireuna carta d’identità. La cucinache l’anziano commerciante epossidente propone allavariegata borghesia italiana èuna cucina ragionevolmentesemplice, pratica, sana eparsimoniosa. Modellata sulcodice culturale ed etico delceto sociale che più siidentifica con la giovanenazione e che ne costituisce ilmaggior collante, la cucina diArtusi diverrà rapidamente ilcanone gastronomicodell’Italia. Tant’è che largaparte della cucina casalinganovecentesca e di quellacosiddetta «tradizionale»discende direttamente oindirettamente dalla bibbiaartusiana, o ne è in vario gradomarchiata.

SFOGLIO, appena pubblicatoda Casa Artusi, Forlimpopoli,il repertorio bibliografico«Ricettari di casa» e trovoelencati i manuali di ben 15nonne, da nonna Adua anonna Peppina. «Cucina dellanonna»? Mah. Parlereipiuttosto di cucina del nonno.

FUL’INDUSTRIADELLASETA

ILVOLANODELLOSVILUPPO ITALIANO

«La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene»

E Artusi riunìl’Italia a tavola

«Il racconto delferito» di GerolamoInduno (da «1861 - Ipittori delRisorgimento», pergentile concessione diSkira Editore);«Maremma» diGiovanni Fattori(Galleria d’ArteModerna, Firenze);Pellegrino Artusi eun’edizione de «Lascienza in cucina el’arte di mangiarbene»)

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34 CULTURA ESOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 5 GENNAIO 2011

NELLA CULTURA del primo Ot-tocento, la religione cattolica con-tinua a costituire, come la linguae la letteratura, uno dei riferimen-ti più saldi della “nazione” italia-na, della quale da sempre, e nonsoltanto in una ristretta élite, erastata avvertita la profonda dimen-sione unitaria, al di là della con-tingente divisione in un sistemadi Stati regionali che si era stabi-lizzato dal XV secolo in avanti.L’esperienza napoleonica avevadato un assetto coerente in sensonazionale almeno a una parte del-la penisola, dalla Lombardia alleMarche, intorno a quella Repub-blica e poi Regno d’Italia in cuiper la prima volta il nome italia-no aveva assunto un connotatostatuale. La sistemazione euro-pea decisa al Congresso di Vien-na nega però libertà e indipen-denza all’Italia, un sogno ancoracoltivato con il proclama di Rimi-ni di Gioacchino Murat del 30marzo 1815 ma destinato a esseresconfitto, il 2 e 3 maggio dello

stesso anno, nella battaglia di To-lentino.Tale aperta negazione del princi-pio nazionale, ancorché sostenu-ta dalle armi austriache, non puòtuttavia reggere in un’Europache su di esso immagina ormai ilsuo avvenire, nel segno di unacultura romantica che vede stret-tamente legati sentimento pa-triottico e tradizione religiosa.Come in tutti i “Risorgimenti”europei, la Chiesa non è certo

ostile al movimento nazionale ita-liano: la successiva e per moltiversi dolorosa svolta del1848-1849 non può far dimentica-re quanto la cultura cattolica ab-bia contribuito a dare un signifi-cato al tempo stesso storico e poli-tico, e non più meramente lettera-rio, alla parola Risorgimento equanto, proprio negli anni Qua-ranta dell’Ottocento, la proposta“neoguelfa” di Gioberti, Balbo eRosmini, d’impronta federalista

di EDOARDOBRESSAN*

L’impronta neoguelfaDa Gioberti, Balbo e Rosminiproposte di stampo federalistatese a valorizzare il papato

LOSQUILLO di Pino Casamassima

La tragica Esperiadei fratelli Bandiera

SI CHIAMAVA Esperia la loro societàsegreta. Esperia, il nome col quale i greciindicavano l’Italia, approdo di Diomede, eroe

acheo che aveva combattuto la guerra di Troia. Ederoi vollero farsi anch’essi, i fratelli Bandiera. Figlidi un ammiraglio che li aveva avviati alla carrieramilitare, Attilio ed Emilio divennero ufficiali dellaMarina austriaca prima di disertare aderendo alleidee mazziniane. Attorno all’Esperia radunaronoferventi rivoluzionari, come loro convinti di poterguidare una sollevazione popolare che partisse dalSud.

L’OCCASIONE si presentò quando nel marzo del1844 scoppiò a Cosenza un moto popolare, destinatocomunque al fallimento. Partiti nel giugnosuccessivo da Corfù – dove col barese Vito Infanteavevano messo in piedi una sede dell’Esperia – ifratelli Bandiera puntarono decisamente sullaCalabria. Con essi c’erano 17 uomini, fra cui ilbrigante calabrese Giuseppe Meluso. Sbarcati neipressi di Crotone, proseguirono per la Sila, conl’intento di nascondersi per preparare una nuovasommossa a Cosenza. Ma fra loro c’era anche ilcorso Pietro Boccheciampe, che svelò il nascondiglioper intascare la taglia di Meluso. I rivoltosi furonocosì catturati – all’infuori proprio del Meluso che,conoscendo i luoghi, riuscì a far perdere le sue tracce– e fucilati. Le salme dei fratelli Bandierarientrarono a Venezia nel giugno del 1867, un annodopo la liberazione di Cosenza al termine della IIIguerra d’Indipendenza, sei anni dopo laproclamazione del Regno d’Italia.

«Il combattimento del 31 marzo 1849durante le dieci Giornate di Brescia», diFrancesco Joli (da ‘1861. I pittori delRisorgimento’, gentile concessione Skira editore); adestra: ritratto di Giuseppe Mazzini; inalto a sinistra caricatura raffigurante Ottovon Bismarck e Pio IX che giocano ascacchi (opera di Wilhelm Scholz)

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35CULTURA ESOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 5 GENNAIO 2011

e tesa a valorizzare il ruolo delpapato, abbia aperto la via a unapiù larga condivisione dell’idea-le di una nuova Italia. I primimesi del 1848, anno dei miraco-li e primavera dei popoli, sem-brano appunto salutare la realiz-zazione di queste aspirazioni,largamente condivise dall’opi-nione cattolica, fra la partecipa-zione pontificia alla prima guer-ra d’indipendenza, aperta non acaso dalle manifestazioni al gri-do di Viva Pio IX, e il ruolosvolto dai cattolici stessi nelleCinque Giornate di Milano.Ed è proprio il cattolicesimo mi-lanese a rappresentare uno de-gli esempi più significativi inquesta prospettiva, che maturagià nei primi anni della Restau-razione quando si comprendeche il dominio austriaco, con ilRegno Lombardo-Veneto, nonpuò con ogni evidenza dare spa-zio né alle aspirazioni dei popo-li ormai insopprimibili, tantoche a esse avevano fatto riferi-mento le ultime coalizioni anti-napoleoniche, né a una libertasEcclesiae soffocata dal rinnova-to giurisdizionalismo degliAsburgo. Gli organismi rappre-sentativi del Lombardo-Veneto

sono una finzione e non posso-no più garantire nemmeno leantiche prerogative municipalie territoriali, che soltanto un si-stema di libertà appare in gradodi assicurare.

ALL’INTERNO del cattolicesi-mo lombardo si fa strada unaprofonda insoddisfazione. Ales-sandro Manzoni, che già neiversi del Proclama di Rimini, la-sciati incompiuti dopo la scon-fitta di Murat a Tolentino, ave-

va evocato l’“itala fortuna”, è ilprimo a dar voce, con i versi diMarzo 1821, alla speranza del“varcato Ticino”, il disegnocioè di un esercito amico cheaiuti Milano nella liberazionedallo straniero: disegno irrealiz-zato in occasione dei moti del1821, sconfitto nel 1848 nono-stante la vittoriosa insurrezionepopolare, compiuto finalmentenel 1859. La guerra nazionaletrova la sua legittimazione nei

valori che fondano l’identità ita-liana, di una patria che non puònon essere “una d’arme, di lin-gua, d’altare, / di memorie, disangue e di cor”. L’insoddisfa-zione per le “catene d’oro” im-poste alla Chiesa dalla politicaecclesiastica austriaca, che osta-colano la stessa azione educati-va e caritativa degli istituti reli-giosi e dell’associazionismo lai-co, è fatta propria da AntonioRosmini, che a contatto conl’ambiente milanese matura lasua proposta politica, in una co-raggiosa scommessa sull’indi-pendenza italiana e su un futu-ro segnato dalle libertà costitu-zionali. Rosmini nel 1848 plau-de agli “eroici milanesi, veri fi-gli d’Italia” ed è protagonistadell’ultimo e sfortunato tentati-vo di un’unione dei principi del-la penisola. L’approdo coerentedi pensiero e di azione alla cau-sa nazionale non va tuttavia per-duto, poiché anche negli annisuccessivi, pur nelle dure con-trapposizioni legate alla “que-stione romana”, i cattolici pos-sono sì e fortemente eccepiresul modo in cui l’Unità viene re-alizzata ma non sulla sua legitti-mità e il suo valore.* Docente di Storia Contempora-nea, Università di Macerata

di ROMANOUGOLINI*

AVERE SEMPRE desta l’atten-zione su quanto avveniva, o po-teva avvenire, a Roma eraun’eredità antica, quasi bimille-naria. Alla vigilia dell’Ottocen-to vi aveva fatto riferimento ilmovimento giacobino e, in se-guito, varcato il secolo, il primoNapoleone, che aveva volutoRoma come seconda cittàdell’Impero ed il Papa ad inco-ronarlo a Parigi.Roma, con Mazzini quanto conGaribaldi, era al centro dei pro-grammi dei due esponenti piùrappresentativi del movimentodemocratico nazionale, che laprospettavano, l’uno — Mazzi-ni — come iniziatrice di una ter-za epoca storica, fondata questavolta sull’esplicitazione della vo-lontà popolare, e l’altro — Gari-baldi — come ammodernamen-to della Antica, in chiave nazio-nale, prima, e universale, poi.A Roma era nato nel 1846, pre-detto da Gioberti, il mito di unPapa liberale e nazionale, mitoche aveva sorpreso perfino Met-ternich, attento indagatore, peri suoi fini di conservazionedell’egemonia austriaca, dei sen-timenti profondi dei moderati edel popolo minuto; ma PapaMastai Ferretti, che ebbe il me-rito di risvegliare l’opinionepubblica moderata, per dirlaall’Azeglio, non seppe poi gestir-la, lasciandosi travolgeredall’enorme ondata di partecipa-zione politica che aveva suscita-to.

GIÀ LA FUGA di Pio IX a Gaetanel novembre del 1848 avrebbepotuto costituire da sola una no-tizia di grande effetto sul pianointernazionale, ma il vero pro-blema era, in una Roma resa va-cante di un potere governativo,se la direzione della città sareb-

be caduta nelle mani di unaminoranza democratica,

priva oltre tutto di salderadici nella Capitale, o

se la maggioranza mo-derata sarebbe rima-sta sul proscenio,non ritirandosi dauna ribalta allaquale era stata so-spinta da pochimesi. Il cammi-no verso la Re-pubblica roma-na del 9 febbraiofu esemplare al ri-guardo: esso fuampiamente con-

diviso da moderatie democratici, e la

stessa proclamazio-ne della Repubblica

conobbe poche defe-zioni, votata da una am-

plissima maggioranza, te-

sa a ricercare i motivi di coesio-ne, e non quelli di contrapposi-zione ideologica.La Repubblica romana durò invita meno di cinque mesi, e sa-rebbe del tutto miope interpre-tare il perpetuarsi del suo mito,circoscrivendone la spiegazioneunicamente allo svolgersi dellesue note vicende. Delegittimatada Pio IX, essa vide ben quattroeserciti muoverle contro; vide ilGoverno di Mazzini e gioì dellevittorie di Garibaldi contro fran-cesi e borbonici. Alla fine cad-de, cedendo alla sproporzionedelle forze, militari quanto eco-nomiche, in campo e alle miredi potere di un nuovo Bonapar-te repubblicano. Ma il significa-to più rilevante non va neppurericercato nella capacità della Re-pubblica di governarsi senza ilPontefice, il che comunque levalse una notorietà internazio-nale e le simpatie del mondo an-glicano e protestante. La vera so-stanza del suo valore sta tuttanella capacità che la Repubblicaromana ebbe di polarizzare sudi sé il nuovo spirito nazionale,moderato quanto democratico,nel chiamare tanta gioventù daogni parte d’Italia a lottare perun ideale — Roma fulcro dellaNazione — senza distinzioni dinascita e condizione sociale, nelvarare il 4 luglio 1849, una Co-stituzione che, pur non entratain vigore, avrà il significato diun articolato e moderno messag-gio verso il futuro.La Repubblica romana del 1849fu, di fatto, laboratorio della fu-tura Unità: Mazzini e Garibaldinon avevano condiviso la stessavalutazione politica e militare, èvero, ma avevano fatto di tuttoper non dare adito a divisioni; ilmoderato Armellini aveva rico-perto il suo ruolo di Governo ac-canto a Pisacane, e, vicino ad es-si, un conservatore cattolicoquale Vincenzo Pianciani pote-va dire che «i nostri» avevanovinto i francesi il 30 aprile.

DOPOLACADUTAdella Repub-blica romana, venne l’epoca del-le accuse, delle recriminazioni edei contrasti ideologici; Mazzi-ni e Garibaldi significativamen-te non vi parteciparono, cercan-do, al contrario, di sopirli, certiche i semi gettati a Roma avreb-bero fruttato in futuro. Ma fuCavour, come lucidamente com-prese Gramsci, a prendere l’ege-monia di quei moderati lasciatisenza guida, e non di meno deci-si a non ritirarsi nell’inazione, ea condurli a un nuovo decisivoabbraccio con i democratici.Non a caso il 14 luglio 1860, im-potente a dominare il rapidocorso delle vicende italiane, Na-poleone III confessava a Costan-tino Nigra che si rimproveravaun solo errore: l’intervento con-tro la Repubblica romana del1849.* Professore di Storia Contempora-nea; Preside della Facoltà di Scien-ze della Formazione, Università diPerugia

Vade retro AsburgoNel Lombardo-Veneto covanorabbie e delusioni: Manzonile trasforma in identità italiana

OLTRE A LINGUA E LETTERATURAE’ LA CHIESA A DETTARE LA SPERANZA

DI UNITA’. AL GRIDO DI «VIVA PIO IX»,I CATTOLICI, SOPRATTUTTO MILANESI,SI RIBELLANO ALL’AUSTRIA. E’ IL 1848,

INIZIA LA PRIMAVERA DEI POPOLI

Il contrastoStato-Chiesadi Edoardo Bressan;Il Risorgimentoe le 100 cittàdi Zeffiro Ciuffoletti

VIAGGIO NEL MITO, TRA GARIBALDI E MAZZINI

Repubblica romanaLa forza di un destino

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36 CULTURA ESOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 12 GENNAIO 2011

di EDOARDOBRESSAN*

IL BIENNIO cruciale del1848-1849 rivela clamorosamen-te l’impossibilità di una soluzio-ne “neoguelfa” del problema na-zionale italiano, aprendo la viaa quella cavouriana, indirizzataa una prospettiva unitaria, deci-sa a regolare i conti con lo Statopontificio e l’influenza dellaChiesa in Italia, consapevole del-la necessità di quell’appoggio in-ternazionale la cui mancanzaaveva determinato il fallimentodella prima guerra d’indipen-denza. Questo avrebbe permes-so di realizzare l’Unità in chia-

ve moderata, monarchica e ac-centrata, portando a compimen-to il processo risorgimentale nelperiodo compreso fra il 1859 e il1861 che nessuno poteva prono-sticare a tavolino e che è del re-sto legato a una molteplicità difattori interni e internazionali,abilmente utilizzati da Cavour.

CON LA NASCITA del Regnod’Italia nel 1861, la reazione deicattolici appare segnata dallaprotesta per la fine di un “regi-me di cristianità”. Ora inveceuna normativa d’impronta laicae separatista dal Regno di Sarde-gna si estende al resto della peni-sola, in modo particolare con leleggi di unificazione ammini-strativa del 1865 e quelle eversi-ve dell’asse ecclesiastico del1866-1867. A tutto questo, di

per sé destinato a modificare se-colari forme di presenza dellaChiesa nella società, si aggiungela “questione romana”, con l’an-nessione delle Legazioni nel1859 e delle Marche e dell’Um-bria nel 1860, fino all’epilogodel 20 settembre 1870 e della“legge delle Guarentigie”dell’anno seguente. Entrambigli aspetti portano, fra l’altro, aun ridimensionamento dellostesso progetto di Cavour: se lostatista piemontese aveva sem-pre pensato a una supremaziadello Stato nei confronti dellaChiesa, questa non avrebbe do-vuto configurarsi in forme osti-li, lasciando spazio a una visio-ne del mondo in cui il cristiane-simo avesse una parte significa-tiva. Ma con Roma capitale – egià proclamata tale nel 1861 – il

conflitto con la Chiesa non puòche inasprirsi, con la ferma pro-testa del papa “prigioniero inVaticano” e soprattutto il nonexpedit, che impone un astensio-nismo politico destinato a dura-re a lungo e segna la fine delleultime speranze dei conciliatori-sti d’ispirazione rosminiana ecattolico-liberale. Lo stesso sipuò dire per il problema delle li-bertà locali, ostacolato e in partecompromesso da una situazionedi grave difficoltà. I progetti re-gionalistici e di decentramentoamministrativo vengono accan-tonati in favore di una soluzio-ne improntata al centralismo.

IN UN QUADRO del genere adaffermarsi, nel mondo cattolico,è l’anima intransigente, da cuinasce un associazionismo ini-

zialmente lontano dalla politi-ca: dopo vari tentativi, nel 1867viene fondata a Bologna la So-cietà della gioventù cattolica ita-liana che, con i congressi di Ve-nezia e di Firenze del1874-1875, promuove la costitu-zione dell’Opera dei Congressi,una vasta realtà fedele al papa esoprattutto artefice di una capil-lare attività educativa, culturalee sociale. I cattolici, pur nelladura polemica con lo Stato libe-rale, compiono in tal modo unpercorso che ha quale esito l’in-serimento nella vita delle istitu-zioni: si precisa infatti che ilnon expedit non preclude il votoamministrativo, aprendo così lastrada per entrare nelle rappre-sentanze e spesso nei governi lo-cali – dei Comuni e delle Provin-ce – il cui ruolo appare subito di

E i garibaldini vendicarono PisacaneLOSQUILLO di Pino Casamassima

L’8 DICEMBRE 1856, Re Ferdinando di

Borbone scampò miracolosamente a un at-tentato. L’anno prima era fallito l’assalto al

carcere dell’isola di Santo Stefano. Il mazzinianoCarlo Pisacane, sostenitore di una rivoluzione chepartisse dal Sud, dopo un primo tentativo fallito, il 25giugno 1857 riuscì a radunare 20 uomini coi quali sal-pò da Genova col piroscafo Cagliari. Il piano prevede-va che durante la navigazione una goletta li avrebbe

riforniti di armi, ma il piano fallì a causa delle avver-se condizioni del mare. Approdati a Ponza, Pisacanee i suoi riuscirono comunque a liberare 323 detenuti, el’indomani, il 28 giugno, la truppa rinfoltita sbarcò aSapri, dove però, contrariamente agli accordi, ad acco-glierli non c’era nessuno dei repubblicani napoletani.Fiducioso nella sollevazione popolare di Napoli, Pisa-cane proseguì, ma a Padula i Borboni ebbero la me-glio, costringendolo a ripiegare su Sanza, dove, il 2

luglio, il dramma si concluse. Convinti dai Borboniche si trattasse di pericolosi evasi i contadini si uniro-no ai soldati in un massacro alla fine del quale i cada-veri furono gettati in una fossa comune. Tre anni do-po, passando da lì i Mille, un gruppo di garibaldinicalabresi giustiziò quanti avevano preso parte a quellamattanza: per primo, Savino Leviglia, la guardia ur-bana che s’era vantata d’esser stato lui a uccidere ilcapo di quei ribelli: Carlo Pisacane.

«I bersaglieri allapresa di Porta Pia»di MicheleCammarano(Museo di Capodimonte,Napoli - da «1861 I pittoridel Risorgimento», pergentile concessionedi Skira editore)

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37CULTURA ESOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 12 GENNAIO 2011

Ritrattofotografico di PioIX (collezionePalazzoli, Firenze);sopra: «La nottedel 31 marzo1849» diFaustino Joli(Musei Civici diBrescia; da «1861 Ipittori delRisorgimento», pergentile concessionedi Skira editore)

di ZEFFIROCIUFFOLETTI*

grande importanza anche comegaranzia per l’impegno del “mo-vimento cattolico” nel campodella scuola, dell’assistenza, delcredito popolare, della coopera-zione e del mutuo soccorso, cheavrebbero trovato l’approvazio-ne e il riconoscimento dell’enci-clica Rerum novarum di LeoneXIII nel 1891. Non è allora uncaso che i cattolici in molte cittàchiamino il loro giornale ‘Il Cit-tadino’, con un forte valoresimbolico: la riscoperta diuna cittadinanza condivi-sa porta al superamentodelle lacerazioni prece-denti, nell’apparte-nenza – mai venutameno – alla patriaitaliana.

*Docente di StoriaContemporanea,

Universitàdi Macerata

C’ÈUNPASSOdella Canzone italia-na, poi ribattezzata, Inno di Garibal-di, scritto nel 1859 da Luigi Mer-cantini, il più popolare poeta del Ri-

sorgimento, che rac-chiude un aspetto fon-dante dell’identità ita-liana: “Le genti d’Ita-lia son tutte una sola/son tutte una sola lecento città”. Le città,le “cento città italia-ne”, con Roma in te-sta, rappresentava-no molto bene la di-mensione popolaree urbana, ma anchepolicentrica, dellagiovane nazioneche stava per affer-marsi sulla scenaeuropea. Si puòdire, anche, chele origini del Ri-sorgimento si le-gavano intima-mente alla ri-scoperta delle

“piccole patrie”che avevano caratterizzato la storiaantica e medievale di una “nazio-ne”, ricca di storia e cultura, ma di-visa e sottomessa, perché incapacedi federare le sue grandi e piccolecittà-stato. Queste idee, complici lanuova sensibilità portata dal Ro-manticismo, stavano lievitando giàsul finire dell’età napoleonica e poinell’epoca della Restaurazione. Sipensi al grande successo di un’ope-ra come la Storia delle Repubbliche

italiane nel medioevo dello svizze-ro Sismondi de Sismondi.

L’edizione parigina, uscitafra il 1809 e il 1819, e più an-

cora la successiva traduzio-ne italiana, fecero diquest’opera una tra lepiù importanti e lette dal-

la gioventù colta della pe-nisola. Benché subitocensurata dell’Austria emessa all’Indice dellaChiesa, l’opera di Si-smondì esaltava la for-za e la civiltà delle

“patrie cittadine italiane”, contrap-poste all’Impero e al Papato. Da quipresero corpo i miti di Legnano edella Lega delle Città in lotta per di-fendere la loro autonomia dall’Im-pero. La Lega delle Città che si era-no battute a Legnano era l’antefattodi una nazione che aveva, tuttavia,perso l’occasione di trasformareun’alleanza vittoriosa in una federa-zione.

SIA IL FEDERALISMO cattolico li-berale, sia il federalismo democrati-co di Cattaneo si ispirarono a que-sta storia, trasformata in un mito,che diventò la forza attiva del Risor-gimento. Per la cultura cattolica lacomunità politica naturale era pro-prio il municipio, la piccola patria,in cui i legami impersonali e l’inte-resse per il bene comune si concre-tizzavano nell’esperienza direttadei cittadini. Carlo Cattaneo identi-ficò nelle città, nei liberi municipi,il “principio ideale delle istorie ita-liane”. “Le nostre città – scrisse – so-no il centro antico di tutte le comu-nicazioni di una larga e popolosaprovincia, vi fanno capo tutte le stra-de, tutti i mercati del contado, sonoil cuore nel sistema delle vene, sonotermini cui si dirigono i consumi, eda cui si diramano le industrie e icapitali, sono un punto di interse-zione o piuttosto un centro di gravi-tà”. Purtroppo questa storia era vali-da in prevalenza per l’Italia centro-settentrionale.

DIVERSAERALASTORIA dell’Ita-lia meridionale, dove avevano pre-valso realtà statuali dominanti sulle“povere città provinciali”, e dove lecittà erano grandi capitali come Na-poli e Palermo dal tessuto socialefragile, fatto di schiere di burocrati,“paglietti” e masse popolari miseree analfabete. Insomma le città italia-ne del centro-nord erano un ricetta-colo vivo di ricchezza e di arte, ditradizioni civili e religiose semprevicine al popolo. Gli abitanti di que-ste città si sentivano almeno un po’cittadini proprio perché eredi di an-tiche e ben radicate istituzioni e tra-dizioni civiche, per quanto svuotatedi significato a causa dalla formazio-ne di Stati accentrati e da domina-zioni esterne. Il Risorgimento italia-no, proprio per questo, prese le mos-se da quelle élites colte cittadineche si riunivano nei salotti , nei cir-coli, nei teatri , nei caffè, nelle uni-versità e nei gabinetti di lettura. Ilproblema di fondo dopo il fallimen-to delle rivoluzioni del ’48 e delleipotesi federaliste, rimase quello diconciliare il policentrismo con ilcentralismo, il localismo con l’uni-tarismo, il Nord con il Sud. Ancoraoggi, a centocinquant’anni dalla na-scita dello Stato Unitario, questi so-no i nostri problemi e di essi si occu-pa l’agenda politica alla ricerca diuna difficile, ma non impossibile,soluzione.

*Docente di StoriaContemporanea,

Università di Firenze

L’OSTILITA’DELLACHIESAACCOGLIE ILNUOVOREGNO,MADOPOL’ASTENSIONISMOPOLITICOANCHE ICATTOLICI

DIVENTANOCITTADINI

LE CENTO CITTA’ FORGIARONO L’IDENTITA’ ITALIANA

Nasce una Nazionefatta di piccole patrie

Dipingere l’Italia,diAndrea Emiliani;I monumentidel Risorgimento,di FrancescoGhidetti

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36 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 19 GENNAIO 2011

di ANDREAEMILIANI

DOPO che nel gennaio del 1821 erano stati trovativolantini “sovversivi”, e ossessionato dai fermentirivoluzionari, il duca di Modena Francesco IV

emanò un decreto che sanciva la decapitazione per chiun-que avesse fatto parte di una società segreta. Nel marzodell’anno successivo, un’autorità prefettizia fu accoltellatada uno studente, provocando due reazioni. La prima, ri-guardava gli studenti: da quel momento in poi avrebberodovuto alloggiare in collegi facilmente controllabili, oltre a

non potersi iscrivere a Giurisprudenza, ritenuta “partico-larmente pericolosa”. La seconda, fu la caccia ai cospirato-ri, che provocò una cinquantina di arresti, fra cui quello diun prete, don Giuseppe Andreoli, condannato a morte conaltre sei persone. L’esecuzione fu fissata per le ore 12dell’11 settembre 1822 e a nulla servirono le suppliche delVescovo. Prima di avviarsi al patibolo, don Andreoli rega-lò ai detenuti le sue cose, fra cui una tabacchiera. Il maca-bro corteo s’era però mosso con largo anticipo, tanto che il

povero prete aspettò la sua ora pregando sotto una pioggiabattente.Appena la sua testa rotolò nella cesta, il sole s’affacciò dal-le nuvole: un segno che il popolo interpretò come divino.Sulla lapide a sua memoria posta a Correggio, dove il sa-cerdote era stato arrestato, si legge: «Così fu ucciso il sacer-dote Andreoli per aver con puro e generoso animo aspiratoa cacciar via le tenebre della servitù dalla sua nobile pa-tria».

LO SQUILLO di Pino Casamassima

I PITTORI riuniti al Caffè Michelangelodi Firenze, dopo qualche anno di discus-sioni e di lavoro, si videro accusati di es-sere dei ‘macchiaioli’. In realtà, la paro-la ‘macchia’ usata dalla critica in sensospregiativo, era stata ripresa dal linguag-gio del mestiere: fare ‘macchia’ volevadire ridurre il disegno e lavorare di colo-re accostato secondo accordi tonali. Erauna tecnica antica. Per intenderci, loscrittore e pittore Jacopo AlessandroCalvi aveva ritenuto di usare, ancoranel 1816, la parola ‘macchia’ come spie-gazione del modello di stile del Guerci-no giovane.

CORREVA l’anno 1861 e gli amici delgruppo, a cominciare da Telemaco Si-gnorini, pensarono di adottare quellacritica come contrassegno stilistico. Infondo, sarà questa la stessa strada segui-ta dai colleghi di Monet a Parigi.Quell’«Impression. Soleil levant» titolodi un dipinto datato 1872 ed esposto og-gi al Museo Marmottan, doveva in real-tà dare il nome al grande movimentodavvero rivoluzionario destinato a muo-vere 1’espressione artistica del naturali-smo moderno.I primi macchiaioli ebbero il merito diabbandonare nel passato gli armamenta-ri stilistici che avevano segnato la pittu-ra purista e neoclassica. In parte, eranopittori che avevano incominciato a lavo-rare assai presto, e che erano stati coin-

volti nell’ondata rivoluzionaria degli an-ni della prima guerra del Risorgimentoliberale, cioè, il biennio 1848-1849.Adriano Cecioni, Nino Costa (di origi-ni laziali) e poi Giovanni Fattori livor-nese, Telemaco Signorini e, infine, il ro-magnolo Silvestro Lega, parteciparonotutti al generoso travaglio libertario. E,in alcuni tra loro, il grande temadell’unificazione italiana rimase ben im-presso attraverso opere di fama.

È IL CASO di Lega autore dell’insolitodipinto dal titolo «Gli austriaci prigio-nieri dei bersaglieri», che si data nell’ an-no 1860 circa.Il Risorgimento alimentò del resto l’im-maginazione di molti artisti con le sueaspre vicende. Per non parlare poi degliscultori che, a forza di monumenti dedi-cati a Mazzini e a Garibaldi, e poi a Vit-torio Emanuele II oppure a Cavour,riempiranno le piazze della nuova Ita-lia, consolando molto lo spirito diun’unificazione ormai raggiunta. LeBelle Arti, appena nate come ammini-strazione, furono sommerse dalla quan-tità di concorsi per opere pubbliche.

ANCHE il più popolare tra tutti, Giovan-ni Fattori, che rivelava nelle sue lettereuna inarrestabile parlata livornese, lavo-rò molto per le memorie patrie. Esisteancora una sua lettera, del novembre1878, nella quale descrive la visita diUmberto I, da poco re d’Italia, al suo stu-dio fiorentino. In realtà Diego Martelligli aveva insegnato il comportamentoda tenere e le cose da dire, perché il pit-tore aveva bisogno di vendere il quadro-ne che stava dipingendo e che raffigura-

va il famoso ‘quadrato’ di Magenta, cioèla protezione militare organizzata attor-no a Vittorio Emanuele nel corso delladecisiva battaglia.Fattori guidò il giovane monarca in visi-ta allo studio, ma non rivelò di non avermai visto nella realtà il luogo dell’avve-nimento famoso. Umberto osservò lascena, ammirandola assai, ma alla finedisse, rivolto all’artista: «Lei ci ha poe-tizzato». Fattori rispose secco che nonla pensava così.Poi, sincerità per sincerità, il pittore si

informò su quanto tempo fosse duratoil combattimento. E il re precisò che siera combattuto per una mezz’ora.A giudicare da questo colloquio, sem-bra davvero che la stagione degli eroi-smi fosse ormai finita. Questo incontro,tuttavia, costituisce una pagina schiettadella storia italiana e testimonia, unavolta di più, della consonanza tra ispira-zioni e suggestioni di quel gruppo di ar-tisti e la sensibilità propria del loro tem-po verso una prospettiva di comunanzae di partecipazione nazionali.

Don Andreoli, dalla sacrestia al patibolo

«La prima bandieratricolore portata inFirenze nel 1859» diSaverio Altamura(per gentileconcessione delMuseo delRisorgimento diTorino). «Il campoitaliano dopo labattaglia diMagenta» diGiovanni Fattori(Gallleria d’Artemoderna di PalazzoPitti, Firenze).Monumenti aGaribaldi e VittorioEmanuele II a Roma

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37CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 19 GENNAIO 2011

VIAGGIO NEI LUOGHI DEL RISCATTO NAZIONALE

L’Italia, un museoa cielo aperto

L’ITALIA è un enorme museodel Risorgimento. A cieloaperto, in angusti spazi esposi-tivi, fra mura secolari. E’ per-ciò impresa tutt’altro che age-vole disegnare una mappa diquelli che furono i luoghi delnostro riscatto nazionale. In-nanzitutto, guai a dimentica-re che non esiste ‘un’ Risorgi-mento, bensì tanti momenti— di cui magari nemmeno ciaccorgiamo correndo distrat-tamente da una parte all’altradella città — di una storia irri-petibile. Per farla breve: il mu-seo del Risorgimento non èqualcosa di avulso dal conte-sto e testimonianze curiose ofondamentali per capire la‘biografia di una nazione’ pos-sono essere trovate anche neimusei civici o nelle piazze deipiù sperduti paesini.

IL NOSTRO viaggio potrebbecominciare ovunque. Ma, con-siderando come episodio-chia-ve la spedizione dei Mille,non possiamo che partire daMarsala. A due passi dal Duo-mo ha infatti sede il Comples-so monumentale di San Pie-tro che ci offre una mirabilesezione dedicata a Garibaldi eal Risorgimento. Moltissimi itesori contenuti nello scrignolilybetano, tra cui la poltronain damasco dove Garibaldi ri-posò dopo lo sbarco. Nel Com-plesso si trova anche il Centrostudi garibaldini. Più avantiecco il teatro della battagliache, probabilmente, decise lesorti dei Mille: Calatafimi. APianto Romano l’ossario do-mina sulle vallate di questopezzo di Sicilia. Da visitare(ha riaperto da poco) il picco-lo ma preziosissimo museodel Risorgimento di Palermoin piazza San Domenico(www.storiapatria.it) dove ci sirende conto dell’enorme por-tata politica del garibaldini-smo come fenomeno politico-sociale.

ALTRO luogo-simbolo è Ro-ma. Forse il luogo-simbolo,l’obiettivo cui tutti i patriotihanno puntato per realizzarel’unità nazionale. Inutile sot-tolineare la quantità di tesoripresenti nella capitale. Sareb-be un delitto non visitare ilmuseo centrale del Risorgi-mento nel complesso del Vit-toriano in piazza Venezia(www.risorgimento.it: accantoc’è l’istituzione di studi per ec-cellenza, vale a dire l’Istitutoper la Storia del Risorgimen-to italiano). Difficile esprime-re a parole l’emozione che siprova nei vari ambienti, ma ècertamente impossibile per-

dersi la galleria dove vengonoripercorse le tappe dell’epo-pea. Sempre a Roma, da vede-re il viale abbellito dai plataniche costeggia il Gianicolo: cisono i busti dei maggiori pro-tagonisti della Repubblica ro-mana del 1849 e una statua diGaribaldi a cavallo datata1895 e firmata Emilio Galloriche fece infuriare sino a nonmolto tempo fa la diplomaziavaticana che considerava unaffronto avere così vicinol’Eroe dei Due Mondi, notoanticlericale e mangiapreti.Su Colle del Pino conviene da-re un’occhiata all’Ossario gari-baldino: tra aprile e luglio1849 le camicie rosse detteroil meglio per difendere stre-nuamente la Repubblica Ro-mana.

CAPITOLO altrettanto decisi-vo riguarda le altre due capita-li: Torino e Firenze. Nella cul-la dei re sabaudi e soprattuttodi Cavour sta per riaprire(www.museorisorgimentotorino.it) il museo del Risorgimentocon 27 sale che ripercorronole vicende italiane ed europeedal XVIII secolo a quella chefu chiamata la ‘quarta guerrad’indipendenza’ (cioè il pri-mo conflitto mondiale). Danon perdere lo studio di Ca-vour, la ricostruzione della ca-mera di Oporto dove morìCarlo Alberto, ma soprattuttola Camera dei deputati delParlamento subalpino. Firen-ze, invece, non ha più un mu-seo del Risorgimento anchese è in fase avanzata l’idea difarlo rinascere allo Stibbert,altro museo caro ai fiorentini.L’elenco sarebbe ancora mol-to lungo. Impossibile dimenti-care Milano. Il museo (www.museodelrisorgimento.mi.it) haquindici sale tematiche conparticolare attenzione alleCinque giornate del marzo1848. Spostiamoci poi in Emi-lia che vanta a Reggio il mu-seo del Tricolore (www.tricolo-re.it) e in Liguria, a Genova,dove, oltre allo scoglio deiMille a Quarto, al museo gari-baldino di villa Spinola (tel.010/38.54.93), luogo dei prepa-rativi del Generale per la spe-dizione che liberò il Sud daiBorboni, esiste un museo delRisorgimento con annessoIstituto mazziniano davverosensazionale ((www.istituto-mazziniano.it). E, per finire, sedavvero volete sentire l’eco diquegli anni formidabili, anda-te a Caprera. Lì, su quell’isolaventosa quant’altri mai, ripo-sa Garibaldi. Tra poco nasce-rà il museo nazionale.Concludiamo questo excur-sus consigliando due testi:«L’Unità d’Italia», eccellenteguida ai luoghi del Risorgi-mento» di Mario Bussoni(Mattioli 1885 editore) e «Iluoghi di Garibaldi» del Tou-ring club italiano a cura diMaria Canella.

I pittori del Nord,

di Andrea Emiliani;

Come nascono le

camicie rosse,

di Gabriele Moroni

di FRANCESCOGHIDETTI

SIGNORINI, FATTORI, LEGA,PATRIOTI E «MACCHIAIOLI»:

NEI LORO DIPINTIIL VOLTO DEL RISORGIMENTO

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42 CULTURA ESOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 26 GENNAIO 2011

di ANDREAEMILIANI

E’ NERA, con al centro il Ve-suvio in eruzione, la bandierache il 9 luglio 1848, a Montevi-deo, viene consegnata alla Le-gione italiana che agli ordinidi Garibaldi combatte in Uru-guay contro il dittatore Oribee il suo luogotenente Rosas.Da poco gli uomini di Gari-baldi (nell’America Latinagià lo chiamano «El Diablo»)hanno anche una divisa. Ros-sa. Non per scelta ideologica

di quello che diventerà piùtardi in Europa il colore dellarivoluzione ma per una deci-sione del caso. Il governo diMontevideo, cui spetta l’equi-paggiamento dei volontari, hascoperto in una manifatturadella città una partita di stoffarossa. E’ stoffa per le tunichedei macellai, destinata a un«saladero» di Buenos Aires.Rossa perché lì risalterebberomeno le inevitabili macchiedi sangue. E’ fatta. I volontariitaliani combatteranno in di-visa da macellaio. Il coman-dante si adegua con comodo.Per il momento Garibaldi in-dossa una giubba azzurra sen-za insegne con il bavero rove-sciato e doppia bottoniera,cappello bianco di castoro al-

to, di forma cilindrica. Solopiù tardi vestirà con tunicascarlatta, fazzoletto al collo, intesta un feltro nero con la pen-na. Intanto lotta contro l’artri-te degenerativa che lo perse-guiterà per tutta la vita.Nel 1848, richiamato dai ven-ti di guerra e già aureolato dal-la fama di biondo eroe senzamacchia, torna in Italia por-tandosi dietro 62 uomini, al-cuni in camicia rossa. Un an-no dopo, nei giorni della Re-pubblica Romana, le camicievengono confezionate e distri-buite ai volontari accorsi acombattere contro i francesi.Per rivedere il rosso garibaldi-no si dovrà attendere più diun decennio. La storia siriannoderà per un pertugio

angusto, passando attraversouna fuitina e un matrimonioriparatore.

GANDINO, piccolo borgo del-la Bergamasca, scrigno di sto-ria, tesori, memorie. Paese ditessitori e tintori. Nell’’800 la-vorano almeno undici azien-de tintore, alcune autonome,altre collegate a stabilimentidi tessitura. Utilizzano mate-rie prime vegetali, minerali,animali. Per lo scarlatto, ilpiù tipico dei colori gandine-si, si impiega la cocciniglia,un insetto importatodall’America, fatto essiccare,macinato fine fine per poi es-sere disciolto nel bagno di tin-tura. Nel 1820 Giovan Batti-sta Fiori è un vivace enfant dupays di sedici anni. Con i suoibollenti spiriti ha compromes-so una ragazza milanese, Ci-

priana Sordelli. Nozze fretto-lose, nascita di Giovanni, chevivrà per poche ore. E’ trop-po. Il paese ronza di pettego-lezzi. Gaetano Fiori e MariaCarnazzi, genitori severi e pre-occupati, spediscono a Mila-no l’imberbe rampollo e la gio-vane consorte. E’ la fortunadell’intraprendente Giovanniche nella grande città si sco-pre la sua vocazione di uomod’affari e pubbliche relazioni.Nel settembre 1859 Garibaldilancia la sottoscrizione per il«Milione di fucili». E’ proba-bile che allora, grazie alle suesensibilissime antenne, Gio-vanni Fiori capti le prima no-tizie sul progetto di una spedi-zione in Sicilia. Quando la de-cisione è presa rimane pochis-simo tempo. Garibaldi esigeche le uniformi dei suoi sianorosse. Fiori si precipita a Gan-

dino. In una settimana di lavo-ro frenetico raccoglie tutte lepezze di stoffa che trova e do-ve può, dove trova, le fa tinge-re di rosso. Questo spiega per-ché il colore di divise e cami-cie non sarà uguale per tutte.

LA LOCALITA’ si chiama PratServal, Prato dei Servalli, dalnome di una famiglia. La Tin-toria degli Scarlatti era alimen-tata da una sorgente naturale,l’unica, mentre le altre doveva-no sfruttare le acque della sor-gente Concossola, ampia comeun fiume. La lapide muratasulla facciata nel 1961 per ilcentenario dell’Unità è un vo-lo pindarico del prevosto di al-lora, don Antonio Giuliani:

«Qui arte vetusta tinse le cami-cie rosse, che sangue generosoavrebbe ritinto nelle battagliedella libertà». Non esistono do-cumenti, solo una tradizioneorale che prende le mosse dal-le memorie di Erminio Robec-chi Brivio, nipote dell’intra-prendente Fiori. Può confer-marla il particolare che la tin-toria disponeva di caldaie sta-gnate e lo stagno garantiva lu-centezza allo scarlatto. DaGandino partono le pezze ros-se che a Bergamo vengono tra-sformate in camicie nella sarto-ria di Celestina Belotti, fidan-zata del garibaldino FrancescoNullo, mentre a Milano prov-vedono Laura Solera Mante-gazze e altre patriottiche signo-

re. Poche, camicie perché lastoffa è davvero scarsa. Cinque-cento, secondo gli storici piùgenerosi. Un centinaio, ridi-mensiona un calcolo più reali-stico e forse più veritiero. Cer-to è che fra gli uomini imbarca-ti sul «Piemonte» e il «Lom-bardo», in rotta verso il regnodi re Franceschiello, oltre lametà, scrisse nel suo diario ilvolontario bergamasco GuidoSylva non potè «sovrapporrela rossa divisa a l’abito borghe-se». Il rosso è tanto poco diffu-so nelle file garibaldine e tantosconosciuto agli avversari chea Calatafimi i borbonici credo-no di avere di fronte degli eva-si dalle galere dove l’uniformedei detenuti è scarlatta.

LE REALTÀ delle fattezzeumane come anche del pae-saggio e della stessa ‘naturamorta’ erano nelle scuole pit-toriche italiane in paragonecon l’Europa settentrionale as-sai fittizie.In ogni città della penisolacontinuarono la loro attivitàartisti e scultori, disegnatori eincisori. Il loro numero fu an-zi assai alto, ma il camminoapparve rivolto ad una ine-stinguibile dominio del passa-to.Quando si parla della pitturaitaliana del primo 800, nellediverse regioni della penisola,è inevitabile assistere infattiin modi diversi ad una diffu-

sa e pervicace volontà dicurare una

esecuzio-ne di alta ea s s o l u t aperfezione.Devo direche solo loscultore An-tonio Cano-va è riuscitoa infonderenelle sue ope-re straordina-rie una bellez-za che ci appa-re insieme diispirazione an-tica e di moder-na espressività.Del resto, la

stessa tradizione delleAccademie più famose– da Milano a Firenze,da Roma a Bologna op-pure a Venezia - sfiora-va appunto un accade-mismo che illuminavasolamente l’attenzionequasi perversa rivoltasoprattutto al confron-to con il passato. Ma sitrattava di un confron-to passivo.

QUANDO si pensa cheun grandissimo artistacome Camille Corot inquesti anni durante iltempo dei suoi appas-sionati soggiorni , pog-giava a terra il cavallet-to sia in Toscana chesoprattutto nella cam-pagna romana e nellavallata della Nera, ci sisorprende sempre.Soltanto dopo il 1861,i pochi artisti che siriunivano nel caffè Mi-chelangelo di Firenzemostrarono, ancheper la qualità dell’in-

formazione filtrata da Parigiper il tramite degli scritti edelle lettere del critico DiegoMartelli, di trovare in sostan-za la forza di dimettere l’acca-nimento della forma e cioèdel disegno, e di affrontare lastruttura delle ‘macchie’ cro-matiche equilibrate nella lu-minosità dell’assetto tonale.

C’E’ UN GRANDE artista cheattraversa in modo insiemeesemplare e tuttavia contro-verso l’intero secolo XIX, eche risponde al nome del ve-neziano Hayez. La sua attivi-tà di impianto fortemente sto-rico e mediovaleggiante,quanto a contenuti, si associaanche a veri capolavori rivoltisoprattutto alla ritrattistica.Hayez, allievo di un’Accade-mia presieduta da un ormaimoderno scrittore storicodell’arte, quale Leopoldo Ci-cognara, dopo aver toccato laRoma napoleonica ed essererientrato a Venezia, passò poiall’Accademia milanese diBrera. Già l’anno successivoalla sua morte, e cioè nel1882, la celebrazione dellasua scomparsa prese l’aspettodi una stentorea difesa dell’ar-te più rappresentativa del pas-sato.

IL SECONDO Ottocento, fuperfino suggestivo nelle sue ri-cognizioni di paesaggio in Si-cilia come a Napoli, oppurenelle mani abilissime di unvedutista come Ippolito Caffi,capace di far risorgere le glo-rie della grandissima ‘veduta’veneziana del XVIII secolo, li-berò artisti grandi come il pie-montese Reycend, oppure ilmilanese Gola. La Biennaledi Venezia, inaugurata a finesecolo, nel 1895, vide trionfa-re nel gusto del pubblico unenorme dipinto del torineseGrosso che, all’unisono conD’Annunzio, celebrava nelpessimo gusto un ambiguoTrionfo della Morte appollaia-ta sul letto di una seducente eprosperosa femmina senza ve-li. L’artista più attuale nellasua meditata carriera, che siconfrontò sul luogo anchecon il ‘japonisme’ che tanta fa-ma aveva incontrato nellagrande Parigi, appare sempredi più il reggiano Fontanesi.Presto trasferitosi a Torino,la capacità di elevare la suameditazione sul paesaggio pa-dano assedia i sentimenti e sidirebbe anzi i sensi del viverecon emozioni di esaltante vici-nanza al pensiero sulla natu-ra. Egli fu del resto tra i pochiche non diede luogo al costan-te e talvolta anche un pocoambiguo celebrativismo risor-gimentale.

Carlo III di Borbone, il ‘tirannello’ di Parma

NEL 1849 FerdinandoCarlo di Borbone avevaassunto la reggenza del

Ducato di Parma col nome diCarlo III. «Tirannello»: così lochiamava il popolo. Una qualificaazzeccata per uno «strambo» diuna dinastia di «strambi»: suo

padre non aveva combinato nullain tutta la sua vita, suo nonno eramorto pazzo, e lui non avevatradito le “tradizioni” di famiglia.Nato nel 1823, era cresciuto neglistravizi e nel 1845aveva sposatoLuisa Maria di Berry, che gliaveva dato quattro figli.Prevalentemente interessato alledonne e al gioco, s’era occupato

della vita pubblica solo in terminivessatori. Fra le sue disposizionispiccavano le pene corporali confrusta e bastone. Timoroso dei“danni” che poteva provocare lacultura, chiuse l’università diParma. Una tirannia, la sua,destinata a scadere nel marzo del1854, quando una riunioneclandestina si concluse con un

sorteggio dal quale uscì il nome diCarra, un sellaio: sarebbe stato lui– poi rifugiatosi in Argentina – adeseguire il regicidio. Un colpo dicoltello provocò la morte deltrentenne “Tirannello” dopo unagiornata di dolorosa agonia. Lareggenza fu assunta da LuisaMaria in nome del suoprimogenito, che però non sarebbe

mai salito su quel trono: dal luglio

successivo ebbero inizio una serie

di moti che si conclusero con la

fuga dei Borbone, nel settembre

del 1859. L’11 marzo successivo

un plebiscito proclamò

l’annessione del Ducato al Regno

dei Savoia.

E L’ARTE FECE I CONTI CON IL RISORGIMENTO

Il perfezionismodell’Ottocento

di GABRIELEMORONI

LO SQUILLO di Pino Casamassima

I circoli e le rivisteculturali,di Cosimo Ceccuti;La lingua italianadopo l’Unità,di Maria LuisaAltieri Biagi

SOLO LA METÀ DEI ‘MILLE’POTÉ INDOSSARE LA

DIVISA, PER MANCANZA DISTOFFA. A TINGERLA CI

PENSÒ UN BERGAMASCO

«Garibaldi aPalermo» di Fattori(da «1861 - I pittoridel Risorgimento»,per gentileconcessione di Skiraeditore); a destra «Lavasca dell’Accademiadi Francia a Roma» diCorot (Museodipartimentale dell’Oise) e«La meditazione» diHayez (Galleria d’artemoderna di Verona)

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43CULTURA ESOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 26 GENNAIO 2011

di ANDREAEMILIANI

E’ NERA, con al centro il Ve-suvio in eruzione, la bandierache il 9 luglio 1848, a Montevi-deo, viene consegnata alla Le-gione italiana che agli ordinidi Garibaldi combatte in Uru-guay contro il dittatore Oribee il suo luogotenente Rosas.Da poco gli uomini di Gari-baldi (nell’America Latinagià lo chiamano «El Diablo»)hanno anche una divisa. Ros-sa. Non per scelta ideologica

di quello che diventerà piùtardi in Europa il colore dellarivoluzione ma per una deci-sione del caso. Il governo diMontevideo, cui spetta l’equi-paggiamento dei volontari, hascoperto in una manifatturadella città una partita di stoffarossa. E’ stoffa per le tunichedei macellai, destinata a un«saladero» di Buenos Aires.Rossa perché lì risalterebberomeno le inevitabili macchiedi sangue. E’ fatta. I volontariitaliani combatteranno in di-visa da macellaio. Il coman-dante si adegua con comodo.Per il momento Garibaldi in-dossa una giubba azzurra sen-za insegne con il bavero rove-sciato e doppia bottoniera,cappello bianco di castoro al-

to, di forma cilindrica. Solopiù tardi vestirà con tunicascarlatta, fazzoletto al collo, intesta un feltro nero con la pen-na. Intanto lotta contro l’artri-te degenerativa che lo perse-guiterà per tutta la vita.Nel 1848, richiamato dai ven-ti di guerra e già aureolato dal-la fama di biondo eroe senzamacchia, torna in Italia por-tandosi dietro 62 uomini, al-cuni in camicia rossa. Un an-no dopo, nei giorni della Re-pubblica Romana, le camicievengono confezionate e distri-buite ai volontari accorsi acombattere contro i francesi.Per rivedere il rosso garibaldi-no si dovrà attendere più diun decennio. La storia siriannoderà per un pertugio

angusto, passando attraversouna fuitina e un matrimonioriparatore.

GANDINO, piccolo borgo del-la Bergamasca, scrigno di sto-ria, tesori, memorie. Paese ditessitori e tintori. Nell’’800 la-vorano almeno undici azien-de tintore, alcune autonome,altre collegate a stabilimentidi tessitura. Utilizzano mate-rie prime vegetali, minerali,animali. Per lo scarlatto, ilpiù tipico dei colori gandine-si, si impiega la cocciniglia,un insetto importatodall’America, fatto essiccare,macinato fine fine per poi es-sere disciolto nel bagno di tin-tura. Nel 1820 Giovan Batti-sta Fiori è un vivace enfant dupays di sedici anni. Con i suoibollenti spiriti ha compromes-so una ragazza milanese, Ci-

priana Sordelli. Nozze fretto-lose, nascita di Giovanni, chevivrà per poche ore. E’ trop-po. Il paese ronza di pettego-lezzi. Gaetano Fiori e MariaCarnazzi, genitori severi e pre-occupati, spediscono a Mila-no l’imberbe rampollo e la gio-vane consorte. E’ la fortunadell’intraprendente Giovanniche nella grande città si sco-pre la sua vocazione di uomod’affari e pubbliche relazioni.Nel settembre 1859 Garibaldilancia la sottoscrizione per il«Milione di fucili». E’ proba-bile che allora, grazie alle suesensibilissime antenne, Gio-vanni Fiori capti le prima no-tizie sul progetto di una spedi-zione in Sicilia. Quando la de-cisione è presa rimane pochis-simo tempo. Garibaldi esigeche le uniformi dei suoi sianorosse. Fiori si precipita a Gan-

dino. In una settimana di lavo-ro frenetico raccoglie tutte lepezze di stoffa che trova e do-ve può, dove trova, le fa tinge-re di rosso. Questo spiega per-ché il colore di divise e cami-cie non sarà uguale per tutte.

LA LOCALITA’ si chiama PratServal, Prato dei Servalli, dalnome di una famiglia. La Tin-toria degli Scarlatti era alimen-tata da una sorgente naturale,l’unica, mentre le altre doveva-no sfruttare le acque della sor-gente Concossola, ampia comeun fiume. La lapide muratasulla facciata nel 1961 per ilcentenario dell’Unità è un vo-lo pindarico del prevosto di al-lora, don Antonio Giuliani:

«Qui arte vetusta tinse le cami-cie rosse, che sangue generosoavrebbe ritinto nelle battagliedella libertà». Non esistono do-cumenti, solo una tradizioneorale che prende le mosse dal-le memorie di Erminio Robec-chi Brivio, nipote dell’intra-prendente Fiori. Può confer-marla il particolare che la tin-toria disponeva di caldaie sta-gnate e lo stagno garantiva lu-centezza allo scarlatto. DaGandino partono le pezze ros-se che a Bergamo vengono tra-sformate in camicie nella sarto-ria di Celestina Belotti, fidan-zata del garibaldino FrancescoNullo, mentre a Milano prov-vedono Laura Solera Mante-gazze e altre patriottiche signo-

re. Poche, camicie perché lastoffa è davvero scarsa. Cinque-cento, secondo gli storici piùgenerosi. Un centinaio, ridi-mensiona un calcolo più reali-stico e forse più veritiero. Cer-to è che fra gli uomini imbarca-ti sul «Piemonte» e il «Lom-bardo», in rotta verso il regnodi re Franceschiello, oltre lametà, scrisse nel suo diario ilvolontario bergamasco GuidoSylva non potè «sovrapporrela rossa divisa a l’abito borghe-se». Il rosso è tanto poco diffu-so nelle file garibaldine e tantosconosciuto agli avversari chea Calatafimi i borbonici credo-no di avere di fronte degli eva-si dalle galere dove l’uniformedei detenuti è scarlatta.

LE REALTÀ delle fattezzeumane come anche del pae-saggio e della stessa ‘naturamorta’ erano nelle scuole pit-toriche italiane in paragonecon l’Europa settentrionale as-sai fittizie.In ogni città della penisolacontinuarono la loro attivitàartisti e scultori, disegnatori eincisori. Il loro numero fu an-zi assai alto, ma il camminoapparve rivolto ad una ine-stinguibile dominio del passa-to.Quando si parla della pitturaitaliana del primo 800, nellediverse regioni della penisola,è inevitabile assistere infattiin modi diversi ad una diffu-

sa e pervicace volontà dicurare una

esecuzio-ne di alta ea s s o l u t aperfezione.Devo direche solo loscultore An-tonio Cano-va è riuscitoa infonderenelle sue ope-re straordina-rie una bellez-za che ci appa-re insieme diispirazione an-tica e di moder-na espressività.Del resto, la

stessa tradizione delleAccademie più famose– da Milano a Firenze,da Roma a Bologna op-pure a Venezia - sfiora-va appunto un accade-mismo che illuminavasolamente l’attenzionequasi perversa rivoltasoprattutto al confron-to con il passato. Ma sitrattava di un confron-to passivo.

QUANDO si pensa cheun grandissimo artistacome Camille Corot inquesti anni durante iltempo dei suoi appas-sionati soggiorni , pog-giava a terra il cavallet-to sia in Toscana chesoprattutto nella cam-pagna romana e nellavallata della Nera, ci sisorprende sempre.Soltanto dopo il 1861,i pochi artisti che siriunivano nel caffè Mi-chelangelo di Firenzemostrarono, ancheper la qualità dell’in-

formazione filtrata da Parigiper il tramite degli scritti edelle lettere del critico DiegoMartelli, di trovare in sostan-za la forza di dimettere l’acca-nimento della forma e cioèdel disegno, e di affrontare lastruttura delle ‘macchie’ cro-matiche equilibrate nella lu-minosità dell’assetto tonale.

C’E’ UN GRANDE artista cheattraversa in modo insiemeesemplare e tuttavia contro-verso l’intero secolo XIX, eche risponde al nome del ve-neziano Hayez. La sua attivi-tà di impianto fortemente sto-rico e mediovaleggiante,quanto a contenuti, si associaanche a veri capolavori rivoltisoprattutto alla ritrattistica.Hayez, allievo di un’Accade-mia presieduta da un ormaimoderno scrittore storicodell’arte, quale Leopoldo Ci-cognara, dopo aver toccato laRoma napoleonica ed essererientrato a Venezia, passò poiall’Accademia milanese diBrera. Già l’anno successivoalla sua morte, e cioè nel1882, la celebrazione dellasua scomparsa prese l’aspettodi una stentorea difesa dell’ar-te più rappresentativa del pas-sato.

IL SECONDO Ottocento, fuperfino suggestivo nelle sue ri-cognizioni di paesaggio in Si-cilia come a Napoli, oppurenelle mani abilissime di unvedutista come Ippolito Caffi,capace di far risorgere le glo-rie della grandissima ‘veduta’veneziana del XVIII secolo, li-berò artisti grandi come il pie-montese Reycend, oppure ilmilanese Gola. La Biennaledi Venezia, inaugurata a finesecolo, nel 1895, vide trionfa-re nel gusto del pubblico unenorme dipinto del torineseGrosso che, all’unisono conD’Annunzio, celebrava nelpessimo gusto un ambiguoTrionfo della Morte appollaia-ta sul letto di una seducente eprosperosa femmina senza ve-li. L’artista più attuale nellasua meditata carriera, che siconfrontò sul luogo anchecon il ‘japonisme’ che tanta fa-ma aveva incontrato nellagrande Parigi, appare sempredi più il reggiano Fontanesi.Presto trasferitosi a Torino,la capacità di elevare la suameditazione sul paesaggio pa-dano assedia i sentimenti e sidirebbe anzi i sensi del viverecon emozioni di esaltante vici-nanza al pensiero sulla natu-ra. Egli fu del resto tra i pochiche non diede luogo al costan-te e talvolta anche un pocoambiguo celebrativismo risor-gimentale.

Carlo III di Borbone, il ‘tirannello’ di Parma

NEL 1849 FerdinandoCarlo di Borbone avevaassunto la reggenza del

Ducato di Parma col nome diCarlo III. «Tirannello»: così lochiamava il popolo. Una qualificaazzeccata per uno «strambo» diuna dinastia di «strambi»: suo

padre non aveva combinato nullain tutta la sua vita, suo nonno eramorto pazzo, e lui non avevatradito le “tradizioni” di famiglia.Nato nel 1823, era cresciuto neglistravizi e nel 1845aveva sposatoLuisa Maria di Berry, che gliaveva dato quattro figli.Prevalentemente interessato alledonne e al gioco, s’era occupato

della vita pubblica solo in terminivessatori. Fra le sue disposizionispiccavano le pene corporali confrusta e bastone. Timoroso dei“danni” che poteva provocare lacultura, chiuse l’università diParma. Una tirannia, la sua,destinata a scadere nel marzo del1854, quando una riunioneclandestina si concluse con un

sorteggio dal quale uscì il nome diCarra, un sellaio: sarebbe stato lui– poi rifugiatosi in Argentina – adeseguire il regicidio. Un colpo dicoltello provocò la morte deltrentenne “Tirannello” dopo unagiornata di dolorosa agonia. Lareggenza fu assunta da LuisaMaria in nome del suoprimogenito, che però non sarebbe

mai salito su quel trono: dal luglio

successivo ebbero inizio una serie

di moti che si conclusero con la

fuga dei Borbone, nel settembre

del 1859. L’11 marzo successivo

un plebiscito proclamò

l’annessione del Ducato al Regno

dei Savoia.

E L’ARTE FECE I CONTI CON IL RISORGIMENTO

Il perfezionismodell’Ottocento

di GABRIELEMORONI

LO SQUILLO di Pino Casamassima

I circoli e le rivisteculturali,di Cosimo Ceccuti;La lingua italianadopo l’Unità,di Maria LuisaAltieri Biagi

SOLO LA METÀ DEI ‘MILLE’POTÉ INDOSSARE LA

DIVISA, PER MANCANZA DISTOFFA. A TINGERLA CI

PENSÒ UN BERGAMASCO

«Garibaldi aPalermo» di Fattori(da «1861 - I pittoridel Risorgimento»,per gentileconcessione di Skiraeditore); a destra «Lavasca dell’Accademiadi Francia a Roma» diCorot (Museodipartimentale dell’Oise) e«La meditazione» diHayez (Galleria d’artemoderna di Verona)

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36 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 2 FEBBRAIO 2011

«OSANNA, finalmente ci siamo contati!Non più scuse, non più sconce finzioni,non più insinuazioni maligne. I due parti-ti si sono divisi l’uno dall’altro, come sidivide l’acqua dall’olio; di qua gl’italiani,di là i separatisti!» (‘La Nazione’, 18 mar-zo 1860). Così il Collodi commentava ilplebiscito che aveva deciso l’unione dellaToscana al Piemonte: 366.571 i votantidesiderosi di diventare «italiani»; 14.000 i«separatisti», favorevoli al ritorno delGranduca Leopoldo. Maturavano così-per volontà popolare, oltre che per accor-di diplomatici e azioni militari- le condi-zioni che permisero a Vittorio EmanueleII di proclamare il «Regno d’Italia» (17marzo 1861).

RAGGIUNTA l’unità politica, si pensa allalingua e il ministro dell’istruzione chiedea un Manzoni più che ottantenne, come«rendere più universale in tutti gli ordinidel popolo la notizia della buona lingua edella buona pronunzia». E il Manzoni ri-sponde con una relazione (‘Dell’unità del-la lingua e dei mezzi di diffonderla’) checonferma la sensibilità sociale da lui mo-strata con le continue correzioni ai ‘Pro-messi Sposi’, a creare una «linguadell’uso» che fosse «bene comune» del po-polo italiano; parole di livello letterario(frequenti nell’edizione del 1827) vengo-no sostituite da parole quotidiane nell’edi-zione del 1840: accorata/mesta, affranta/stanca, conquisa/vinta, fievole/debole, immo-to/immobile, occultato/nascosto, sùbita/im-provvisa, tacito/zitto, tapina/misera, ecc. Per

diffondere «la buona lingua» il Manzoniconsiglia un vocabolario italiano basatosull’uso fiorentino e vocabolari dialettali«comparativi», che facilitino il passaggiodai dialetti alla lingua. Meno attuabile laproposta di trasferire maestri toscani in al-

tre regioni, a formare o aggiornare inse-gnanti locali.

QUALE ERA, realmente, la situazione lin-guistica della neonata «nazione»? Nel1861 i cittadini italiani erano circa 22 mi-lioni; diventeranno 26 milioni dopo l’an-nessione del Veneto (1866) e la conquistadi Roma (1870). Incerto invece il numerodegli italofoni: la percentuale proposta dailinguisti oscilla dal 2,5% a più del 12%(dai 630.000 ai 3 milioni di individui).Più che scegliere in una “forbice” così am-pia, dovremmo ammettere un numeromolto più alto di cittadini forniti di «cono-scenza passiva» dell’italiano: quelli che,

pur parlando un dialetto, erano in gradodi “capire” (e quindi facilitati a imparare)l’italiano parlato da altri con cui avevanorapporti sociali o lavorativi. Un numerodestinato a crescere rapidamente per ilforte aumento della popolazione che, a fi-ne secolo, superava i 50 milioni (più cheraddoppiata, dunque, rispetto al 1861). Ei nati nella seconda metà del secolo eranocertamente più scolarizzati dei nati nellaprima metà, grazie alla migliorata orga-nizzazione scolastica postunitaria.

AUMENTANO i lettori, e quindi gli scrit-tori e le tirature di giornali, romanzi d’ap-pendice, novelle, segretari galanti, libriper ragazzi, per signorine... Di un roman-zo di Jolanda (Maria Majocchi Plattis,1864-1917), ‘Le tre Marie’, furono vendu-te più di centomila copie. Tanta crescitaera accompagnata da un appiattimentolinguistico che un critico fine come Rena-to Serra così descriveva, nel 1913: «Quel-lo che sembrava un mito, un ideale favolo-so, l’unità della lingua e del tipo lettera-rio, oggi comincia ad essere un fatto com-piuto e pacifico , tanto naturale che la gen-te quasi non se ne accorge: non si sentepiù, oggi, a leggere, se l’autore sia lombar-do o piemontese, o siciliano. Oggi tuttiscrivono, in modi diversi, press’a poco lastessa lingua; con una certa pulizia, piùche proprietà, e scelta e ricchezza di voca-bolario comune...». E’ lo «stampo unico»,il «tipo unico», di cui Serra un po’ si ralle-gra e un po’ si lamenta perché «l’uniformi-tà dello stampo finisce presto a uguagliartutto».Saranno le avanguardie letterarie e i po-chi ma grandi scrittori del Novecento arinnovare la lingua. Saranno i molti egrandi poeti dello stesso secolo a restitui-re colori alle sbiadite parole di tutti: «letue parole iridavano come le scaglie / del-la triglia moribonda». (E. Montale).(*) Docente di Storia della lingua italiana,Università di Bologna

LO SQUILLO di Pino Casamassima

Mameli, poeta ucciso da ‘baionetta amica’

Scuola e letteraturaPochi gli italofoni. E ci fu chi proposedi ‘esportare’ maestri toscani in ogniregione del nuovo Regno. Ma poi...

«MENTRE IO aspettavote/Michele Novaro incon-tra Mameli e insieme scri-

vono un pezzo tuttora in voga», canta-va Rino Gaetano, anche lui destinatoalla morte giovane per far felice gli dei.Giovane, anzi, giovanissimo con i suoi21 anni era Goffredo Mameli quandomorì.Figlio di un’aristocratica famiglia geno-vese, dimostrò subito una forte passioneper la letteratura, componendo fin daitempi della scuola versi d’ispirazione ro-mantica e patriottica: fra questi, il

“Canto degl’Italiani’’, musicato in unanotte dall’amico Michele Novaro, e desti-nato a diventare l’inno nazionale italianocol nome di “Inno di Mameli”. Dopoaver conosciuto Mazzini, in Mamelis’erano irrobustiti i suoi già forti sentimen-ti patriottici, tanto da indurlo a partecipa-re attivamente ad alcuni avvenimenti sa-lienti del movimento risorgimentale: nelmarzo del 1848 partecipò alle 5 giornatedi Milano, nel giugno successivo si feceportavoce della richiesta dello Statuto aCarlo Alberto, e dopo la fuga di Pio IXpartì con Garibaldi da Ravenna alla vol-

ta di Roma, dove nel febbraio del 1849 fucostituita la Repubblica romana.La sua inquietudine rivoluzionaria lo por-tava a spostarsi di continuo e si trovava aGenova quando seppe che la Francia ave-va attaccato la Repubblica romana: tor-nato precipitosamente a Roma, fu acci-dentalmente ferito a una gamba dallabaionetta di un commilitone: un taglio dipoco conto, ma l’infezione gli fece primaperdere la gamba, poi la vita. Le sue poe-sie furono pubblicate per la prima voltanel 1850 con la prefazione di GiuseppeMazzini.

FATTA L’UNITÀ SIPENSÒ ALLA

LINGUA COMUNE.MANZONI

CONSIGLIÒ ILFIORENTINO E

TESTI DIALETTALI‘COMPARATIVI’

di MARIA LUISAALTIERI BIAGI (*)

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37CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 2 FEBBRAIO 2011

IL RISORGIMENTO italiano fu un fenomeno culturale pri-ma ancora che una serie di eventi politico-militari. L’affer-marsi dell’idea di nazione, in Italia e in Europa, la faticosaformazione della coscienza di un’appartenenza comune, siaccompagnò alla circolazione e alla diffusione delle idee –pur combattute dalla censure e dalle autorità di polizia – aldialogo e al confronto, alla riscoperta e al recupero di radicilontane, dalle radizioni alla lingua, all’orgogliosa rivendica-zione delle antiche libertà.Una delle grandi “rivoluzioni” del periodo post-napoleoni-co fu l’apertura al progresso, nei circoli, nei gabinetti scien-tifici e letterari, nei congressi degli scienziati; una rivoluzio-ne che si accompagnò al radicale cambiamento degli obietti-vi e della realtà stessa dell’editoria. Si abbandonano le pub-blicazioni di élite e si tende a raggiungere un pubblico sem-pre più vasto, contenendo i costi e moltiplicando le tiratu-re. I contenuti mettono da parte la letteratura “edonistica”,il bello per il bello, e si aprono alla letteratura “civile”, chesoddisfa le istanze patriottiche provenienti dal basso, susci-tando l’orgogliosa reazione dei lettori a fronte delle sopraffa-zioni e delle ingiustizie, come accade in teatro, in occasionedella messa in scena delle tragedie di Gian Battista Niccoli-ni o delle opere liriche di Giuseppe Verdi.

IN QUELL’ITALIA definita dal cancelliere austriaco Metter-nich “pura espressione geografica” e dal poeta francese La-martine addirittura “terra di morti”, ci si infiamma per iversi di Foscolo e di Leopardi, si leggono con passione iromanzi storici di Grossi e di Manzoni, di Guerrazzi e diD’Azeglio, che evocano episodi gloriosi del lontano passa-to, dall’epopea dei Comuni al periodo delle Signorie. L’Ita-lia c’era, nell’imporsi di una lingua comune dei dotti attra-verso la Commedia di Dante il volgare dei trecentisti tosca-ni, o nelle orgogliose, eroiche ribellioni di Ettore Fieramo-sca e di Francesco Ferrucci, nell’estremo sacrificio di Arnal-do da Brescia che non si piega alla prepotenza del Papatoalleato con l’Impero.Nel campo dei periodici, il romanticismo trova a Milanonel 1818 la prima, importante pubblicazione di respiro eu-ropeo col Conciliatore, di Pellico, Berchet e Confalonieri,di breve durata per il rigore austriaco. Sarà la Toscana piùtollerante dei Lorena a costituire l’autentico cenacolo e cen-tro di attrazione per il liberalismo moderato dell’intero pae-se. Fra 1821 e 1832 l’Antologia di Gian Pietro Vieusseuxrappresenta luogo ideale di confronto per il rinnovamentoe l’emancipazione culturale, sociale, civile, anticipando l’an-cora lontana stagione delle riforme. Dopo la stretta reazio-naria successiva ai fatti del 1830-31, Firenze accoglie i gran-di editori, esuli alla ricerca di tolleranza se non di libertà:da Parigi l’intraprendente Felice Le Monnier ripara sullerive dell’Arno, dove avvia agli inizi degli anni Quaranta la“Biblioteca nazionale”, collezione già nel titolo rivoluziona-ria, che accanto ai classici accoglie opere di limpido conte-nuto patriottico: Dante, Machiavelli, Alfieri, ma ancheTommaseo e Guerrazzi, Pellico e Mamiani, Giusti e Collet-ta. E per la prima volta la pubblicazione di tutte le opere diuno stesso autore, da Foscolo a Leopardi. “Officina vulcani-ca” definiva quella tipografia papa Pio IX per il contenutodei libri che uscivano dai suoi torchi. Prima con Le Mon-nier e dal 1854 in proprio opera a Firenze il piemontese Ga-spero Barbèra, l’editore di De Amicis e del Carducci, artefi-ce nel periodo decisivo del riscatto nazionale della “Biblio-teca civile dell’italiano”.

NON SOLO FIRENZE e la Toscana. A Torino opera, in con-temporanea col fiorentino Vieusseux, Giuseppe Pomba, edi-tore fra l’altro della celebre Storia universale di CesareCantù, in trentacinque volumi, iniziata nel 1838 e conclusanel 1846: fra i primi, in Italia, a promuovere l’editoria popo-lare, quale risposta alla crescente domanda di cultura e diinformazione proveniente dal basso.(*) Docente di Storia dei partiti e delle rappresentanze politiche,Università di Firenze

EDITORIA E CIRCOLI LETTERARI

E il progressofu dato alle stampe

di COSIMOCECCUTI (*)

«I figli del popolo»di Giacchino Toma(Pinacoteca provincialedi Bari) e, a sinistra,«Visita di Garibaldia Manzoni»di SebastianoDe Albertis(Civico Museo diMilano)

«La lotta alla povertà»di Paolo Sorcinelli;«Risorgimento e antiRisorgimento»di Franco Cardini

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36 CULTURA ESOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 9 FEBBRAIO 2011

SIAMO al Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Che in dieci anni, tra1860 e 1870, cambiò tre volte capitale: il che significa senza dubbio qual-cosa. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti del Po, dell’Arno edel Tevere. Nato regno unitario e centralistico, il paese si ritrova oggirepubblica federalista: un punto d’arrivo agli antipodi rispetto alla par-tenza, si direbbe. Il regno era rimato profondamente cattolico, eppurechiuse il papa in Vaticano e ce lo tenne quasi sessant’anni; la repubblicaè “laica”, non ha più religione di stato, eppure i suoi schermi televisivitrasmettono ogni girono l’immagine del pontefice. Siamo davvero finitilà dove né Vittorio Emanuele II, né il Cavour né Garibaldi (per tacer delRosmini e del Cattaneo) avrebbero mai voluti andare.Insomma, che cosa dobbiamo davvero celebrare? L’unità di un paeseche è sull’orlo della secessione? La conquistata sovranità di un paeseche ormai – tra Unione Europa, NATO e istituzioni sovranazionali einternazionali – l’ha perduta da un pezzo? Il “Risorgimento”, laddovenon si è mai capito con precisione che cosa dovesse ri-sorgere (la gran-dezza di Roma? Le libertà comunali del medioevo? Il genio del Rinasci-mento? O che cos’altro?). Meglio sarebbe forse, più che celebrare, com-memorare. Un verbo intenso, quest’ultimo: che significa ricordare insie-me, avere una memoria comune. Ce l’abbiamo? Vogliamo averla? Ciserve ancora?Stretti fra i nostalgici dell’epopea di Solferino e la gente che straccia ebrucia il tricolore, i restanti cittadini di buon senso debbono pur farsidelle domande su che cos’è ch’è andato storto. L’unità ci ha almeno inuna qualche misura disunito; l’Italia fu fatta più o meno fra 1848 e 1918,ma in quei settant’anni non si riuscì a “fare gli italiani”, a compiere unprocesso serio di “nazionalizzazione delle masse”. Ci provammo ancheelaborando una soluzione autoritaria: che addirittura di denominò “to-talitaria”: e va riconosciuto che essa fece fare, sia pur forzosamente, deipassi avanti al sentimento civico; ma il suo fallimento travolse anche

quei risultati e rischiò di affidare lo stesso patriottismo alla dam-natio memoriae. Avevamo conservato fino a ieri i due veri, for-midabili strumenti di costruzione della consapevolezza unita-ria: la leva militare obbligatoria e la scuola pubblica. Negli ulti-mi anni, li abbiamo distrutti entrambi.

SERVE ALLORA a qualcosa ripercorrere, come fa Pino Aprilein Terroni (Piemme), il dramma del fallimento dell’unità, e “tut-to quel che è stato fatto perché gli italiani del sud diventasseromeridionali”? Certo, riflettere su uno “sviluppo interrotto”, sulforzoso “scambio asimmetrico” fra le due Italie, sulla tragediadel “brigantaggio”, dell’emigrazione e della sempre evitata ri-forma agraria e dell’inutile macello del ’15-18 ci fa capire inparte che cosa sia accaduto. Non dico che Aprile abbia ragionein tutto; e certo le nostalgie borboniche (e papaline, e granduca-li) non servono a nulla. Però, a parte il fascino di un libro cheha pagine davvero suggestive, anche il lavoro di Giordano Bru-no Guerri sulla “guerra civile” nel Mezzogiorno sottolinea co-me il comportamento delle truppe piemontesi fu quello di unesercito in un “paese coloniale”; e aggiunge che, a propositodell’arretratezza del governo borbonico, molto di quel che si èdetto propaganda. Vogliamo andar oltre, e osservare che glistessi rilievi di Gilberto Oneto, La strana unità (Il Cerchio) so-no intelligenti e plausibili per quanto presentati in una formache può sembrare quella del pamphlet? E vogliamo infine ag-giungere che un territorio evitato dagli storici d’oggi è quellodella forte, determinante influenza inglese sull’unità italiana?Su tale tema, di autentica primaria importanza, di solito si ta-ce.Ma a proposito di mancata costruzione identitaria, di negata

riforma agraria e pertanto di dramma dell’emigrazione, il discorsonon può portar dritto al momento nel quale si cercò di risolvere que-sti nodi e di appianare queste contraddizioni: al fascismo. E qui ser-virebbe il coraggio di proclamare esplicitamente quella verità cheAntonio Pennacchi ha adombrato in Canale Mussolini (Mondado-ri): se – facciamo la storia come va fatta, cioè con i “se” e con i “ma”– al Duce fosse venuto un bel coccolone il 28 aprile del ’35, diecianni precisi prima della sua tragica vera fine, vale a dire all’indoma-ni della Carta del Lavoro, della Conciliazione, dell’avvio della poli-tica delle “grandi opere” che aveva stupito ed entusiasmatoFranklin D. Roosevelt, della definitiva fondazione dello “stato so-ciale”, della bonifica delle paludi pontine e della conferenza diStresa dov’egli era stato il più energico e lucido nel denunziare ilpericolo-Hitler, oggi forse la storia d’Italia e magari d’Europa sa-rebbe diversa. Magari migliore. E chi pensa che con quest’artico-lo io voglia provocare una rissa, ha perfettamente ragione.(*) Docente di Storia medievale, Università di Firenze

NEL 1815 il vulcano Tambora (attuale In-donesia) oscura i cieli di mezzo mondocon cenere e anidride solforosa. I raccoltimarciscono per due anni di seguito enell’agosto del 1817 in Sicilia cade “neverossa”. Anche l’Italia deve fare i conti conla carestia e con il tifo petecchiale. Ad An-cona colpisce sei abitanti su cento, a Urbi-no cinque, a Perugia soltanto tre. Ma nonsono soltanto i pidocchi a preoccupare loStato Pontificio. Una testimonianza del1829 assicura che su cento abitanti ce nesono trentuno “infetti”, ciechi, erniosi,gozzosi, muti, nani, paralitici, pellagrosi,storpi. A Bologna, nella prima metà del se-colo si contano ventitre annate con patolo-gie diffuse. Fra cui anche il cholera mor-bus, che dal 1834 al 1911 colpisce ripetuta-mente città e regioni, mietendo ovunquevittime. Ma per un quadro più complessi-vo bisognerà attendere i resoconti delle vi-site per la leva obbligatoria. Ad iniziaredal 1861, i ventenni di tutto il neonato Re-gno d’Italia sono scrutati, misurati, pesa-ti. Esce allo scoperto un’umanità di croni-ci, di epilettici, di gozzuti, di vaiolosi, dinon abili per “mancanza di statura”. Pro-prio così: fra il 1862 e il 1865, il 40% deicoscritti non superava i 156 centimetri distaura previsti per servire la patria. E fra il1863 e il 1874, furono più di settemila igiovani non arruolati perché scrofolosi.

ANCHE LE ADOLESCENTI anticipavanoo ritardavano la prima mestruazione a se-conda dei livelli alimentari su cui poteva-no fare affidamento. Calorie e vitamineera termini ancora sconosciuti, ma su una

cosa il sapere medico e la medicina popo-lare concordavano perfettamente. Unabuona alimentazione era determinanteper mantenersi in salute e un toccasanaper guarire dai malanni. Lo dimostra ilfatto che brodo di carne, pane bianco e vi-

no rosso avevano un posto privilegiato alcapezzale di ogni malato. Negli ospedaliper indigenti e cronici, nelle locande sani-tarie per curare la pellagra, nelle coloniemarine per salvaguardare gli adolescentiscrofolosi, nei sanatori per rimettere in se-sto i tisici. La mappa sanitaria della nazio-ne si definirà meglio dopo il colera del1884, quando il Ministero dell’Internolancia una ricognizione “sulle condizioniigienico-sanitarie nei comuni”. Quattroanni più tardi sarà la volta dell’ inchiestaBertani sulle “condizioni sanitarie dei la-voratori della terra”.Intanto, la scoperta del vibrione del cole-ra e del bacillo del tifo porta alla ribalta il

problema delle fognature e degli acque-dotti e la legge Crispi rende obbligatoriala denuncia dei decessi per malattie infet-tive. A quasi trent’anni dall’unificazionesi scopre così che la mortalità per enteri-te, difterite e tifo costituisce la prima cau-sa di morte degli italiani. I più esposti so-no naturalmente i bambini e questa èuna circostanza decisiva per fissare lasperanza di vita a 33 anni. Nel1901, vent’anni dopo, il dato è sa-lito a 41. Grazie ai progressi nel-le infrastrutture sanitarie, maanche al ruolo giocato da medi-ci e levatrici. La loro distribu-zione sul territorio garantisceun presidio medico e un puntodi osservazione privilegiato.

NELLE CAMPAGNE il servizio dicondotta è spesso carente o problemati-co, ma ciò non toglie che l’operato di me-dici e levatrici assuma sul finire del seco-lo una valenza sociale e culturale di gran-de impatto. Come stanno a dimostrare lefigure di Ignazio Guerra, Giuseppe Bada-loni, Tullio Betti, Gastone Gherardi e An-gelo Celli. Fra il 1880 e il 1910, il loro mo-dus operandi, di stampo positivista, è im-prontato quasi sempre su una vicinanzaintellettuale alle idee socialiste e repubbli-cane. Rendendo inevitabile il confronto/scontro col “contadino arricchito”, col“fittaiolo facoltoso”, col “mediocre possi-dente con l’aria da gran signore” che almedico condotto sono disposti a perdona-re tutto. Anche la “negligenza, l’ignoran-za e la rozzezza”, ma non un’ulteriore im-posizione contributiva per “migliorie igie-niche”. Interventi che dal loro punto divista sono soltanto moderne minchione-rie. Una delle tante contraddizioni che se-gnano il passaggio da un’idea d’Italia aun’Italia realizzata.(*) Docente di Storia sociale, Universi-tà di Bologna

LO SQUILLO di Pino Casamassima

Cristina, la femminista dell’Ottocento

di FRANCOCARDINI (*)

Inabili al servizio militareFra 1862 e 1865 il 40% dei coscrittinon supera la visita di leva perchémisura meno di 156 centimetri

UN’UMANITÀDI EPILETTICI,GOZZUTI, VAIOLOSI:COSÌ SIPRESENTAVAIL NUOVO REGNOAI SUOI ESORDI

QUANDO, nel 1866, esce ilbreve ma intenso saggio «Del-la presente condizione delledonne e del loro avvenire» di-venta presto una sorta di mani-

festo di un movimento femminista antelitteram, che ha in Cristina Trivulzio diBelgioioso non solo la sua autrice, maun vero e proprio simbolo. Nata da unafamiglia agiata, a soli 4 anni Cristinaeredita il cospicuo patrimonio dei Tri-vulzio per la prematura morte di suo pa-dre. Sua madre Vittoria si risposa conAlessandro Visconte d’Aragona, un ari-

stocratico convertito alle idee liberali, tan-to da essere arrestato come cospiratore: unavvenimento che – per sua stessa ammis-sione – condiziona la formazione politicadi Cristina. Andata in sposa a soli 16 an-ni al frivolo e donnaiolo principe Barbia-no di Belgioioso, lo lascia dopo pochi an-ni di matrimonio per iniziare una vita chela porta a girare per l’Europa, soprattuttoParigi, dove ospita diversi rifugiati politi-ci. Tornata in Italia, organizza un batta-glione di volontari per sostenere il governoprovvisorio di Milano. A Roma, invece,

su incarico di Mazzini, dirige gli ospedalimilitari, utilizzando parimenti contesse eprostitute, tanto da attirarsi le ire del pa-pa. Dopo la caduta della Repubblica ro-mana fugge prima in Grecia, poi in Tur-chia. Rientrata in Italia dopo aver subitoun attentato da un esule bergamasco, cer-ca di mettere in pratica le idee di Fourier,creando scuole e una comune agricola.Negli ultimi anni della sua vita si dedicaalla scrittura con opere di ispirazione poli-tica. Quando muore, nel luglio del 1871,Roma è finalmente capitale del Regnod’Italia.

IL RISCHIO DELLE CELEBRAZIONI

E venne l’annodella disunità d’Italia

“Una madre preoccupata”di Gerolamo Induno.A destra, “Il ritorno”, sempredi Induno e un’opera diGiovanni Fattori

di PAOLOSORCINELLI (*)

«L’emigrazione»,di Emilio Franzina;«Gli ufficiali borboni-ci incarcerati alNord», di GabrieleMoroni

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37CULTURA ESOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 9 FEBBRAIO 2011

SIAMO al Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Che in dieci anni, tra1860 e 1870, cambiò tre volte capitale: il che significa senza dubbio qual-cosa. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti del Po, dell’Arno edel Tevere. Nato regno unitario e centralistico, il paese si ritrova oggirepubblica federalista: un punto d’arrivo agli antipodi rispetto alla par-tenza, si direbbe. Il regno era rimato profondamente cattolico, eppurechiuse il papa in Vaticano e ce lo tenne quasi sessant’anni; la repubblicaè “laica”, non ha più religione di stato, eppure i suoi schermi televisivitrasmettono ogni girono l’immagine del pontefice. Siamo davvero finitilà dove né Vittorio Emanuele II, né il Cavour né Garibaldi (per tacer delRosmini e del Cattaneo) avrebbero mai voluti andare.Insomma, che cosa dobbiamo davvero celebrare? L’unità di un paeseche è sull’orlo della secessione? La conquistata sovranità di un paeseche ormai – tra Unione Europa, NATO e istituzioni sovranazionali einternazionali – l’ha perduta da un pezzo? Il “Risorgimento”, laddovenon si è mai capito con precisione che cosa dovesse ri-sorgere (la gran-dezza di Roma? Le libertà comunali del medioevo? Il genio del Rinasci-mento? O che cos’altro?). Meglio sarebbe forse, più che celebrare, com-memorare. Un verbo intenso, quest’ultimo: che significa ricordare insie-me, avere una memoria comune. Ce l’abbiamo? Vogliamo averla? Ciserve ancora?Stretti fra i nostalgici dell’epopea di Solferino e la gente che straccia ebrucia il tricolore, i restanti cittadini di buon senso debbono pur farsidelle domande su che cos’è ch’è andato storto. L’unità ci ha almeno inuna qualche misura disunito; l’Italia fu fatta più o meno fra 1848 e 1918,ma in quei settant’anni non si riuscì a “fare gli italiani”, a compiere unprocesso serio di “nazionalizzazione delle masse”. Ci provammo ancheelaborando una soluzione autoritaria: che addirittura di denominò “to-talitaria”: e va riconosciuto che essa fece fare, sia pur forzosamente, deipassi avanti al sentimento civico; ma il suo fallimento travolse anche

quei risultati e rischiò di affidare lo stesso patriottismo alla dam-natio memoriae. Avevamo conservato fino a ieri i due veri, for-midabili strumenti di costruzione della consapevolezza unita-ria: la leva militare obbligatoria e la scuola pubblica. Negli ulti-mi anni, li abbiamo distrutti entrambi.

SERVE ALLORA a qualcosa ripercorrere, come fa Pino Aprilein Terroni (Piemme), il dramma del fallimento dell’unità, e “tut-to quel che è stato fatto perché gli italiani del sud diventasseromeridionali”? Certo, riflettere su uno “sviluppo interrotto”, sulforzoso “scambio asimmetrico” fra le due Italie, sulla tragediadel “brigantaggio”, dell’emigrazione e della sempre evitata ri-forma agraria e dell’inutile macello del ’15-18 ci fa capire inparte che cosa sia accaduto. Non dico che Aprile abbia ragionein tutto; e certo le nostalgie borboniche (e papaline, e granduca-li) non servono a nulla. Però, a parte il fascino di un libro cheha pagine davvero suggestive, anche il lavoro di Giordano Bru-no Guerri sulla “guerra civile” nel Mezzogiorno sottolinea co-me il comportamento delle truppe piemontesi fu quello di unesercito in un “paese coloniale”; e aggiunge che, a propositodell’arretratezza del governo borbonico, molto di quel che si èdetto propaganda. Vogliamo andar oltre, e osservare che glistessi rilievi di Gilberto Oneto, La strana unità (Il Cerchio) so-no intelligenti e plausibili per quanto presentati in una formache può sembrare quella del pamphlet? E vogliamo infine ag-giungere che un territorio evitato dagli storici d’oggi è quellodella forte, determinante influenza inglese sull’unità italiana?Su tale tema, di autentica primaria importanza, di solito si ta-ce.Ma a proposito di mancata costruzione identitaria, di negata

riforma agraria e pertanto di dramma dell’emigrazione, il discorsonon può portar dritto al momento nel quale si cercò di risolvere que-sti nodi e di appianare queste contraddizioni: al fascismo. E qui ser-virebbe il coraggio di proclamare esplicitamente quella verità cheAntonio Pennacchi ha adombrato in Canale Mussolini (Mondado-ri): se – facciamo la storia come va fatta, cioè con i “se” e con i “ma”– al Duce fosse venuto un bel coccolone il 28 aprile del ’35, diecianni precisi prima della sua tragica vera fine, vale a dire all’indoma-ni della Carta del Lavoro, della Conciliazione, dell’avvio della poli-tica delle “grandi opere” che aveva stupito ed entusiasmatoFranklin D. Roosevelt, della definitiva fondazione dello “stato so-ciale”, della bonifica delle paludi pontine e della conferenza diStresa dov’egli era stato il più energico e lucido nel denunziare ilpericolo-Hitler, oggi forse la storia d’Italia e magari d’Europa sa-rebbe diversa. Magari migliore. E chi pensa che con quest’artico-lo io voglia provocare una rissa, ha perfettamente ragione.(*) Docente di Storia medievale, Università di Firenze

NEL 1815 il vulcano Tambora (attuale In-donesia) oscura i cieli di mezzo mondocon cenere e anidride solforosa. I raccoltimarciscono per due anni di seguito enell’agosto del 1817 in Sicilia cade “neverossa”. Anche l’Italia deve fare i conti conla carestia e con il tifo petecchiale. Ad An-cona colpisce sei abitanti su cento, a Urbi-no cinque, a Perugia soltanto tre. Ma nonsono soltanto i pidocchi a preoccupare loStato Pontificio. Una testimonianza del1829 assicura che su cento abitanti ce nesono trentuno “infetti”, ciechi, erniosi,gozzosi, muti, nani, paralitici, pellagrosi,storpi. A Bologna, nella prima metà del se-colo si contano ventitre annate con patolo-gie diffuse. Fra cui anche il cholera mor-bus, che dal 1834 al 1911 colpisce ripetuta-mente città e regioni, mietendo ovunquevittime. Ma per un quadro più complessi-vo bisognerà attendere i resoconti delle vi-site per la leva obbligatoria. Ad iniziaredal 1861, i ventenni di tutto il neonato Re-gno d’Italia sono scrutati, misurati, pesa-ti. Esce allo scoperto un’umanità di croni-ci, di epilettici, di gozzuti, di vaiolosi, dinon abili per “mancanza di statura”. Pro-prio così: fra il 1862 e il 1865, il 40% deicoscritti non superava i 156 centimetri distaura previsti per servire la patria. E fra il1863 e il 1874, furono più di settemila igiovani non arruolati perché scrofolosi.

ANCHE LE ADOLESCENTI anticipavanoo ritardavano la prima mestruazione a se-conda dei livelli alimentari su cui poteva-no fare affidamento. Calorie e vitamineera termini ancora sconosciuti, ma su una

cosa il sapere medico e la medicina popo-lare concordavano perfettamente. Unabuona alimentazione era determinanteper mantenersi in salute e un toccasanaper guarire dai malanni. Lo dimostra ilfatto che brodo di carne, pane bianco e vi-

no rosso avevano un posto privilegiato alcapezzale di ogni malato. Negli ospedaliper indigenti e cronici, nelle locande sani-tarie per curare la pellagra, nelle coloniemarine per salvaguardare gli adolescentiscrofolosi, nei sanatori per rimettere in se-sto i tisici. La mappa sanitaria della nazio-ne si definirà meglio dopo il colera del1884, quando il Ministero dell’Internolancia una ricognizione “sulle condizioniigienico-sanitarie nei comuni”. Quattroanni più tardi sarà la volta dell’ inchiestaBertani sulle “condizioni sanitarie dei la-voratori della terra”.Intanto, la scoperta del vibrione del cole-ra e del bacillo del tifo porta alla ribalta il

problema delle fognature e degli acque-dotti e la legge Crispi rende obbligatoriala denuncia dei decessi per malattie infet-tive. A quasi trent’anni dall’unificazionesi scopre così che la mortalità per enteri-te, difterite e tifo costituisce la prima cau-sa di morte degli italiani. I più esposti so-no naturalmente i bambini e questa èuna circostanza decisiva per fissare lasperanza di vita a 33 anni. Nel1901, vent’anni dopo, il dato è sa-lito a 41. Grazie ai progressi nel-le infrastrutture sanitarie, maanche al ruolo giocato da medi-ci e levatrici. La loro distribu-zione sul territorio garantisceun presidio medico e un puntodi osservazione privilegiato.

NELLE CAMPAGNE il servizio dicondotta è spesso carente o problemati-co, ma ciò non toglie che l’operato di me-dici e levatrici assuma sul finire del seco-lo una valenza sociale e culturale di gran-de impatto. Come stanno a dimostrare lefigure di Ignazio Guerra, Giuseppe Bada-loni, Tullio Betti, Gastone Gherardi e An-gelo Celli. Fra il 1880 e il 1910, il loro mo-dus operandi, di stampo positivista, è im-prontato quasi sempre su una vicinanzaintellettuale alle idee socialiste e repubbli-cane. Rendendo inevitabile il confronto/scontro col “contadino arricchito”, col“fittaiolo facoltoso”, col “mediocre possi-dente con l’aria da gran signore” che almedico condotto sono disposti a perdona-re tutto. Anche la “negligenza, l’ignoran-za e la rozzezza”, ma non un’ulteriore im-posizione contributiva per “migliorie igie-niche”. Interventi che dal loro punto divista sono soltanto moderne minchione-rie. Una delle tante contraddizioni che se-gnano il passaggio da un’idea d’Italia aun’Italia realizzata.(*) Docente di Storia sociale, Universi-tà di Bologna

LO SQUILLO di Pino Casamassima

Cristina, la femminista dell’Ottocento

di FRANCOCARDINI (*)

Inabili al servizio militareFra 1862 e 1865 il 40% dei coscrittinon supera la visita di leva perchémisura meno di 156 centimetri

UN’UMANITÀDI EPILETTICI,GOZZUTI, VAIOLOSI:COSÌ SIPRESENTAVAIL NUOVO REGNOAI SUOI ESORDI

QUANDO, nel 1866, esce ilbreve ma intenso saggio «Del-la presente condizione delledonne e del loro avvenire» di-venta presto una sorta di mani-

festo di un movimento femminista antelitteram, che ha in Cristina Trivulzio diBelgioioso non solo la sua autrice, maun vero e proprio simbolo. Nata da unafamiglia agiata, a soli 4 anni Cristinaeredita il cospicuo patrimonio dei Tri-vulzio per la prematura morte di suo pa-dre. Sua madre Vittoria si risposa conAlessandro Visconte d’Aragona, un ari-

stocratico convertito alle idee liberali, tan-to da essere arrestato come cospiratore: unavvenimento che – per sua stessa ammis-sione – condiziona la formazione politicadi Cristina. Andata in sposa a soli 16 an-ni al frivolo e donnaiolo principe Barbia-no di Belgioioso, lo lascia dopo pochi an-ni di matrimonio per iniziare una vita chela porta a girare per l’Europa, soprattuttoParigi, dove ospita diversi rifugiati politi-ci. Tornata in Italia, organizza un batta-glione di volontari per sostenere il governoprovvisorio di Milano. A Roma, invece,

su incarico di Mazzini, dirige gli ospedalimilitari, utilizzando parimenti contesse eprostitute, tanto da attirarsi le ire del pa-pa. Dopo la caduta della Repubblica ro-mana fugge prima in Grecia, poi in Tur-chia. Rientrata in Italia dopo aver subitoun attentato da un esule bergamasco, cer-ca di mettere in pratica le idee di Fourier,creando scuole e una comune agricola.Negli ultimi anni della sua vita si dedicaalla scrittura con opere di ispirazione poli-tica. Quando muore, nel luglio del 1871,Roma è finalmente capitale del Regnod’Italia.

IL RISCHIO DELLE CELEBRAZIONI

E venne l’annodella disunità d’Italia

“Una madre preoccupata”di Gerolamo Induno.A destra, “Il ritorno”, sempredi Induno e un’opera diGiovanni Fattori

di PAOLOSORCINELLI (*)

«L’emigrazione»,di Emilio Franzina;«Gli ufficiali borboni-ci incarcerati alNord», di GabrieleMoroni

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32 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 16 FEBBRAIO 2011

di EMILIOFRANZINA

Tito contro «la jena»

LO SQUILLOdi Pino Casamassima

IL CORAGGIO con cui Brescia si distinse in unodegli episodi più epocali del Risorgimento fuimmortalato in un celebre verso di Carducci, che nelle

Odi barbare definì “leonessa d’Italia” la città lombarda.Nel 1848 delle grandi speranze, anche a Brescia si costituìun comitato clandestino: a guidarlo, il ventiduenne TitoSperi e Pietro Boifava, curato di Serle, un piccolo paesedella provincia. Confidando nell’aiuto dei piemontesi, chenon arriverà perché Carlo Alberto era stato sconfitto aNovara, Tito Speri era riuscito a coinvolgere la città in unasommossa contro gli austriaci che durò per dieci giorni.Divenuta teatro di guerra in ogni angolo, Brescia fu piegatasolo dopo dieci giorni di combattimenti, quando arrivò ilfamigerato maresciallo Haynau, soprannominato noncasualmente “la jena”. Nella notte del 1˚ aprile gliaustriaci ebbero finalmente la meglio, piegando gli insorti esaccheggiando la città. I bresciani furono passati per le armiper mesi, fino al 12 agosto, data dell’amnistia voluta daRadetzky. Nel complesso furono 378 i civili uccisi. TitoSperi riuscì a scappare in Svizzera, da dove poi raggiunseTorino. Tornato a Brescia a capo di un nuovo manipolo diinsorti, fu arrestato e tradotto nella fortezza austriaca diBelfiore, nel mantovano, dove fu impiccato all’alba del 5marzo 1853.

«Gli emigranti» di AngeloTommasi (Galleria Nazionale d’ArteModerna, Roma); sopra:bastimento di emigranti inarrivo a New York; nellapagina accanto: soldatiborbonici in una stampadell’800

DI LÀ DAI LUOGHI comuni che accompa-gnano le valutazioni sulla storia del feno-meno migratorio, dalle quali ad esempiorisulta una pressoché esclusiva considera-zione del suo verificarsi nel Sud del paese,all’atto dell’unificazione nazionale il pri-mo censimento del 1861 faceva registrareun numero già impressionante di italianiall’estero. Oltre 200 mila, per la precisio-ne, distribuiti ancora inegualmente fra va-rie parti del mondo e provenienti propriodalle regioni del Nord. Quasi 80 mila era-no, a quella data, i nostri connazionali pre-senti in Francia e circa 30 mila fra Svizze-ra e Germania mentre nelle “lontane Ame-riche”, come si usava dire allora, se ne con-tavano 100 mila, metà dei quali solo negliStati Uniti. In mezzo a loro, sia lì chenell’America ispano-portoghese, si trova-vano senz’altro i protagonisti dell’esilio ri-sorgimentale, a cominciare, s’intende, daGaribaldi (ma lo stesso si potrebbe direper Foscolo, per Mazzini o per molti altripatrioti).La novità degli anni settanta e ottantadell’Ottocento, anni di crisi soprattuttoagricola, fu costituita dal dilagare nelle

campagne settentrionali di una visione ot-timistica delle opportunità offertedall’emigrazione non più solo al di là del-le Alpi, bensì pure oltreoceano. E in parti-colare, con una simmetria che sarebbe sta-ta confermata trent’anni più tardi dallepartenze in massa dal Sud per gli Usa, inpaesi come l’Argentina e il Brasile.Una specie di mito americano ad uso deicontadini si venne formando soprattuttoin area alpina e padana da dove mossero iprimi contingenti messi insieme da reclu-tatori privati – spesso ma non necessaria-mente senza scrupoli – ora al soldo diquei governi ed ora in stretto rapportocon le più intraprendenti compagnie dinavigazione, concentrate specialmente aGenova, il nostro porto per eccellenza epiù alla portata dei liguri, dei piemontesi,dei lombardi, dei veneti e dei friulani perevidenti ragioni geografiche.

LIGURI E GENOVESI, sin dagli anni ventidel secolo XIX, avevano preso a dirigersiverso le regioni platensi e dalla fine delladecade 1830 annoveravano laggiù insedia-menti famosi come quello della Boca delRiachuelo a Buenos Aires.L’emigrazione dal Nord per l’Argentinaprese slancio a far data dal 1873 quandofurono alcuni gruppi trentini (ancora sud-diti austriaci) a inaugurare una nuova sta-gione ben presto caratterizzata dall’azionecongiunta dei richiami americani e dalle

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33CULTURA &SOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 16 FEBBRAIO 2011

di GABRIELEMORONI

CAPUA, il Volturno, il Macerone, ilGarigliano, Mola. L’assedio e la cadu-ta di Gaeta. Ultimi sussulti delle DueSicilie, di Francesco II, giovane, mitis-simo, pio re borbonico, e di Maria So-fia, energica, volitiva regina, salita su-gli spalti in difesa di quell’ultimo lem-bo di regno. Il 13 febbraio 1861 la for-tezza di Gaeta capitola dopo centogiorni di fronte all’armata del genera-le Enrico Cialdini. I prigionieri am-montano a 1700 ufficiali e 24mila sol-dati. Delegato a occuparsi del loro fu-turo e, per un destino curioso, anchedei volontari garibaldini, è il ministe-ro della Guerra. Viene delegato il co-lonnello torinese Giovanni Thaon deRevel.L’ufficiale si trova preso fra due fuo-chi: da una parte i militari del disciol-to esercito rimangono sostanzialmen-te fedeli alla candida bandiera col gi-glio in oro dei Borboni; dall’altra il go-verno di Torino, per quanto sospetto-so di quei soldati, preme per recupera-re più truppa possibile. Nell’esercitofinalmente italiano vengono ammessialla fine 2311 ex ufficiali, 927 dei qua-li assegnati alla forza attiva. Diversi icriteri seguiti per i soldati semplici.In attesa della chiamata di leva sonorispediti a casa. Per quelli che non san-no dove andare viene creata una com-pagnia di veterani inviata al Nord concompiti di sorveglianza agli uffici mi-litari. La sorte peggiore tocca a chi, re-stio a proseguire la ferma militare nelnuovo regno, è inviato in prigionianei campi del Nord.

VENGONO APERTI campi di prigio-nia temporanea a Torino, Genova, Mi-lano, Bergamo, Brescia, Rimini. Nelnovembre del 1860 Cavour invia il ge-nerale Alfonso La Marmora a ispezio-nare la Cittadella di Milano (il castel-lo). Il rapporto del generale è datato18 novembre: «I prigionieri napoleta-ni dimostrano un pessimo spirito. Di1600 che si trovano a Milano non arri-veranno a 100 quelli che acconsento-no a prendere servizi. Sono tutti co-perti di rogna e di vermina, moltissi-mi affetti da mal d’occhi e da mali ve-nerei [...]dimostrano avversione aprendere da noi servizio». La riflessio-ne di Cavour è un singolare miscugliodi realismo politico e disprezzo, miti-gato da venature umanitarie: «Il trat-tare tanta parte del popolo come pri-gionieri non è mezzo di concilia-re al nuovo regime le popolazio-ni del Regno. Il pensare di tra-sformarli in soldatidell’Esercito nazionale èimpossibile e inopportu-no».Alla chiamata per gli ar-ruolamenti nei quattrocontingenti piemontesirispondono solo in5400 su oltre 20milaprigionieri. Gli altrivengono trattenuti aMilano, Genova, To-

rino, oppure avviati alla durissima pri-gionia nel forte di San Maurizio Cana-vese e nella fortezza di Fenestrelle.Scrive la “Civiltà cattolica”: «Per vin-cere la resistenza dei prigionieri diguerra, già trasportati in Piemonte ein Lombardia, si ebbe ricorso ad unospediente crudele e disumano, che fafremere. Quei meschinelli, appena co-perti da cenci di tela, e rifiniti di fameperché tenuti a mezza razione con cat-tivo pane e acqua e una sozza broda,furono fatti scortare nelle gelide case-matte di Fenestrelle e di altri luoghinei più aspri siti delle Alpi. Uomininati e cresciuti in clima sì caldo e dol-ce, come quello delle Due Sicilie, ecco-li gittati a spasimar di freddo e di sten-to tra le ghiacciaie».

FENESTRELLE, nome vezzoso per ilforte innalzato nel 1713 da VittorioAmedeo, duca di Savoia. La più este-sa costruzione in muratura dopo laMuraglia cinese, una sorta di LineaMaginot arrampicata su un’area im-pervia tra i 1200 e i 1800 metri di altez-za, un insieme di fortificazioni colle-gate fra di loro da una scala di 3996gradini. Destinata ad essere opera didifesa, non tarda a trasformarsi in pri-gione. Il 22 agosto del 1861 i mille sol-dati borbonici detenuti a Fenestrelle

tentano una rivolta, subito repressa.Molti, fra quelli che accettano di in-dossare la nuova divisa, disertano perarruolarsi nelle bande di briganti o ri-parare nello Stato Pontificio. Si muo-re e per ragioni igieniche i corpi ven-gono sciolti nella calce viva, all’inter-no di una grande vasca. I registri par-rocchiali non annotano tutti i nomi,si fermano a cinquantuno.Abbandonato dopo la metà degli anni’40, il forte-prigione torna a vivereuna ventina di anni fa grazie a ungruppo di volontari. Nessuno ha can-cellato la scritta all’ingresso: «Ognu-no vale non in quanto è ma in quantoproduce».

ALLA NASCITA DEL REGNOERANO 200MILA GLI ITALIANIEMIGRATI. LA METÀ «NELLELONTANE AMERICHE». POIFU UN FIUME INARRESTABILE

IN MIGLIAIA SI RIFIUTARONO DI PASSARE CON I SAVOIA

Fenestrelle, il ‘lager’per soldati borbonici

«I volontari»,di AlbertoMalfitano;«Le ferroviedell’Unità»di Andrea Giuntini

Prigionieri del Nord«Gittati a spasimar di freddoe di stento tra le ghiacciaie»Il disprezzo di Cavour

agevolazioni nei costi del trasporto. Giànel 1876, tuttavia, allorché ebbe inizio perla prima volta in Italia il rilevamento uffi-ciale degli esodi sia temporanei che “per-manenti”, la situazione migratoria appari-va chiaramente delineata: settentrionali inrotta per il Sudamerica e via via meridiona-li diretti in prevalenza negli Stati Uniti.

NEL PRIMO CASO, e per alcuni decenni,alla ricerca plausibile di terra libera, nel se-condo – essendosi esaurita, assieme all’epo-pea della frontiera, appunto la disponibili-tà di terra in Usa – a caccia di lavori nellecittà della costa atlantica. Ciò non toglieche anche in Brasile e in Argentina, e se-gnatamente in città quali San Paolo e Por-to Alegre o come Buenos Aires e Rosario,le strade degli “italiani del nord” e degli

“italiani del sud” - per usare una etichettain uso presso i rilevatori statistici america-ni - si mescolarono ben presto affrettando,lontano dall’Italia, i tempi di un’accultura-zione nazionale poi colpevolmente (danoi) dimenticata.

I VARI RAPPORTI consolari e le successi-ve inchieste della Direzione Centrale diStatistica ne diedero subito indiretta con-ferma anche se non potevano offrire quelleefficaci descrizioni che la stampa coeva,ma ben presto anche le lettere degli emi-grati o le narrative di alcuni scrittori (DeAmicis su tutti) sapevano già somministra-re. Il lato avventuroso o romanzesco ap-punto di tante vicende individuali e digruppo, come quella, per fare un unicoesempio, dei contadini di Novi e di Con-cordia in provincia di Modena, che nel1876 raggiunsero in modo rocambolesco ilBrasile chiamativi da una nobildonna lorocompaesana amica dell’Imperatore DomPedro II e fissatisi poi nella Valle del Parai-ba, emerge ancora vivida nelle parole delmaestro elementare Enrico Secchi il qualeli accompagnò nel viaggio e se ne fece cro-nista nel suo diario, quarant’anni più tar-di, quando era ormai diventato, a San Pao-lo, uno dei maggiorenti della “colonia ita-liana” di quella metropoli che allora conta-va quasi 200 mila italiani pari al 37% dellasua popolazione complessiva.

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36 CULTURA ESOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 23 FEBBRAIO 2011

di ALBERTOMALFITANO (*)

LIBERTÀ, democrazia, lotta contro lo stra-niero e desiderio di chiamarsi nazione.Nel pieno dell’Ottocento, tra età romanti-ca e suggestioni rivoluzionarie provenien-ti da quella fucina di moti popolari che fuParigi, queste furono le parole d’ordine e isentimenti che animarono tanti italiani.Il Risorgimento, i cui semi ideali eranostati piantati proprio dalle baionette fran-cesi scese al seguito di Napoleone, li videgermogliare, coinvolgendo migliaia di gio-vani che seppero lottare per i valori unita-ri. Ragazzi delle nostre città, allora ancorain buona parte racchiuse dentro antichemura, che furono la vera anima di quelmovimento e sposarono con entusiasmo

il sogno di rinascita di una nazione italia-na.In uomini come Mazzini e Garibaldi, an-ch’essi giovanissimi quando cominciaro-no a lottare, trovarono le proprie guide. Ilprimo era appena ventiseienne quandofondò la Giovine Italia, che nel nome rac-chiudeva quell’ansia di rinnovamentoche avrebbe poi animato generazioni dipatrioti; il secondo era già un ‘guerrillero’conosciuto per le sue battaglie di libertàin America del sud, quando nel 1848 tor-nò in Italia a combattere contro gli austria-ci nella I guerra d’indipendenza, e per ladifesa della Repubblica romana l’anno se-guente. È in quella fase che il volontari-smo ebbe uno dei suoi momenti più epici.

I VOLONTARI erano già accorsi negli anniprecedenti a difendere con le armi la cau-sa in cui credevano, che fosse l’unità o larichiesta della costituzione, ad esempio fa-cendosi travolgere a Vicenza nel 1848 dal-la formidabile macchina bellica asburgi-ca, o segnando a Curtatone e Montanarauna delle pagine più eroiche dell’intera

epopea unitaria.Ma è nel 1849, agli or-dini di Garibaldi, chel’esercito di volontariaccorso a difendereRoma mette in cam-po una formidabilequanto disperata prova militare resistendoa lungo all’assalto di un altro degli esercitipiù potenti d’Europa, quello francese.Il comandante del corpo di spedizionetransalpino, il generale Oudinot, rimastofamoso per la frase “les italiens ne se bat-tent pas”, fu smentito sul campo, al puntodi dover richiedere rinforzi a Parigi peravere ragione dei difensori di Roma, tracui il giovanissimo Goffredo Mameli. E’un decisivo tassello della biografia di Gari-baldi, il leader ormai riconosciuto del vo-lontarismo italiano, che lo vedrà trasforma-to in mito vivente, e che ne farà il punto diriferimento obbligato per tutti i giovanisensibili verso la lotta per la patria.La Lombardia, e in special modo Berga-mo, fornirà un contingente numerosissi-mo alla spedizione dei Mille, nel 1860. InRomagna, Garibaldi troverà un terreno as-sai fertile per i suoi periodici richiami allearmi, anche grazie al ricordo della ‘trafila’,la fuga dagli austriaci dopo la caduta di Ro-ma.

OGNI QUALVOLTA ci sarà da lottare percompletare l’unificazione i romagnoli ac-correranno da ogni borgo. Un esempio pertutti: dalla sola Forlì, che contava alloracirca quindicimila abitanti, partiranno,nell’autunno del 1867, 167 giovani alla vol-ta di Roma e quattro di loro troveranno lamorte, a Mentana, per mano dei fucili fran-cesi, nuovamente inviati a proteggere il po-tere temporale di Pio IX a quasi vent’annidalla caduta della Repubblica romana.Il fenomeno del volontarismo fu insommamolto ampio e, sebbene circoscritto alle re-

altà urbane, in particolare del centro e delnord, coinvolse per anni migliaia di ragaz-zi pronti ad abbandonare famiglia, studioo lavoro, per seguire un’avventura, in cer-ca di gloria ma anche di una società miglio-re di quella ereditata dai padri.

FU UN FENOMENO irripetibile, legato al-la cultura romantica, che con il regno uni-tario e soprattutto con l’avanzare dei fanta-smi nazionalistici, troveranno sempre mi-nore spazio per esprimersi. E’ un filoneche si esaurirà nelle tragedie collettive delNovecento, come la Grande Guerra, perperdersi nell’atmosfera torva della dittatu-ra fascista, fino a rinascere nel secondo Ri-sorgimento, quello resistenziale.Se, dunque, qualche insegnamento ci è sta-to lasciato dalla tradizione del volontari-smo, va forse ricercato nell’entusiasmocon cui tanti giovani hanno messo in gio-co la propria vita per una società che vole-vano rinnovare nel senso della giustizia edella fraternità e di cui l’Italia di oggi nonpuò che esser loro fortemente debitrice.* Ricercatore di Storia contemporanea, Univer-sità di Bologna

di ANDREAGIUNTINI (*)

La Nicchiadi Cavour

A BORDO occorreva fare attenzione aivicini molesti, così come al rischio diperdere il cappello a causa del vento.Consigli del padre di Pinocchio, Car-lo Lorenzini, che nel 1856 pubblicavaa beneficio del lettore digiuno di coseferroviarie un’amena guida del viag-giatore sulla Firenze-Livorno (“Unromanzo in vapore. Da Firenze a Li-vorno. Guida Storico-Umoristica” diCarlo Lorenzini), una delle prime li-nee dell’Italia preunitaria.Le ferrovie furono anche in Italia ilpiù grande affare economico del XIXsecolo e il loro impatto complessivofu di straordinaria intensità. La mag-gior versatilità, l’incomparabile velo-cità e la regolarità misero le ferroviein una condizione di netta superioritàrispetto a qualsiasi altro mezzo di tra-sporto. Pochi oggetti sono in grado didescrivere visivamente meglio delle

ferrovie l’Ottocento e l’idea stessa diprogresso. Vapore, ferro, carbone e ilgenio dell’uomo che spinge semprepiù avanti i confini del sapere tecni-co: tutto questo trova nelle ferrovie lasintesi ideale e da allora le ferrovie oc-cupano uno spazio ben definitonell’immaginario collettivo della mag-gior parte della popolazione del piane-ta.

A PARTIRE dalla fine degli anni Ven-ti, si sviluppò anche sulla penisola unfervido dibattito sull’introduzionedelle strade ferrate, la cui costruzionee gestione venne lasciata in gran partealla mano privata, non senza una pre-senza spesso decisiva di quella pubbli-ca in un’anomala commistione che so-pravvisse fino alla nazionalizzazionedel 1905. Spinti da motivazioni diver-se e orientati verso obiettivi spesso di-vergenti – natura commerciale, desi-derio di prestigio o patente di moder-nità - i governanti italiani, la borghe-sia più aperta e una nuova leva di tec-nici si accostarono al problema ferro-viario.Mancavano la tecnologia, importataquasi interamente dalla Gran Breta-gna, i capitali, anch’essi raccolti ingran parte presso le principali case fi-nanziarie europee, e lo spirito impren-ditoriale, che lentamente maturò an-che presso gli italiani. Più concreti econsapevoli furono piemontesi e to-scani; l’unico politico italiano in gra-do di disegnare in modo lungimiran-

te una rete ferroviaria già italiana fuCavour, che verso la metà degli anniQuaranta, indovinando il destino uni-tario del paese, affidava alle ferrovieun ruolo cruciale rispetto al processodi unificazione politica ed economi-ca. Assai meno amichevolmente ven-nero accolte le prime proposte ferro-viarie nello Stato della Chiesa, dove ilpapa Gregorio XVI negò loro ospitali-tà.All’esordio precoce nel 1839 con la fa-mosa Napoli-Portici, lungo la qualefurono realizzate le officine di Pietrar-sa, seguirono nel giro di qualche annonumerose altre realizzazioni: al mo-mento della nascita del nuovo Regno,la dotazione complessiva - 1.625 km. -si componeva di sub sistemi regionaliscollegati fra loro e sostanzialmentenon comunicanti.

BISOGNAVA ricucire la tela, cosa cheil nuovo Stato fece dopo il 1861, affa-stellando linee su linee con l’obiettivosoprattutto di unire il nord del paesecon il sud, ancora sprovvisto dellanuova infrastruttura, e affidando alleferrovie il compito di favorire l’inte-grazione fra le varie economie regio-nali.I risultati, fra luci ed ombre, furonoquantitativamente apprezzabili: nel1866 la rete assommava ad oltre 4.000km., ma rispondeva solo parzialmen-te a logiche coerenti, piuttosto ad ungenerico bisogno di modernizzazio-ne, ed era ancora poco sfruttata per iltrasporto delle merci. Fu per questoche si portò dietro errori che il paesein certi casi non ha ancora finito discontare.La salita al potere della Sinistra nel1876 segnava il secondo boom ferro-viario: in quindici anni, dal 1881 al

1895, si costruirono 6.500 km. di fer-rovie per la gran parte secondarie diintegrazione della rete principale.Le linee più impegnative furono quel-le di montagna – dai Giovi (1855) allaPorrettana (1864), dal Brennero(1867) al Fréjus (1872), dal Gottardo(1882) al Sempione (1905) – che rap-presentarono un banco di prova pergenerazioni di ingegneri.Con la nazionalizzazione del 1905,giunta al termine di un confrontoaspro dai toni spesso sopra le righe eprolungato nel tempo, si chiudeva ilsiglo de oro delle ferrovie; un nuovoconcorrente, il motore, avrebbe con-notato il mondo dei trasporti nel nuo-vo secolo.* Docente di Storia economica, Universi-tà di Modena e Reggio Emilia

LO SQUILLOdi Pino Casamassima

NICCHIA. Così la chiamavano dapiccola, per quella sua abitudine dirinchiudersi in se stessa come una

conchiglia a proteggere i suoi tesori: il suo eraquello della bellezza. Una bellezza che lei sa-pientemente utilizzava per ottenere quel chevoleva. Virginia Oldoini Verasis nacque a Fi-renze nel 1837 e all’età di 16 anni sposò il con-te di Castiglione – più vecchio di 12 anni –che, al contrario di lei, l’amava alla follia.Dopo il matrimonio, la coppia si trasferì inPiemonte, vivendo per lo più a Torino, dovenacque il figlio Giorgio. Ma lei, cresciuta ne-gli agi e nei privilegi, oltre che nella consapevo-lezza di una bellezza che fece girare la testaanche al re, non poteva restare imbrigliata inuna noiosa vita familiare: le sue frequentazio-ni a corte divennero così sempre più frequentie in una di queste occasioni venne avvicinatada Cavour.Il “tessitore” del Regno d’Italia, pur non di-sprezzando le grazie femminili, pensò di utiliz-zare politicamente anche la travolgente bellez-za di Virginia, inviandola come ambasciatri-ce a Parigi col compito di “conquistare” Napo-leone III alla causa italiana. Compito svoltoalla perfezione, tanto che Camillo Benso fu in-vitato a partecipare al Trattato di pace succes-sivo alla guerra di Crimea, dove potè parlaredavanti a una platea internazionale. La bel-lezza e la vita irrequieta di Virginia rubaronole notti a molti suoi contemporanei. Morì aParigi alle soglie di quel 900 che avrebbe «tan-to voluto salutare»: il 28 novembre 1899.

IL FASCINO DI GARIBALDIE DI MAZZINI MOBILITÒMIGLIAIA DI VOLONTARIIL RISORGIMENTO DIVENTÒLA LORO RAGIONE DI VITA

FERROVIE, UN’ARMA DECISIVA PER IL PAESE NUOVO

L’Italia salì in trenoper sentirsi più unita

«L’opera lirica eil Risorgimento»di Enrico Gatta;«L’Unità d’Italiavista dal cinema»di Silvio Danese

La velocità del progressoLo sviluppo delle strade ferratenei piani di Cavour. Piemontesie toscani i più lungimiranti

“La partenza deicoscritti“ diGerolamo Induno(“1861. I pittori delRisorgimento” - pergentile concessione diSkira editore); a fianco:inaugurazione dellaferroviaNapoli-Portici(stampa dell’epoca);sotto a destra: l’attesadel treno in unastampadell’Ottocento

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37CULTURA ESOCIETA’IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 23 FEBBRAIO 2011

di ALBERTOMALFITANO (*)

LIBERTÀ, democrazia, lotta contro lo stra-niero e desiderio di chiamarsi nazione.Nel pieno dell’Ottocento, tra età romanti-ca e suggestioni rivoluzionarie provenien-ti da quella fucina di moti popolari che fuParigi, queste furono le parole d’ordine e isentimenti che animarono tanti italiani.Il Risorgimento, i cui semi ideali eranostati piantati proprio dalle baionette fran-cesi scese al seguito di Napoleone, li videgermogliare, coinvolgendo migliaia di gio-vani che seppero lottare per i valori unita-ri. Ragazzi delle nostre città, allora ancorain buona parte racchiuse dentro antichemura, che furono la vera anima di quelmovimento e sposarono con entusiasmo

il sogno di rinascita di una nazione italia-na.In uomini come Mazzini e Garibaldi, an-ch’essi giovanissimi quando cominciaro-no a lottare, trovarono le proprie guide. Ilprimo era appena ventiseienne quandofondò la Giovine Italia, che nel nome rac-chiudeva quell’ansia di rinnovamentoche avrebbe poi animato generazioni dipatrioti; il secondo era già un ‘guerrillero’conosciuto per le sue battaglie di libertàin America del sud, quando nel 1848 tor-nò in Italia a combattere contro gli austria-ci nella I guerra d’indipendenza, e per ladifesa della Repubblica romana l’anno se-guente. È in quella fase che il volontari-smo ebbe uno dei suoi momenti più epici.

I VOLONTARI erano già accorsi negli anniprecedenti a difendere con le armi la cau-sa in cui credevano, che fosse l’unità o larichiesta della costituzione, ad esempio fa-cendosi travolgere a Vicenza nel 1848 dal-la formidabile macchina bellica asburgi-ca, o segnando a Curtatone e Montanarauna delle pagine più eroiche dell’intera

epopea unitaria.Ma è nel 1849, agli or-dini di Garibaldi, chel’esercito di volontariaccorso a difendereRoma mette in cam-po una formidabilequanto disperata prova militare resistendoa lungo all’assalto di un altro degli esercitipiù potenti d’Europa, quello francese.Il comandante del corpo di spedizionetransalpino, il generale Oudinot, rimastofamoso per la frase “les italiens ne se bat-tent pas”, fu smentito sul campo, al puntodi dover richiedere rinforzi a Parigi peravere ragione dei difensori di Roma, tracui il giovanissimo Goffredo Mameli. E’un decisivo tassello della biografia di Gari-baldi, il leader ormai riconosciuto del vo-lontarismo italiano, che lo vedrà trasforma-to in mito vivente, e che ne farà il punto diriferimento obbligato per tutti i giovanisensibili verso la lotta per la patria.La Lombardia, e in special modo Berga-mo, fornirà un contingente numerosissi-mo alla spedizione dei Mille, nel 1860. InRomagna, Garibaldi troverà un terreno as-sai fertile per i suoi periodici richiami allearmi, anche grazie al ricordo della ‘trafila’,la fuga dagli austriaci dopo la caduta di Ro-ma.

OGNI QUALVOLTA ci sarà da lottare percompletare l’unificazione i romagnoli ac-correranno da ogni borgo. Un esempio pertutti: dalla sola Forlì, che contava alloracirca quindicimila abitanti, partiranno,nell’autunno del 1867, 167 giovani alla vol-ta di Roma e quattro di loro troveranno lamorte, a Mentana, per mano dei fucili fran-cesi, nuovamente inviati a proteggere il po-tere temporale di Pio IX a quasi vent’annidalla caduta della Repubblica romana.Il fenomeno del volontarismo fu insommamolto ampio e, sebbene circoscritto alle re-

altà urbane, in particolare del centro e delnord, coinvolse per anni migliaia di ragaz-zi pronti ad abbandonare famiglia, studioo lavoro, per seguire un’avventura, in cer-ca di gloria ma anche di una società miglio-re di quella ereditata dai padri.

FU UN FENOMENO irripetibile, legato al-la cultura romantica, che con il regno uni-tario e soprattutto con l’avanzare dei fanta-smi nazionalistici, troveranno sempre mi-nore spazio per esprimersi. E’ un filoneche si esaurirà nelle tragedie collettive delNovecento, come la Grande Guerra, perperdersi nell’atmosfera torva della dittatu-ra fascista, fino a rinascere nel secondo Ri-sorgimento, quello resistenziale.Se, dunque, qualche insegnamento ci è sta-to lasciato dalla tradizione del volontari-smo, va forse ricercato nell’entusiasmocon cui tanti giovani hanno messo in gio-co la propria vita per una società che vole-vano rinnovare nel senso della giustizia edella fraternità e di cui l’Italia di oggi nonpuò che esser loro fortemente debitrice.* Ricercatore di Storia contemporanea, Univer-sità di Bologna

di ANDREAGIUNTINI (*)

La Nicchiadi Cavour

A BORDO occorreva fare attenzione aivicini molesti, così come al rischio diperdere il cappello a causa del vento.Consigli del padre di Pinocchio, Car-lo Lorenzini, che nel 1856 pubblicavaa beneficio del lettore digiuno di coseferroviarie un’amena guida del viag-giatore sulla Firenze-Livorno (“Unromanzo in vapore. Da Firenze a Li-vorno. Guida Storico-Umoristica” diCarlo Lorenzini), una delle prime li-nee dell’Italia preunitaria.Le ferrovie furono anche in Italia ilpiù grande affare economico del XIXsecolo e il loro impatto complessivofu di straordinaria intensità. La mag-gior versatilità, l’incomparabile velo-cità e la regolarità misero le ferroviein una condizione di netta superioritàrispetto a qualsiasi altro mezzo di tra-sporto. Pochi oggetti sono in grado didescrivere visivamente meglio delle

ferrovie l’Ottocento e l’idea stessa diprogresso. Vapore, ferro, carbone e ilgenio dell’uomo che spinge semprepiù avanti i confini del sapere tecni-co: tutto questo trova nelle ferrovie lasintesi ideale e da allora le ferrovie oc-cupano uno spazio ben definitonell’immaginario collettivo della mag-gior parte della popolazione del piane-ta.

A PARTIRE dalla fine degli anni Ven-ti, si sviluppò anche sulla penisola unfervido dibattito sull’introduzionedelle strade ferrate, la cui costruzionee gestione venne lasciata in gran partealla mano privata, non senza una pre-senza spesso decisiva di quella pubbli-ca in un’anomala commistione che so-pravvisse fino alla nazionalizzazionedel 1905. Spinti da motivazioni diver-se e orientati verso obiettivi spesso di-vergenti – natura commerciale, desi-derio di prestigio o patente di moder-nità - i governanti italiani, la borghe-sia più aperta e una nuova leva di tec-nici si accostarono al problema ferro-viario.Mancavano la tecnologia, importataquasi interamente dalla Gran Breta-gna, i capitali, anch’essi raccolti ingran parte presso le principali case fi-nanziarie europee, e lo spirito impren-ditoriale, che lentamente maturò an-che presso gli italiani. Più concreti econsapevoli furono piemontesi e to-scani; l’unico politico italiano in gra-do di disegnare in modo lungimiran-

te una rete ferroviaria già italiana fuCavour, che verso la metà degli anniQuaranta, indovinando il destino uni-tario del paese, affidava alle ferrovieun ruolo cruciale rispetto al processodi unificazione politica ed economi-ca. Assai meno amichevolmente ven-nero accolte le prime proposte ferro-viarie nello Stato della Chiesa, dove ilpapa Gregorio XVI negò loro ospitali-tà.All’esordio precoce nel 1839 con la fa-mosa Napoli-Portici, lungo la qualefurono realizzate le officine di Pietrar-sa, seguirono nel giro di qualche annonumerose altre realizzazioni: al mo-mento della nascita del nuovo Regno,la dotazione complessiva - 1.625 km. -si componeva di sub sistemi regionaliscollegati fra loro e sostanzialmentenon comunicanti.

BISOGNAVA ricucire la tela, cosa cheil nuovo Stato fece dopo il 1861, affa-stellando linee su linee con l’obiettivosoprattutto di unire il nord del paesecon il sud, ancora sprovvisto dellanuova infrastruttura, e affidando alleferrovie il compito di favorire l’inte-grazione fra le varie economie regio-nali.I risultati, fra luci ed ombre, furonoquantitativamente apprezzabili: nel1866 la rete assommava ad oltre 4.000km., ma rispondeva solo parzialmen-te a logiche coerenti, piuttosto ad ungenerico bisogno di modernizzazio-ne, ed era ancora poco sfruttata per iltrasporto delle merci. Fu per questoche si portò dietro errori che il paesein certi casi non ha ancora finito discontare.La salita al potere della Sinistra nel1876 segnava il secondo boom ferro-viario: in quindici anni, dal 1881 al

1895, si costruirono 6.500 km. di fer-rovie per la gran parte secondarie diintegrazione della rete principale.Le linee più impegnative furono quel-le di montagna – dai Giovi (1855) allaPorrettana (1864), dal Brennero(1867) al Fréjus (1872), dal Gottardo(1882) al Sempione (1905) – che rap-presentarono un banco di prova pergenerazioni di ingegneri.Con la nazionalizzazione del 1905,giunta al termine di un confrontoaspro dai toni spesso sopra le righe eprolungato nel tempo, si chiudeva ilsiglo de oro delle ferrovie; un nuovoconcorrente, il motore, avrebbe con-notato il mondo dei trasporti nel nuo-vo secolo.* Docente di Storia economica, Universi-tà di Modena e Reggio Emilia

LO SQUILLOdi Pino Casamassima

NICCHIA. Così la chiamavano dapiccola, per quella sua abitudine dirinchiudersi in se stessa come una

conchiglia a proteggere i suoi tesori: il suo eraquello della bellezza. Una bellezza che lei sa-pientemente utilizzava per ottenere quel chevoleva. Virginia Oldoini Verasis nacque a Fi-renze nel 1837 e all’età di 16 anni sposò il con-te di Castiglione – più vecchio di 12 anni –che, al contrario di lei, l’amava alla follia.Dopo il matrimonio, la coppia si trasferì inPiemonte, vivendo per lo più a Torino, dovenacque il figlio Giorgio. Ma lei, cresciuta ne-gli agi e nei privilegi, oltre che nella consapevo-lezza di una bellezza che fece girare la testaanche al re, non poteva restare imbrigliata inuna noiosa vita familiare: le sue frequentazio-ni a corte divennero così sempre più frequentie in una di queste occasioni venne avvicinatada Cavour.Il “tessitore” del Regno d’Italia, pur non di-sprezzando le grazie femminili, pensò di utiliz-zare politicamente anche la travolgente bellez-za di Virginia, inviandola come ambasciatri-ce a Parigi col compito di “conquistare” Napo-leone III alla causa italiana. Compito svoltoalla perfezione, tanto che Camillo Benso fu in-vitato a partecipare al Trattato di pace succes-sivo alla guerra di Crimea, dove potè parlaredavanti a una platea internazionale. La bel-lezza e la vita irrequieta di Virginia rubaronole notti a molti suoi contemporanei. Morì aParigi alle soglie di quel 900 che avrebbe «tan-to voluto salutare»: il 28 novembre 1899.

IL FASCINO DI GARIBALDIE DI MAZZINI MOBILITÒMIGLIAIA DI VOLONTARIIL RISORGIMENTO DIVENTÒLA LORO RAGIONE DI VITA

FERROVIE, UN’ARMA DECISIVA PER IL PAESE NUOVO

L’Italia salì in trenoper sentirsi più unita

«L’opera lirica eil Risorgimento»di Enrico Gatta;«L’Unità d’Italiavista dal cinema»di Silvio Danese

La velocità del progressoLo sviluppo delle strade ferratenei piani di Cavour. Piemontesie toscani i più lungimiranti

“La partenza deicoscritti“ diGerolamo Induno(“1861. I pittori delRisorgimento” - pergentile concessione diSkira editore); a fianco:inaugurazione dellaferroviaNapoli-Portici(stampa dell’epoca);sotto a destra: l’attesadel treno in unastampadell’Ottocento

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il caffè 42 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 2 MARZO 2011

di ENRICOGATTA

Jacopo Ruffinisuicidato in cella

LO SQUILLOdi Pino Casamassima

LA MATTINA del 19 giugno 1833, a 3 giornidal suo ventottesimo compleanno, lo trovaro-no con la gola tagliata nella cella in cui erastato rinchiuso un mese prima: un suicidio,quello di Jacopo Ruffini, poco convincente.Come Giuseppe Mazzini, Ruffini era nato aGenova il 22 giugno 1805 da una famigliaborghese, e dopo aver frequentato come prati-cante uno studio notarile, grazie a suo padrefu impiegato presso il Tribunale di Prefettura,arrivando ad assumere l’incarico di vice presi-dente. Tuttavia, sentendosi imbrigliato in unavita noiosa, si iscrisse alla facoltà di medicina,laureandosi nel 1830 sotto la guida di Giaco-mo Mazzini, padre di Giuseppe. Con suo fra-tello Giovanni cominciò a frequentare casaMazzini, intavolando una serie di discussionipolitiche con l’amico Giuseppe: poco dopo idue fratelli Ruffini si associarono alla Carbo-neria. Da questo momento l’attività cospirati-va di Jacopo Ruffini si sviluppò lungo l’assecon la Francia, mentre lavorava come assi-stente all’ospedale di Pammatone. Arrestatoforse su delazione di due furieri di fanteria, futorturato per un mese nell’intento di estorcerglii nomi degli altri cospiratori. Destinato all’im-piccagione, Jacopo Ruffini fu forse ucciso pertimore che la sua esecuzione provocasse disor-dini in città in un momento in cui era appenastato sedato uno dei moto insurrezionali orga-nizzati dalla Giovine Italia di Mazzini.

IL MELODRAMMA‘COLONNA SONORA’ DELRISORGIMENTO. E VERDIDIVENNE UN MITO

LA PRIMA donna era giù di voce. Eall’allestimento erano stati destina-ti solo resti di magazzino. Alla Sca-la, i primi di marzo del 1842, pochiavrebbero scommesso sul buon esi-to del «Nabucodonosor» di Giusep-pe Verdi, oltretutto reduce da un‘fiasco’ di quelli dai quali difficil-mente ci si risolleva... E invece il«Nabucco» - così il titolo sarebbestato semplificato - fu molto più diun trionfo: la vicenda degli Ebreiprigionieri a Babilonia, e dunquela storia di un popolo oppresso, equel coro dolcissimo e potente,“Va’ pensiero sull’ali dorate”, esal-tarono l’amor patrio degli italiani.

COMINCIÒ allora il Risorgimentoin musica? No. Già da molto tem-po, fin dall’Ancien Régime, il melo-dramma interpretava i sentimentidelle masse, portando loro messag-gi artistici, poetici e anche politici.Tra la fine del Settecento e la metàdell’Ottocento in Italia il numerodei teatri crebbe a dismisura. «Nonsi ha città alcuna, per picciola chesia, la quale non ami possedere unteatro», scriveva nel 1830 il Ferra-rio nel suo trattato di architettura

teatrale. Nel 1868, nel primo censi-mento postunitario – come ha rico-struito la storica Carlotta Sorba – lesale teatrali, grandi o minuscole,erano ben 942 in 650 comuni: circa400 nel Regno di Sardegna, nelLombardo-Veneto e nei Ducati pa-dani; 357 in Toscana e nel CentroItalia escluso il Lazio; 169 nel Re-gno delle due Sicilie.

IN QUESTA ITALIA dei teatri sof-fiò presto il vento del Risorgimen-to. Nel 1813, nell’«Italiana in Alge-ri» di Rossini, mentre nell’orche-stra un violino accenna ironica-mente alla “Marsigliese”, il coro de-gli schiavi inneggia alla patria:«Pronti abbiamo e ferri e mani / perfuggir con voi di qua.../ Quanto va-glian gl’Italiani / al cimento si vedrà!»E all’amato Lindoro la protagoni-sta Isabella raccomanda: «Pensa al-la patria, e intrepido / il tuo doveradempi: / vedi per tutta Italia / rinasce-re gli esempi / d’ardire e di valor».Rossini non fu un modello fulgidodi patriota. Scrisse sì quel grandio-so monumento alla libertà che è il«Guillaume Tell», ma fu buon ami-co del Principe di Metternich e fug-gì terrorizzato da Bologna non ap-pena scoppiarono i moti del ‘48.Quanto a un’altra star del melo-dramma, Gaetano Donizetti, solodi recente la storia lo ha liberato dasospetti di ambiguità. NominatoMaestro di Cappella di Sua MaestàApostolica l’Imperatore d’Austria,

il compositore si atteggiava a impo-litico: «Io sono uomo – scriveva alpadre – che di poche cose s’inquie-ta, anzi di una sola, cioè se l’operamia va male. Del resto non mi cu-ro». Aveva tuttavia contatti conesponenti mazziniani e, come haappurato lo storico Denis MackSmith, la sua casa a Parigi fu recapi-to segreto di Mazzini.Cospiratore e ‘carbonaro’, Vincen-zo Bellini partecipò ai moti antibor-bonici del 1821. Poi si mostrò piùprudente, ma in ogni caso dette al-la causa risorgimentale pagine cheancora oggi provocano brividi, co-me il coro «Guerra, guerra!» della«Norma» (1831) e, nei «Puritani»,la cabaletta di Sir Riccardo e SirGiorgio che in duetto proclamano:«Suoni la tromba e intrepido / iopugnerò da forte / bello è affrontar lamorte / gridando libertà!».Gli anni caldi del Risorgimento -anche a voler scremare una certaenfasi della mitografia postunitaria– furono dominati da Verdi, che do-po il «Nabucco» continuò nel 1843con «I Lombardi alla prima crocia-ta» e nel 1844 con «Ernani», epicoincitamento ai patrioti ad essereuniti e concordi nell’azione. “Si ri-desti il Leon di Castiglia” cantano icongiurati contro Carlo V. E conti-nuano: «Siamo tutti una sola fami-glia,/ pugnerem colle braccia, co’ petti;/ Schiavi inulti più a lungo negletti /Non sarem finché la vita abbia ilcor...». Il culmine è raggiunto con

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il caffè43CULTURA &SOCIETA’MERCOLEDÌ 2 MARZO 2011 IL GIORNO - LA NAZIONE - IL RESTO DEL CARLINO

di SILVIODANESE

IL RISORGIMENTO di barbe e carbo-nari, di cavalli bianchi a Teano e faz-zoletti rossi a Marsala, di volantiniall’opera e trasformismi sabaudi, al ci-nema è uno spettro pirandelliano:uno, nessuno, centomila. Gli storicinon sono mai soddisfatti di un filmstorico. Il film non è mai soddisfattodella Storia. Le variabili di peso sonoalmeno due: l’attualità che genera ilfilm e gli autori che lo pensano e lo re-alizzano. «Noi credevamo», diMario Martone, il più esteso eambizioso progetto sul Risorgi-mento, tre ore e passa per quattrodecenni, decine di personaggi,frantumato nella geopolitica dimetà ’800, è esposto ai bombarda-menti della nozione e della rico-struzione, armati da docenti uni-versitari, studiosi per passione,collezionisti, ricercatori. Hannoragione, hanno le prove, i docu-menti. Ma quanti sono disposti asaltare su un film storico che sto-ricizza e insieme di apre al sensodella contemporaneità? In fon-do, quanti risorgimenti ci sono alcinema?

C’È UN GARIBALDI «autore del-la Storia», anche se fa una man-ciata di brevi apparizioni, men-tre coraggio e strategia si rifletto-no nella peripezia del giovaneche fa su e giù tra Sicilia, Quartoe Calatafimi, nel Risorgimentosecondo Blasetti di «1860», pro-dotto nel 1934 dalla Cines diEmilio Cecchi, curioso paradig-ma della propaganda nazionalista, mastilisticamente «considerato nel dopo-guerra uno degli incunaboli del neore-alismo» (Morandini). Blasetti pensa-

va la penisola in rivolta, lo sbarco, imoti dei picciotti filtrando il cinemasovietico di Ejzenstejn e Pudovkin. IlRisorgimento di Mario Soldati, che la-vora sul romanzo di Fogazzaro «Pic-colo mondo antico», è un sentimentodi rivolta spinto dal tragico privato:Maironi (Massimo Serato), persa labimba, si butta nell’azione patriotti-ca. Era il 1941, l’emozione del sacrifi-cio si allineava ai venti di guerra, an-che se più di Maironi resta impressaLuisa, la ventenne Alida Valli. Sono idue poli tra «Teresa Confalonieri»(1934) di Guido Brignone (CoppaMussolini a Venezia), «Il Dottor An-tonio» (1937) di Guerzoni o «La con-tessa Castiglione» (1942) di Calzava-ra, tra Cavour inamidati e nobili calli-

grafici e contegnosi, mentre «Un gari-baldino al convento» (1942) di De Si-ca (nel cameo di Nino Bixio) o «Giaco-mo l’idealista» (1943), esordio di Al-berto Lattuada, sono commedie diechi, atmosfere, finalmente «epoca» ri-pulita dal ridodante e dall’aulico.

POI C’È il Risorgimento «resistenzia-le» del dopoguerra. L’Italia è fatta, an-zi rifatta. Chi erano gli italiani? Diffi-cile dire quanti hanno visto «La pattu-glia sperduta - Vecchio regno» (1952)di Pietro Nelli, riuscito in fondo co-me Risorgimento neorealista, con sen-so dell’impresa, di fermezza, di oppo-sizione di aria azionista, tra le «Cami-cie rosse» di Alessandrini, scritto da

Renzo Renzi, Enzo Biagi e SandroBolchi, già infilzato come «nazional-popolare», e quel discusso «Viva l’Ita-lia» (1961) di Rossellini, incompresoa volte per quanto tolga all’impresa ga-ribaldina oleografia tracciando unpercorso «freddo» che può sembraredidascalico.Altra vicenda, lo storicismo degli an-ni ’70, pressato dalla contestazione edal ribellismo studentesco, dalla rina-scita della parola «utopia». E qui biso-gnerebbe parlare almeno di «Bronte»(1972) di Florestano Vancini sulla ri-volta agraria e «Quanto è bello lu mo-rire acciso» (1975) di Ennio Lorenzi-ni sull’impresa di Pisacane, o della sa-tira attualistica (il malcostume peren-ne) di «Nell’anno del Signore» di Lui-gi Magni o «Correva l’anno di grazia1970» di Alfredo Giannetti.«Senso» (1954) e «Il Gattopardo»(1963). Oltre gli eventi, che spessoprovano la povertà o la tendenziositàdei punti di vista di certi film, Viscon-ti ha messo in gioco la trama di emo-zioni e di relazioni delle classi, degliinteressi, delle ipocrisie, delle inerziedell’umana commedia risorgimenta-le. Solo in secondo piano? Ma chesfondo!

LA NUOVA PATRIA RACCONTATA DAL CINEMA

La nostra Storiascritta sulle pellicole

«La crescita socia-le» di MaurizioDegl’Innocenti;«Il teatro del Ri-sorgimento» diClaudio Cumani

A colpi di filmDe Sica, Rossellini, Lattuada,Visconti, Magni tra i registi chesi sono ispirati al Risorgimento

«La battaglia diLegnano», anda-ta trionfalmentein scena a Romail 27 gennaio1849, pochi gior-ni prima dellaproclamazionedella Repubbli-ca Romana. Sta-volta non c’èCastiglia chetenga: «VivaItalia! - cantagià nella primascena il coro –Sacro un patto /tutti stringe i fi-gli suoi: / esso alfin di tantiha fatto / un sol popolo d’eroi!».

IL TEMA della patria accompagnerà alungo l’opera di Verdi, tanto da faredi lui una icona del Risorgimento.Questo legame stretto tra il genio e ilsuo tempo è detto come meglio non sipotrebbe dal film «Senso» di LuchinoVisconti (1954), che comincia conuna scena del «Trovatore» alla Fenicedi Venezia. Il tenore con la spadasguainata canta “Di quella pira”. E al‘do di petto’ finale, alle parole “All’ar-mi!”, si scatena una manifestazionepatriottica: sulla platea piena di uffi-ciali austriaci si rovescia dal loggioneuna pioggia di volantini inneggiantialla guerra. È il 1866, il Risorgimentoè agli ultimi fuochi.

“Teatro alla Scaladurante unaperformance”(Bibliothéque del’Opera Garnier,Parigi), il “Ritratto diGiuseppe Verdi” diBoldini e il manifestode “Il Gattopardo” diVisconti

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il caffè 36 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO GIOVEDÌ 10 MARZO 2011

di MAURIZIODEGL’INNOCENTI

“SO’ CARRETTIERE ma a tempo perso omo”: una delle tante frasi, inrigoroso romanesco, attribuite ad Angelo Brunetti, soprannominato Cice-ruacchio fin da ragazzo perché grassoccio. Nato nel rione romano di Campo

Marzio nel settembre del 1800, oltre a svolgere l’attività di carrettiere del porto Ripetta,Brunetti gestiva anche una taverna nei pressi di Porta del Popolo. Nel luglio del 1846,quando per la sua elezione Pio IX concesse la grazia ai detenuti politici, Ciceruacchiooffrì bottiglie di vino alla popolazione attorno a un grande falò in piazza. Dopo il tradi-mento delle riforme promesse da Pio IX, Brunetti abbracciò la causa mazziniana, par-tecipando alla rivoluzione del 1848. Dopo la caduta della Repubblica romana, si unì aGaribaldi per raggiungere Venezia, ma presso il delta del Po dov’era approdato il suobarcone, fu denunciato agli austriaci dagli abitanti del luogo. Alla mezzanotte del 10agosto 1849 Ciceruacchio fu fucilato con tutti i suoi compagni. Fra essi, il figlio Loren-zo, di soli 13 anni, e Luigi Bossi di Terni: il figlio maggiore che si nascondeva sotto quelnome perché ricercato per l’assassinio di Pellegrino Rossi, primo ministro dello StatoPontificio.

NEI PRIMI decenni postunitarianche in Italia andò emergen-do tra i ceti popolari una diffu-sa rete solidale su basi corpora-tive e mutualistiche, compostada società di mutuo soccorso edi miglioramento, fratellanze,cooperative, inizialmente inco-raggiate dalle stesse classi diri-genti, poi sempre più espressio-ne di un’autotutela che recepi-va le sollecitazioni ideali e poli-tiche di due grandi idee-forzadell’Ottocento: l’associazione eil volontariato, coniugandolein termini di continuità orga-nizzativa all’interno di una pro-spettiva legalitaria, che la clas-

se dirigente tese dovunque a in-coraggiare. Fu un fenomeno eu-ropeo che interessò tutte le so-cietà avviate sulla strada dell’in-dustrializzazione, per risponde-re in modo pragmatico alla que-stione sociale, come allora sichiamava. In Italia il fenome-no si segnalò per minore solidi-tà settoriale ma per più ampiavarietà, intrecciandosi con icomplessi esiti dell’unificazio-ne intorno allo Stato accentra-to e con scarsa base di consensoattivo, e segnato dalla perduran-te sussistenza di aree di arretra-tezza, i cui negativi effetti furo-no accentuati dalla “grande de-pressione” dalla metà degli an-ni ’70.

IL MOVIMENTO più precoce fucostituito da società operaiecon finalità di mutuo soccorso

contro il rischio di malattia, in-validità, disoccupazione, preco-stituendo così un embrionalewelfare privato in assenza diquello pubblico: da 443 nel1862 passarono a 1447 nel1873, a 4896 nel 1885 e a 6722nel 1896, per dar vita nel 1900ad una Federazione nazionale.Ma ben presto in virtù della in-trinseca duttilità si affermò inmodo prevalente la società coo-perativa. Nelle città e nei bor-ghi interessò la produzione, in-nestandosi sul mestiere artigia-no, e il consumo dei generi diprima necessità. Nella zona dibonifica, che richiamava vastamanodopera avventizia, cercòdi dare risposta al drammaticoproblema occupazionale: fu ilcaso della società dei braccian-ti, che praticava il turno di lavo-ro a squadre. La maggior parte

di tali istanze finirono per rico-noscersi nella Lega nazionaledelle cooperative, già Federa-zione dal 1886, con sede a Mila-no. Per iniziativa della borghe-sia liberale presero corpo i con-

sorzi agrari, riuniti in una Fe-derazione nel 1891 a Piacenza,e le banche popolari che nel1893 erano già 730. Dal 1883sotto l’influenza della parroc-chia si sviluppò la cassa rurale,per prestiti di piccola entità ero-gati sulla fiducia all’interno delvillaggio, allo scopo di fronteg-giare l’usura. Il movimento rag-

giunse dimensioni ragguarde-voli: un censimento del 1902,in difetto, registrò 2823 coope-rative, con oltre mezzo milionedi soci, ma allo scoppio dellaguerra mondiale non furonomeno di un milione.

ALLA FINE del secolo presecorpo anche l’organizzazionesindacale strutturata: dalla legadi miglioramento o di resisten-za (al padrone) alla camera dellavoro su base territoriale e allefederazioni di mestiere. Il veroimpulso maturò nel clima ri-vendicativo del 1901-2, quan-do scioperarono in centinaia dimigliaia nei centri urbani e nel-le campagne (caso clamorosoin Europa) inaugurando un ci-clo che avrebbe conosciuto unulteriore salto di qualità con lacostituzione della Confedera-

Il Po di Ciceruacchio

LO SQUILLO di Pino Casamassima

L’azione collettivaL’autotutela anticipavacon grande vitalitàil welfare statale

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il caffè37CULTURA &SOCIETA’GIOVEDÌ 10 MARZO 2011 IL GIORNO - LA NAZIONE - IL RESTO DEL CARLINO

di CLAUDIOCUMANI

FORSE il critico Ugo Ojet-ti peccava di ottimismoquando scriveva: «Se lapatria italiana ebbe inquegli anni convulsi unasede, questa fu il teatro;se ebbe una voce capacedi penetrare fin nella di-spersa e ingenua animapopolare, questa fu la vo-ce dei nostri attori». Per-ché non c’è dubbio chenei decenni in cui si do-veva fare l’Italia il pub-blico si rivolgeva conpredilezione alla lirica.

E del resto le censu-re politiche, sep-pur vigilanti sui li-bretti operistici,vedevano con favo-re la frequentazio-ne del teatro musi-cale piuttosto chedi quello di prosa.

INSOMMA, facevapiù paura un attore-soldato come Gusta-vo Modena alle presecon Alfieri piuttostoche lo slogan ‘vivaVerdi’. Tutti d’accor-do sul fatto che il no-stro teatro patriotticosia stato fatto dagli atto-ri più che dai dramma-turghi. Anche se c’era

un interesse degli intellettualidell’epoca verso la questione naziona-le e una consapevolezza della loro re-sponsabilità nella formazionedell’identità nazionale, i testi di quelteatro oggi però paiono quasi incon-sciamente riflettere il comune sentiredi una borghesia in fieri. Non a casola scena patriottica del Risorgimentoviene spesso considerata un episodiominore caratterizzato dall’irruenzadei mattatori alle prese con modi e sti-li spesso inconciliabili. Eppure, dopoche si era spenta praticamente nell’in-successo la fiamma delle tragediemanzoniane, almeno un paio di nomii manuali teatrali li fanno. Due nomiche testimoniano per vie diverse il de-siderio di cambiamento. Silvio Pelli-co (sì, l’autore de ‘Le mie prigioni’, illibro che, come ricorda Franco Man-zoni, Metternich trovò più dannosodi una sconfitta militare) scrisse una‘Francesca da Rimini’ di suggestionedantesca che avrebbe dato il via a unatipizzazione diffusa dell’eroina ro-mantica. Afflati libertari e patriotticipermearono, invece, i versi di GiovanBattista Nicolini. Suo un ‘Arnaldo daBrescia’ di proporzioni quasi epichein cui, con un occhio a Schiller e unaltro a Byron, circolano rivendicazio-ni di indipendenza politica e dignità

umana. Ma di attori si deve soprattut-to parlare. Prestanza fisica, voce sono-ra, abilità consumata nel conquistareil pubblico: questo suggerisce l’icono-grafia popolare. Eppure sta lì,nell’ostinazione di un mazziniano no-made e selvaggio come Gustavo Mo-dena padre di una riforma che hacambiato le regole della scena, la svol-ta. Cosa diceva questo combattenteed esule avverso ai compromessi diCavour e di Garbaldi e fautore di unteatro che lui chiamava dei bedoini (ecioé viaggiante, capace di attraversareil deserto delle istituzioni del suo tem-po)? Diceva che i giovani attori nonpotevano avere modelli passivi daimitare ma in loro doveva essere sti-molata la libertà di affermazione del-la personalità. Pochi come l’indocileGustavo lottarono e soffrirono perl’unità d’Italia. Combattente nel ‘31,nel ‘48, nel ‘49 (vide morire Mameli),esule in vari paesi europei, aveva por-tato in teatro con un forte impegnomorale e civile, una recitazione che ri-fuggiva l’interprete gigione o trombo-ne. Dunque, se teatro politico (ovve-ro portatore di nuovi valori) c’è statonell’Ottocento italiano quello è statodi Gustavo Modena. Ma se teatro pa-triottico è esistito, allora il discorsonon può escludere altre personalità,primi fra tutti Tommaso Salvini eAdelaide Ristori. Salvini, che nel ‘49si sbarazza del costume di scena al tea-tro Valle di Roma per imbracciare il

moschetto contro i francesi a portaSan Pancrazio, è davvero l’allievo pre-diletto di Gustavo. E la ribalta euro-pea, grazie a leggendarie interpreta-zioni di Shakespeare e Alfieri, lo con-sacra a una fama che permane neltempo.

LA STESSA COSA capita ad Adelai-de Ristori (stella della Compagnia Re-ale sarda) che, grazie al successoall’estero, vede il suo nome appiccica-to a acque di colonia, cosmetici e cara-melle. Personaggio affascinante que-sta primadonna, tanto amica di Ca-vour da diventare una pedina essen-ziale nella scacchiera politica del pri-mo ministro. Una specie di Mata Ha-ri capace di tastare il polso a potenti eregnanti, zar compresi, mentre dalpalco le sue eroine tragiche scatenava-no entusiasmi nelle platee. Una cosaè certa: la tradizione del grande atto-re ha avuto il merito di sconfessare ladiceria che il teatro italiano nonavrebbe avuto più una propria vocedopo i comici dell’arte. Il grande atto-re, pur con attitudini diverse, avevasaputo abbracciare il tricolore e dive-nire testimone della propria epoca, in-camminandosi verso le luci della mo-dernità che la fine del secolo faceva in-travvedere.

zione generale del lavoro nel1906.Per certi versi l’universo associa-tivo fu l’ambito del particolare,della piccola comunità, del me-stiere, del villaggio, del quartie-re, vicino alla persona e ai suoimutevoli bisogni, e dunque spe-rimentale e pragmatico, non pri-vo di fragilità e tutt’altro che im-permeabile alla speculazione,sempre in bilico tra la affannosadifesa di aree di emarginazione ela cooptazione allo sviluppo, maè indubbio che interpretò cultu-ra del fare e pragmatismo, pergiunta - e qui è il punto interes-sante - con una proiezione nazio-nale di esperienze e di obiettivi,anche se con densità diversa: as-sai più decisa al Nord e al Cen-tro, e più rarefatta al Sud. Ne fu-rono testimonianza le strutturedi secondo grado, dichiarata-

mente “nazionali”, talvolta dalladurata secolare, e il loro configu-rarsi come tessuto connettivodelle subculture democratica, so-cialista, cattolica. Con ciò inner-vando quella tendenza all’orga-nizzazione politica su base nazio-nale e territoriale, che inaugura-ta dal Partito socialista nel 1892,si sarebbe definitivamente affer-mata nel corso del ‘900.

TALE AZIONE collettiva di tute-la e di educazione civile e politi-ca nella pratica delle regole de-mocratiche (un voto a testa) con-tribuì a strutturare l’intera tra-ma sociale avvicinando ampi set-tori del ceto popolare e operaioalle istituzioni, e su questa pre-messa a consolidare lo stesso Sta-to uscito dalle guerre risorgimen-tali. Nell’anno delle celebrazionidell’Unità d’Italia sarebbe un er-rore considerare ciò una paginaminore.

IL TEATRO DEL FAMOSO ATTORE MODELLÒ LA PATRIA

Gustavo Modena,il soldato va in scena

LA «QUESTIONE SOCIALE»FU AFFRONTATAORGANIZZANDO MUTUE,FRATELLANZE E COOPERATIVE

Copioni risorgimentaliTommaso Salvini e AdelaideRistori tradussero in prosal’impegno civile e politico

“Quarto Stato”,di Pellizza da Volpedo(Museo delNovecento, Milano);nelle foto piccole:Gustavo Modenae Adelaide Ristori inimmagini dell’epoca

Il Risorgimento vistodagli stranieri, diAttilio Brilli;Ottocento, il secolodelle invenzioni,di Giorgio Pedrocco

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il caffè 38 CULTURA &SOCIETA’ IL RESTO DEL CARLINO - LA NAZIONE - IL GIORNO MERCOLEDÌ 23 MARZO 2011

QUELLA di Piero Maroncelli è una vita tor-mentata, che pare uscita da uno dei tanti me-lodrammi della nostra lirica. Il libretto d’ope-ra della sua vita avrebbe potuto musicarloproprio lui, che dopo aver studiato musicas’era fatto conoscere come compositore di ta-lento. Nato nel 1795 a Forlì, giovanissimoera stato contrattualizzato dalle Edizionimusicali Ricordi a Milano, dove aveva co-nosciuto Silvio Pellico col quale condivide-va il fervore patriottico. Poco dopo, i due or-ganizzarono dei moti rivoluzionari, manell’ottobre del 1820 furono scoperti, arresta-ti e condannati a morte: pena poi commuta-ta nell’ergastolo da scontarsi nella fortezzadello Spielgberg. Mentre Pellico scriveva“Le mie prigioni”, dopo dieci anni di unacarcerazione disumana, Maroncelli fu attac-cato da un tumore a un ginocchio. Per sal-vargli la vita, il medico fu costretto ad ampu-targli la gamba. La vulgata vuole che dopoil terribile intervento chirurgico compiutosenza alcun anestetico, il musicista abbia do-nato una rosa al dottore per ringraziarlo. Po-co dopo, i due patrioti furono graziati e lui,dopo aver sposato la cantante lirica AmaliaSchneider, emigrò a New York. Un gruppodi amici riuscì infine a farlo assumere comedirettore di una Società Filarmonica: una se-renità interrotta da un altro tumore che loportò alla morte nell’agosto del 1846.Vent’anni dopo la sua salma fu riportatanell’Italia libera e tumulata con grande ono-re a Forlì.

di ATTILIOBRILLI (*)

LE TESTIMONIANZE di viag-giatori stranieri che parlino inmaniera esplicita delle lotte ri-sorgimentali delle quali si tro-vano ad essere testimoni sonorelativamente rare.Per un verso ci si imbatte in co-loro che, come John Ruskin oFedinand Gregorovius, consi-derano l’Italia alla stregua diun teatro di fascinose rovinein cui si vorrebbe che gli italia-ni restassero i perenni pastorel-li d’Arcadia; per altro verso,s’incontrano personaggi più omeno pubblici, poco propensia rendere palesi le loro idee ele loro impressioni sulla realtàpolitica di un paese nella qualeinterferiscono altre potenze oc-

cidentali. Ma quei viaggiatoriche si esprimono apertamentesul cammino accidentato degliItaliani verso l’unità nazionalesi rivelano voci preziosedell’epopea risorgimentale.Lo sguardo del viaggiatorestraniero, specie se è inglese ofrancese, è portato dalla suaconsolidata storia nazionale asottrarre personaggi ed eventiall’enfasi retorica e celebrati-va. Balzano allora agli occhiaspetti, atteggiamenti, rifles-sioni che soltanto il distacco diuno sguardo forestiero può co-gliere, sino a fare emergere vol-ti inediti della realtà, ad oppor-re alla prospettiva eroica dellaguerra, al “dolce morir per lapatria”, il verso amaro di Mel-ville: “Cos’altro come una pal-lottola può sciogliere l’ingan-no?”

EMERGONO così gesti, scene,inquadrature fugaci che appar-

tengono alla registrazione im-mediata di una realtà minoreper la quale non c’è spazio nel-la storiografia tradizionale. Sipensi al “dongiovanni” per an-tonomasia, Lord Byron, chein casa dell’amante TeresaGuiccioli, a Ravenna, si lasciacoinvolgere nelle trame dei

carbonari delle Romagne con iquali canta: “Sem tutt soldatper la libertà!”; o allo stuporedell’agente di commercio Wil-liam Arthur che nel 1860, allastazione di Novara, s’imbattein un nugolo di ragazzini cheoffrono cappellini austriaci,spade francesi, granate pie-montesi: erano nati i souvenir

di guerra! O ancora all’indi-gnazione dell’infermiera bri-tannica che s’accorge delle ru-berie che il personale sanitarioperpetra negli ospedali napole-tani appropriandosi di generidi prima necessità destinati aigaribaldini feriti; o infine aquel viaggiatore inglese chepassa per Piazza della Signoriaa Firenze mentre alcuni ope-rai smontano fischiettando leinsegne granducali. Pacifici fi-no alla fine i vecchi granduchie non esenti da nostalgie i loroex sudditi.

IL VIAGGIATORE ha il grandeprivilegio di poter rievocare intempo reale o a breve scadenzaeventi cruciali per il destinodell’Italia. C’è una pagina stra-ordinaria in cui l’anglo-fioren-tino ThomasAdolphus Trol-lope, affaccian-dosi alle fine-

stre del Palazzo apostolico diLoreto, ricostruisce le fasi del-la battaglia di Castelfidardoche s’era svolta poco prima nel-la valle sottostante, immedesi-mandosi negli alti prelati dellaSanta Casa i quali, con la scon-fitta di Lamorcière, vedevanodissolversi il potere temporaledella Chiesa.E suscita un moto di simpatiail padre della storiografia bri-tannica, Trevelyan, che duran-te il viaggio di nozze ripercor-re con la consorte, parte a pie-di e parte in bicicletta, l’itinera-rio della drammatica anabasigaribaldina, da Roma a SanMarino, prendendo appuntiper il libro che le avrebbe dedi-cato.Non è un altro Risorgimentoquello narrato dai viaggiatori,e tanto meno un antirisorgi-

mento, ma l’arricchirsi diquesta grande fase sto-

rica che viene vissu-

Il calvario di Piero

Risvolti ineditiI souvenir di guerra,le ruberie negli ospedali,le nostalgie granducali

LO SQUILLOdi Pino Casamassima

L’imbarco a Genova diGaribaldi, di Induno (da 1861- I pittori del Risorgimento, pergentile concessione di Skira editore);La ferrovia Napoli-Portici inun quadro dell’epoca

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il caffè39CULTURA &SOCIETA’MERCOLEDÌ 23 MARZO 2011 IL GIORNO - LA NAZIONE - IL RESTO DEL CARLINO

di GIORGIOPEDROCCO (*)

ta e registrata in presa diretta,dal basso, nel suo svolgimentoquotidiano.

NEGLI ABBOZZI dei viaggiato-ri non manca una straordinariagalleria di ritratti di protagoni-sti del Risorgimento colti dalvero. In questo senso si rivela-no impareggiabili gli america-ni che agiscono con la spregiu-dicatezza di un corrispondentedi guerra.Basti pensare allo storico Tick-nor che si reca in visita ad unelusivo Manzoni, per il qualel’adozione di istituzioni “trop-po liberali” avrebbe potuto pro-vocare in Italia maggiori repres-sioni; o a Henry Adams ai cuiocchi Garibaldi in camicia ros-sa, che intervista a Palermo inmezzo ad autentici “eroi da ro-manzo”, appare dotato di “unaspontanea capacità di guada-gnarsi la simpatia della gente”.E dopo i ritratti degli uomini,

ci sono quelli delle città e dellecampagne, ora tristi ed austerecome Verona invasa dalle uni-formi austriache; ora ridenti epavesate con il tricolore, comeMilano o Bologna; ora trepi-danti come la Valdichianache saluta in Vittorio Ema-nuele II “il padron nuovo”.Ci sono infine, in successio-ne, le tre capitali dell’Italiaunita: Torino che assumeil volto mesto di “capitaledei ricordi”; Firenze, ca-pitale provvisoria, cheper l’occasione abbatte“l’aureo anello” dellemura medievali amatedagli stranieri, e Romache da capitale ecume-nica e universale di-venta la capitale defi-nitiva di un modernostato nazionale.

* Professoredi Letteratura

anglo-americana,Università di Siena

NON È POSSIBILE scrivere la storiadell’età contemporanea senza fare iconti con le innovazioni tecnologi-che, che hanno radicalmente cambia-to non solo le forme del lavoro, ma so-

prattutto i connotati, prima della so-cietà europea e poi pro-

gressivamen-te, dalla finedell’Ottocen-to, di quelle deidiversi conti-nenti per arriva-re ora alla “socie-tà globale”, risul-tato dell’accessibi-lità delle tecnolo-gie grazie alla reteinformatica.Di fronte al maremagnum di inven-zioni, realizzato ne-gli ultimi due secoli,non è facile trovare ilfilo rosso di un rac-conto che cerchi di

spiegare come sono andate le cose.Proviamo con alcuni esempi, comin-ciando dalla locomotiva a vapore, per-ché solo grazie a quest’applicazione lamacchina a vapore - l’innovazionesimbolo della prima rivoluzione indu-striale - finalmente trovò il modo persviluppare tutte le sue potenzialitàoperative.

IL 15 SETTEMBRE 1830 migliaia dipersone assistevano all’inaugurazio-ne della prima ferrovia: le locomotiveRocket e Planet, realizzate da GeorgeStephenson e dal figlio Robert, corre-vano alla media di 25 Km. all’ora trail porto di Liverpool e la capitaledell’industria cotoniera, Manchester.Fu un grande successo; in poco tem-po si diffuse tra gli investitori la feb-bre ferroviaria, col risultato che nel gi-ro di un ventennio una fitta ragnateladi rotaie collegava le moderne archi-tetture delle stazioni delle maggioricittà inglesi dalla Manica alla Scozia.Miglioravano le comunicazioni e gliscambi e cresceva in maniera espo-nenziale la produzione dell’industriapesante, siderurgica e meccanica.Le ferrovie si diffusero quasi imme-diatamente in Europa occidentale de-terminandovi un’accelerazione all’in-dustrializzazione: il modello inglesediventava un punto di riferimentoper l’economia europea dei paesi piùavanzati, che però non si accontenta-rono di seguirne le orme, ma cercaro-no, investendo notevoli mezzi finan-ziari pubblici e privati soprattutto inFrancia e in Germania, di approfondi-re i rapporti tra ricerca scientifica etecnologica e di procedere alla forma-zione di tecnici ed ingegneri, capacidi tradurre i risultati delle ricerchescientifiche in innovazioni tecnologi-che, rendendole poi operative nellapratica industriale.

Comparvero così quei “grappoli d’in-novazioni” di processo e soprattuttodi prodotto, che alla fine del XIX se-colo tennero a battesimo la seconda ri-voluzione industriale: una profondatrasformazione che ha consentitoall’industria di espandersi in nuovispazi geografici e in altri compartiproduttivi e che ha ulteriormentecambiato le forme del lavoro e laquotidianità sociale.

I NUOVI MATERIALI messi in cam-po, grazie alla sinergia tra scienza etecnica, dalla chimica, dai colorantialle fibre artificiali, hanno cambiatole fogge del vestire; i prodotti medici-nali di sintesi, a cominciare dai sulfa-midici, hanno aperto nuovi orizzontialla pratica medica; mentre i fertiliz-zanti artificiali, aumentando la pro-duttività dei terreni agricoli, resero di-sponibili maggiori quantità di benialimentari.Sempre in questi stessi decenni, unaserie di fattori concomitanti, quali lapossibilità di produrre acciaio a bassicosti, l’invenzione del motore a scop-pio e la creatività di carrozzieri e mec-canici, realizzò il bene di consumo du-revole per eccellenza, l’automobile, lacui produzione in grandi quantitàportò Henry Ford nel 1909 a progetta-re un’auto nera, semplice e solida, ilmodello T, e ad introdurre, derivan-dola dai grandi mattatoi di Chicago,la catena di montaggio per fabbricareautomobili a prezzi accessibili a tutti,

almeno negli Stati Uniti.Per chiudere questi rapidi flash èd’obbligo parlare dell’elettricità di-ventata in quegli anni il simbolo delprogresso stesso grazie alle abbaglian-ti luminarie delle grandi città, un al-tro segno del boom economico dellesocietà industriali alle soglie del No-vecento. Ma più che la lampadina è ilmotore elettrico che ha trasformatosia le fabbriche, mandando per sem-pre in pensione macchine a vapore eruote idrauliche, sia le abitazioni, do-tandole di un ventaglio d’elettrodo-mestici, di cui oggi non si potrebbepiù fare a meno.Le nuove tecnologie raramente parla-no in italiano, ma in Italia sono sem-pre esistiti degli ottimi traduttori.Uno dei primi fu sicuramente pro-prio Cavour che realizzò nel decen-nio di preparazione la ferrovia tra Ge-nova e Torino, una linea che svolseun ruolo strategico nel 1859 durantela seconda guerra d’Indipendenza,trasferendo rapidamente l’esercitofrancese, sbarcato nel porto di Geno-va, a Novi Ligure e ad Alessandria.La vittoria in quella guerra dei fran-co-piemontesi sull’Impero Asburgi-co, come tutti dovrebbero sapere, de-terminò l’avvio dell’Unità d’Italia…

* Professore di Storia della tecnica,Università di Bologna

SCRITTORI E VIAGGIATORI D’OLTRALPEDESCRIVONO CITTÀ E PERSONAGGISENZA ENFASI RETORICA: UN RACCONTODAL BASSO DEL NOSTRO RISORGIMENTO

VERSO LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Irrompe la tecnologiaE il lavoro cambia faccia

L’era delle innovazioniNuovi materiali, fertilizzanti,fino al motore a scoppio: il mondosi trasforma in pochi anni

I notabili dell’Italiaunita, di SandroRogari; L’Unitànasce in Parlamento,di Antonio Patuelli