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Seminario sull'Agamennone Breve riassunto degli incontri trascorsi (per chi vuole ripassare e per chi è stato assente) 1° incontro, 27 Novembre 2007 Edizione critica Leggeremo l'Agamennone in edizione critica, cioè in un testo che è stato costituito (determinato) non semplicemente ristampando un'edizione precedente, bensì consultando tutti i manoscritti antichi che ci hanno tramandato l'opera in questione. Le edizioni critiche sono preparate dai filologi. I manoscritti non sono altro che i libri antichi, precedenti all'invenzione della stampa: possono essere papiri, cioè rotoli di papiro appunto, che risalgono all'antichità classica (i più antichi del IV a.C., i più recenti del V d.C.), o codici, cioè fogli di pergamena o carta rilegati, di epoca medievale, del tutto simili ai nostri libri. La stragrande maggioranza degli autori antichi ci è giunta in codici: i papiri sono molti meno e sono frammentari, poiché ritrovati dagli archeologi nei loro scavi in Egitto, erosi dal tempo. Poiché copiando a mano è inevitabile commettere errori (soprattutto copiando difficili testi in greco antico, magari in epoche in cui il greco antico non era più parlato!), si capisce che, in tanti secoli e in tante copiature, i testi antichi si sono riempiti di errori, cioè si sono allontanati dall'originale. In filologia per errore si intende qualsiasi cambiamento del testo originale, anche qualora questo cambiamento sia perfetto dal punto di vista grammaticale, sintattico, ecc. Compito dell'editore critico è appunto quello di identificare il maggior numero possibile di questi errori nei manoscritti e di costituire un testo il più vicino possibile all'originale. Capita raramente che un'opera antica ci sia giunta in un unico manoscritto: in tal caso il lavoro necessario per l'edizione critica consiste nel leggere il più attentamente possibile tale manoscritto e valutare parola per parola se il testo ha ‘le carte in regola‘ per essere quello che l'autore in origine ha scritto: le parole e espressioni che paiono insostenibili vengono corrette in base al contesto, allo stile dell'autore, a espressioni simili in altri autori ecc. Quando invece i manoscritti sono più di uno l'editore deve confrontarli uno con l'altro, e in tutti i casi in cui la loro lezione (cioè il testo di un preciso passo) è diversa, deve valutare quale di esse corrisponde alla lezione originale; oppure,

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  • Seminario sull'Agamennone

    Breve riassunto degli incontri trascorsi(per chi vuole ripassare e per chi è stato assente)

    1° incontro, 27 Novembre 2007

    Edizione criticaLeggeremo l'Agamennone in edizione critica, cioè in un testo che è stato costituito (determinato) non semplicemente ristampando un'edizione precedente, bensì consultando tutti i manoscritti antichi che ci hanno tramandato l'opera in questione. Le edizioni critiche sono preparate dai filologi.I manoscritti non sono altro che i libri antichi, precedenti all'invenzione della stampa: possono essere papiri, cioè rotoli di papiro appunto, che risalgono all'antichità classica (i più antichi del IV a.C., i più recenti del V d.C.), o codici, cioè fogli di pergamena o carta rilegati, di epoca medievale, del tutto simili ai nostri libri. La stragrande maggioranza degli autori antichi ci è giunta in codici: i papiri sono molti meno e sono frammentari, poiché ritrovati dagli archeologi nei loro scavi in Egitto, erosi dal tempo.Poiché copiando a mano è inevitabile commettere errori (soprattutto copiando difficili testi in greco antico, magari in epoche in cui il greco antico non era più parlato!), si capisce che, in tanti secoli e in tante copiature, i testi antichi si sono riempiti di errori, cioè si sono allontanati dall'originale. In filologia per errore si intende qualsiasi cambiamento del testo originale, anche qualora questo cambiamento sia perfetto dal punto di vista grammaticale, sintattico, ecc.Compito dell'editore critico è appunto quello di identificare il maggior numero possibile di questi errori nei manoscritti e di costituire un testo il più vicino possibile all'originale.Capita raramente che un'opera antica ci sia giunta in un unico manoscritto: in tal caso il lavoro necessario per l'edizione critica consiste nel leggere il più attentamente possibile tale manoscritto e valutare parola per parola se il testo ha ‘le carte in regola‘ per essere quello che l'autore in origine ha scritto: le parole e espressioni che paiono insostenibili vengono corrette in base al contesto, allo stile dell'autore, a espressioni simili in altri autori ecc.Quando invece i manoscritti sono più di uno l'editore deve confrontarli uno con l'altro, e in tutti i casi in cui la loro lezione (cioè il testo di un preciso passo) è diversa, deve valutare quale di esse corrisponde alla lezione originale; oppure,

  • se nessuna ha ʻle carte in regolaʼ, proporre una correzione. Lavoro lunghissimo, difficile, pieno di soggettività!Per brevità, ciascun manoscritto si indica con una lettera latina maiuscola (A, B, C). I rapporti di parentela tra i manoscritti (per esempio se A è stato copiato da B, oppure se A e B sono stati entrambi copiati da C) si disegnano in uno stemma, una specie di albero genealogico (vedi quello dei manoscritti dell'Agamennone). Questo è importante perché per esempio, se B risulta copiato da A, allora B quasi sempre si può mettere da parte, perché ovviamente conterrà tutti gli errori che ci sono in A e in più altri errori commessi da chi ha copiato B da A.Se si capisce che due o più manoscritti esistenti sono ‘fratelli’, nel senso che sono copie di uno stesso manoscritto, ma quest'ultimo non è più esistente, il ‘genitore’ scomparso si indica con una lettera greca minuscola (α, β, γ). Infine, se si può provare che tutti i manoscritti esistenti derivano in ultima analisi da un unico ‘antenato’ scomparso, quest'ultimo si indica con una lettera greca maiuscola.L'Agamennone è tramandato in cinque manoscritti, e in più abbiamo una piccola strisciolina di papiro che conserva alcune lettere dei primi versi della tragedia.

    Tragedia grecaNon faremo un'introduzione alla tragedia greca, perché è un argomento così complesso che ritarderebbe troppo la lettura dell'Agamennone. Della tragedia come genere poetico parleremo via via che leggeremo le varie parti dell'Agamenonne. Intanto, per cominciare, limitiamoci a poche notizie basilari:1) La tragedia è costituita, da cima a fondo, di versi, cioè è da cima a fondo poesia (i greci non avevano dubbi su cosa fosse o non fosse poesia: la poesia è solo in versi, misurati dalla metrica).2) I versi sono di due tipi: recitati o cantati. I versi recitati non avevano melodia e accompagnamento musicale; i versi cantati avevano melodia e accompagnamento musicale (purtroppo le melodie non sono state trascritte insieme ai testi; ne possediamo solo brevissimi frammenti).2b) Comunque tutti i versi greci, sia recitati sia cantati, sono di tipo quantitativo, cioè costituiti da un'alternanza regolare di sillabe lunghe e sillabe brevi.3) I versi recitati sono affidati agli attori, i versi cantati al coro. Il coro non solo canta, ma contemporaneamente danza (χορεύω = danzo). I componenti del coro si chiamano coreuti.4) Gli attori monologano e dialogano sulla scena; il coro danza e canta

  • nell'orchestra. La scena ha la forma rettangolare ancora oggi usata, l'orchestra (ὀρχέω = danzo) è una spianata circolare situata in genere più in basso della scena, con al centro l'altare di Dioniso, nume protettore della tragedia.5) Talvolta il poeta tragico affida versi cantati agli attori (situazioni di particolare pathos), oppure versi recitati al capo del coro, il corifeo, che in quel momento dialoga con gli attori.6) Il verso recitato della tragedia è il trimetro giambico; i versi cantati sono svariati e complessi e in questo seminario non li affronteremo.7) Il trimetro giambico è l'unione di tre metri giambici; un metro giambico è, nella forma base, composto di quattro sillabe in questa sequenza:

    x – ⏑ –(leggi: 1ª indifferente, 2ª lunga, 3ª breve, 4ª lunga)

    Pertanto lo schema del trimetro è:x–⏑– x–⏑– x–⏑–

    Tuttavia l'ultima sillaba del verso può anche essere breve: infatti, dato che la fine del verso impone comunque una pausa, piccola o grande che la si faccia, anche una sillaba breve, ‘sommata’ alla pausa, corrisponderebbe comunque a una lunghezza. Pertanto lo schema del trimetro giambico diviene:

    x–⏑– x–⏑– x–⏑⏓7b) I trimetri giambici di Eschilo spesso corrispondono a questa forma base. Ma sono sempre possibili le sostituzioni: due sillabe brevi prendono il posto di una lunga: ⏕ . Pertanto lo schema può variare anche di molto, se in un verso c'è più di una sostituzione.7c) Nella lettura scolastica, si pone un accento su ogni seconda sillaba delle coppie: x–́ e ⏑–́. Ne risulta un ritmo martellante e monotono (il famigerato tatà tatà tatà tatà ecc., degno parente del tàtata tàtata dell'esametro scolastico) che non ha nulla a che fare con il trimetro greco, dove ogni parola conservava il suo accento naturale (che era melodico, non intensivo) e al tempo stesso si percepiva il ritmo dettato dalla regolare alternanza di sillabe lunghe e brevi. Nel caso di sostituzioni, l'accento va sulla prima delle due brevi che sostituiscono la lunga.

    EschiloIl poeta e la sua arte li conosceremo col tempo, leggendo la tragedia. Intanto vi ho riferito il giudizio del retore latino Quintiliano, che pur riconoscendo la sua grandezza lo definisce rudis e incompositus, che non sono complimenti e fanno pensare che, come noi, anche i latini trovassero difficoltà nel comprenderlo. Va detto che Eschilo è il primo e più antico dei grandi tragici: Sofocle e soprattutto

  • Euripide hanno sviluppato uno lingua e uno stile più moderni, più raffinati, così che l'arte di Eschilo è parsa subito arcaica (nelle commedia Le Rane di Aristofane c'è un bellissimo confronto tra Eschilo e Euripide). Del resto come dice Murray, un editore moderno, nella sua prefazione in latino, Eschilo è come una Sirena che ha attirato tanti col fascino del suo canto, ma tanti ha fatto naufragare...

    Il PrologoLe tragedie si compongono di parti ben distinte. La prima è in genere il prologo, parte recitata affidata a un attore o più attori, una sorta di introduzione. Dopo il prologo viene la parodo, il primo canto/danza del coro, chiamata così dalla πάροδος, ingresso laterale dal quale il coro entrava nell'orchestra. Procedendo nella lettura dell'Agamennone conosceremo una per una le varie parti della tragedia greca.Il prologo dell'Agamennone è giustamente famoso e considerato un capolavoro. Parla una guardia (φύλαξ), più esattamente una vedetta, che da un anno è stata incaricata dalla regina Clitemestra, moglie di Agamennone, di passare insonne le notti sul tetto del palazzo degli Atridi, in Argo (sì, in Omero Agamennone è re di Micene, qui di Argo). Perché tale strano incarico, che cosa deve vedere la vedetta?È in corso la guerra di Troia, Agamennone è assente; Clitemestra lo ha tradito con Egisto e ne aspetta il ritorno intenzionata ad assassinarlo. Prima di partire, Agamennone aveva concordato con Clitemestra che, in caso di vittoria, avrebbe fatto pervenire la notizia ad Argo tramite una catena di fuochi, che sarebbero stati via via accesi sulle cime di determinati monti lungo il percorso tra Troia e Argo (stratagemma che ritroviamo nel film "Il Signore degli Anelli", come ha notato Corinna). Clitemestra, che non vuole essere presa alla sprovvista da un improvviso ritorno del marito, ha incaricato la vedetta di sorvegliare l'orizzonte per annunciare subito l'atteso segnale di fuoco.Queste informazioni non ci sono fornite da didascalie dell'autore, come nel teatro moderno, ma si ricavano dalla tragedia stessa.

    Traduzione e commentoLa traduzione dell'Agamennone presuppone sempre la discussione e la scelta di molteplici possibilità interpretative. I problemi che il testo pone sono così tanti, che a volte non se ne viene a capo e bisogna rassegnarsi a intuire il suo significato, senza poterlo rendere con esattezza. Ecco come abbiamo inteso i versi 1-7:

  • 1 Agli dei chiedo l'allontanamento di queste fatiche,2 di questa guardia cioè annuale in lunghezza, durante la quale giacendo3 sulla casa degli Atridi, tra le braccia, come un cane,4 conosco l'adunanza degli astri notturni,5 sia quelli che portano l'inverno sia l'estate ai mortali,6 splendenti signori, che spiccano nel cielo,7 astri, qualora tramontano e il loro sorgere.

    Ed ecco le considerazioni che ci hanno condotto a tale traduzione:

    1 πόνος: bene il significato primario della parola, "fatica", perché vegliare un anno su un tetto (inverno compreso!) è realmente faticoso.

    θεούς: gli articoli in tragedia non si usano (come in Omero), quindi nella traduzione siamo noi a dover stabilire dove e come porli, come in latino.2 φρουρᾶς: apposizione di πόνων. In ἐτείας (< τὸ ἔτος, anno) μῆκος (cf. μακ-ρός, lungo), "annuale in lunghezza", l'accusativo di limitazione μῆκος sembra ridondante, inutile: invece abbiamo visto che esprime la psicologia del personaggio, che di questa lunghezza... non ne può più; allo stesso modo noi diciamo "ho faticato un anno intero" dove basterebbe dire "un anno", per enfatizzare la durata della nostra fatica.

    ἥν: pronome relativo che riprende φρουρᾶς, con funzione di compl. di tempo continuato; come ha notato Elena, in prosa quest'uso è permesso solo con vocaboli che di per sé esprimono un lasso di tempo (giorno, mese ecc.).3 στέγαις: στέγη è il tetto, < (σ)τέγω, copro (cf. la nostra tegola); il plurale in genere significa "casa".

    ἄγκαθεν: ha fatto impazzire gli studiosi. Due possibilità: o è la forma sincopata di ἀν(έ)καθεν = ἀν(ά)καθεν, da ἀνά, e significa "su, sopra" (ma in tal caso dovrebbe reggere un genitivo, cioè ci vorrebbe στέγης); oppure deriva da ἀγκών, gomito, braccio, e vuol dire "tra le braccia", come in un passo delle Eumenidi (stessa trilogia!) dove il significato è sicuro perché l'espressione ἄγκαθεν λαβὼν βρέτας, "prendendo la statua tra le braccia", non lascia dubbi. Abbiamo scelto la seconda ipotesi.

    κυνὸς δίκην: la lingua poetica è particolare: qui δίκην non ha a che fare con la giustizia, ma funge da preposizione posposta (posta dopo la parola) e significa "come, al modo di".2-3 Dunque, con le scelte interpretative che abbiamo fatto, che scena e che senso si ricavano complessivamente? La vedetta dice che il suo modo abituale

  • di passare le notti è "sdraiato" (κοιμώμενος) "tra le braccia" (ἄγκαθεν) "come un cane" (κυνὸς δίκην): sicuramente intende dire "con la testa tra le braccia", ma supino (pancia in su, testa poggiata sui palmi delle mani) o prono (pancia in giù, testa appoggiata sui dorsi delle mani)? Irene ha capito subito che la vedetta stava prona, perché il suo compito era scrutare l'orizzonte in attesa del segnale di fuoco, non osservare la volta celeste. I versi seguenti sembrano smentire questa ipotesi, perché la vedetta dice di conoscere bene le costellazioni; ma poi parla specificamente del loro tramontare (ὅταν φθίνωσιν) e sorgere (ἀντολάς), cioè proprio di quelle fasi in cui le stelle si trovano all'orizzonte!4 κάτοιδα: perfetto fortissimo da οἶδα = so; κατά avrà il consueto valore intensivo, "fino in fondo" (< dal valore locativo "giù"), "bene".

    ὁμήγυριν: vocabolo poetico < ὁμός, uguale + √ ἀγορά.5 qui tutto scorre bene; βροτός, in genere tradotto "mortale" anche se non si è sicuri dell'etimologia, è comune nell'epica.6 αἰθέρι: αἰθήρ è il cielo come volta celeste.7 †ἀστέρας†: le croci indicano una parola o un passo che l'editore ritiene "disperato", ovvero per il quale nessun manoscritto offre una lezione credibile e nessun filologo ha proposto una correzione convincente. In questo caso le difficoltà sono due: 1) metrica, poiché la prosodia (quantità sillabica) di ἀστέρας è –⏑⏑, cioè la seconda sillaba lunga del trimetro è sostituita da due brevi; ma gli studiosi hanno constatato che Eschilo sostituisce la seconda sillaba solo quando usa nomi propri, mentre qui il nome è comune; 2) stilistica, perché la ripetizione di "astri" suona scadente e inutile. Nel prossimo incontro vedremo quali correzioni sono state proposte. Noi per adesso traduciamo la parola così com'è, osservando che essa merita rispetto dato che la piccola strisciolina di papiro ci testimonia che non è sicuramente un errore nato in epoca bizantina (il papiro è del II d.C.).

    ὅταν φθίνωσιν: il significato è chiaro, ma la sintassi no, perché non è chiaro come questa frase si colleghi a quanto precede: probabilmente riprende φέροντας, nel senso che le costellazioni "portano" le stagioni "qualora tramontano", cioè una stagione inizia col tramonto (o col sorgere) di una costellazione.

    ἀντολάς: il significato, "sorgere", cade a fagiolo, dato che subito prima si parla di tramonto delle costellazioni; la sintassi invece non convince, perché l'accusativo non ha un verbo da cui dipenda. Difatti sono state proposte per il precedente ἀστέρας diverse correzioni che diano un verbo a questo verso, oppure si è pensato a cambiare il caso in dativo, ἀντολαῖς, così che significhi "con il loro sorgere" (portano le stagioni).

  • Seminario sull'Agamennone

    Breve riassunto degli incontri trascorsi(per chi vuole ripassare e per chi è stato assente)

    2° incontro, 4 Dicembre 2007

    Apparato critico: lezioni e congettureCome abbiamo detto nel primo incontro, l'edizione critica di un testo è basata sull'analisi delle lezioni dei manoscritti (lezione: parola o espressione offerta da un manoscritto; lett. "ciò che si legge in un manoscritto"). Propriamente si parla di lezioni tràdite, lezioni cioè presenti nella tradizione manoscritta del testo. L'editore spesso si trova di fronte a lezioni alternative, perché il processo di copiatura a mano produce inevitabilmente errori: in questo caso fa una scelta tra le lezioni presenti, in base a criteri come la correttezza linguistica (si presume che l'autore abbia scritto un greco perfetto), lo stile, l'adeguatezza al contesto ecc. Ma in alcuni luoghi (luogo: passo di un testo) capita che nessuna delle lezioni tràdite gli appaia soddisfacente: in questo caso ricorre a congetture, cioè a ipotesi, proprie o di altri studiosi, con le quali spera di ricostruire il testo originale. Dunque due sono gli elementi di un testo critico: lezioni tràdite e congetture. L'insieme delle lezioni tràdite e congetture scelte dall'editore costituisce il testo che leggiamo nell'edizione critica: dunque non semplicemente "Agamennone di Eschilo", ma "Agamennone di Eschilo nell'edizione di M. L. West".L'apparato critico, stampato a piè di pagina, è uno strumento fondamentale di una edizione critica in quanto consente al lettore:1) di sapere se una data lezione presente nel testo è tràdita oppure è congetturale, e inoltre di sapere nel primo caso in quale/i manoscritti si trova, nel secondo da quale studioso è stata escogitata;2) di vagliare il lavoro dell'editore presentando sia le lezioni tràdite alternative a quelle che egli ha scelto, sia le congetture che egli non ha accolto nel testo.

    Tradizione indirettaInoltre le edizioni critiche più elaborate, come quella dell'Agamennone che noi usiamo, ci forniscono un altro utile strumento: tra il testo e l'apparato critico troviamo l'esposizione della tradizione indiretta. La tradizione di un testo infatti può essere diretta (i manoscritti che contengono l'opera in questione), ma

  • anche indiretta: in questo caso si tratta di citazioni dell'opera in questione, più o meno brevi, contenute in altre opere. Per esempio, capita che un grammatico di epoca ellenistica, imperiale e ancor più spesso bizantina citi una parola da un testo poetico antico e ne spieghi il significato, ormai oscuro ai tempi suoi. Si capisce che, soltanto grazie alla tradizione indiretta, non si potrebbe mai ricostruire un'intera opera: ma essa è comunque importante, perché ci può offrire una lezione alternativa oppure fornire una sorta di conferma a una delle lezioni presenti nella tradizione diretta. "Testimoni" è un termine che accomuna sia i manoscritti della tradizione diretta, sia quelli della tradizione indiretta: entrambi infatti ‘testimonianoʼ una determinata lezione.

    Esame dell'apparato criticoLo studio di un apparato critico è un'attività affascinante, che ci porta ‘dentroʼ al testo e ci stimola a ricostruire i ragionamenti che hanno indotto l'editore alle sue scelte e i vari studiosi alle loro congetture. Vediamo allora che cosa ci offre l'apparato critico per i primi sette versi dell'Agamennone, che abbiamo tradotto nel primo incontro.2 Uno studioso di nome Peters ha proposto la congettura φρουρᾶς τ᾽: si tratta di un cambiamento minimo rispetto al testo tràdito, ma che tuttavia non è privo di peso. Infatti, introducendo tra πόνων e φρουρᾶς una congiunzione coordinativa copulativa (τ᾽ = τε), φρουρᾶς non risulta più apposizione di πόνων ("allontanamento di queste fatiche, cioè di questa guardia"), ma diviene una seconda specificazione di ἀπαλλαγή ("allontanamento di queste fatiche e di questa guardia"). Non solo West, ma nessun editore accoglie la congettura di Peters: giustamente, perché (come ha osservato Margherita), mentre è logico che le fatiche consistano nella guardia, non si capirebbe invece a quali fatiche il φύλαξ farebbe riferimento, se esse fossero qualcosa di distinto dalla guardia.Sempre al secondo verso si vede che ci sono a un certo punto due lezioni tràdite alternative: il codice τ (codice non più esistente ma ricostruito da G, T e V: vedi lo stemma nella prefazione) ha quella che West ha scelto, ἣν, mentre i codici M e V e lo scolio (scolio: nota esplicativa scritta nel margine di un manoscritto) hanno δ᾽ἦν. Qui la questione è molto complicata e per ora non la affrontiamo.3 Nel primo incontro abbiamo discusso della difficile interpretazione di ἄγκαθεν: "sopra" (sul tetto) o "tra le braccia" (con la testa tra le braccia)? Uno studioso di nome Franz ha proposto la congettura ἀνέκαθεν: la nota di West "contra testes" ci ricorda che tutti i testimoni, sia di tradizione diretta sia di tradizione indiretta, hanno però ἄγκαθεν. Ora, il punto è che mentre ἄγκαθεν può avere i due significati, "sopra" e "tra le braccia", ἀνέκαθεν invece significa

  • solo "sopra". Evidentemente Franz era così sicuro che il significato richiesto dal passo fosse "sopra", da ipotizzare che Eschilo abbia scritto proprio quella parola. Tuttavia, si può obiettare a Franz che un errore di copiatura da ἀνέκαθεν a ἄγκαθεν si spiega male, perché ἄγκαθεν è una parola più rara, più difficile: gli errori in genere banalizzano il testo, sostituendo un termine raro o difficile con uno comune o facile, non il contrario. Chi di noi per esempio, copiando un testo in cui si legge "superiore", potrebbe scrivere per errore "superno"?4 Interessante la congettura νυκτέραν di Łowiński. Che cosa cambia rispetto al νυκτέρων dei manoscritti? Quasi nulla, soltanto che "notturna" diventa l'adunanza (νυκτέραν ὁμήγυριν) degli astri, non gli astri stessi (νυκτέρων ἄστρων). Un cambiamento piccolissimo! E allora perché lo studioso ha pensato di proporlo? Irene ha ragionato così: gli astri sono nel cielo non solo di notte, quando li vediamo, ma anche durante il giorno; quindi è improprio definirli "notturni"; "notturna" è semmai, come sostiene Łowiński, la loro adunanza. Bel ragionamento, ma forse troppo razionalistico: non dimentichiamo che noi leggiamo e analizziamo il testo dell'Agamennone con tutto il tempo che vogliamo (e lo facciamo da 2500 anni...), mentre il pubblico ascoltava la recitazione dei versi ‘in direttaʼ: sicuramente nessuno tra il pubblico avrebbe avuto nulla da obiettare all'espressione "astri notturni"! Inoltre il ragionamento di Irene presuppone negli antichi greci la nostra stessa consapevolezza del fatto che le stelle sono nel cielo anche di giorno: questo è ben possibile, ma sarebbe comunque da verificare. A mio parere, invece, Łowiński ha inteso rendere più poetica l'espressione: "adunanza notturna" fa pensare che gli astri la notte si riuniscano nel cielo per una propria volontà, provenendo magari dalle loro case o dal luogo in cui dormono di giorno. Una concezione poetica e infantile (anzi, pascolianamente: infantile, quindi poetica) del cielo stellato. A questo proposito abbiamo ricordato le espressioni con cui si spiega ai bambini piccoli il tramonto del sole: "il sole va a fare la nanna". [Margherita ha obiettato che diciamo "il sole va a fare la nanna" perché lo dicono i Teletubbies... che orrore se avesse ragione!] In ogni caso, concluderei che l'espressione "astri notturni" va benissimo e che non possiamo metterci a rendere Eschilo più preciso scientificamente o più poetico: la scientificità probabilmente non gli interessava, e poetico lo era già abbastanza!5 Il codice τ aveva invertito le ultime due parole, da θέρος βροτοῖς a βροτοῖς θέρος. C'è una spiegazione di questo errore, inerente la metrica; se volete chiedetemela.6 Il codice V e un codice della tradizione indiretta (di un certo Achille autore

  • di un commento ad Arato, quest'ultimo il famoso poeta ellenistico che parla dei fenomeni celesti) hanno non αἰθέρι, "nel cielo", ma ἐν θέρει, "in estate". Non sembra esserci alcuna ragione per pensare che Eschilo abbia limitato l'azione di ἐμπρέποντας, "spiccare", solo alle notti estive. Irene ha però osservato che, se da altri passi si capisse che la tragedia si svolge proprio durante l'estate, varrebbe la pena di riconsiderare questo passo. Vedremo...7 Ed eccoci al tremendo verso 7: così tremendo che due studiosi, Pauw e Valckenaer, hanno proposto di... cancellarlo! Essi hanno cioè pensato che non lo abbia scritto Eschilo ma qualcuno dopo di lui, il quale per un suo motivo lo avrebbe inserito tra gli attuali versi 6 e 8 (questi inserimenti si chiamano interpolazioni). Una cosa del genere non è impossibile, tutt'altro: sono stati provati molti casi analoghi. Per esempio, si sostiene che nelle tragedie alcuni versi siano stati inseriti dagli stessi attori. Certo, è innegabile che togliendo il verso 7 e facendo finire il periodo con αἰθέρι ci risparmiamo diversi problemi. Però forse è una soluzione troppo radicale. West tiene una via di mezzo: secondo lui il verso è di Eschilo, ma la parola ἀστέρας no: essa a West non torna proprio, risulta inaccettabile (vedi gli appunti del primo incontro); e poiché nessuna delle congetture proposta lo soddisfa, egli stampa la parola tra croci, ad indicare un "luogo disperato" (ma si dovrebbe chiamare "disperante", per gli studiosi).Vediamo allora le congetture riportate nell'apparato critico: tutte e tre introducono al posto di ἀστέρας un verbum videndi, o al participio (τηρῶν e ἀθρῶν) o all'indicativo coordinato a ciò che precede (τηρῶ θ᾽): il risultato è "osservando(li) quando tramontano e il loro sorgere" oppure "e (li) osservo quando tramontano e il loro sorgere". Sintassi perfetta, no? Inoltre tutte e tre le congetture hanno il pregio di avere un suono piuttosto simile a quello di ἀστέρας, il che rende più plausibile l'errore: si parlava di astri (v. 4 ἄστρων), il copista distrattamente avrebbe sostituito la parola "astri", che aveva in mente, a un verbo dal suono simile.Infine, come si è visto nel primo incontro, un altro studioso ha proposto di non toccare ἀστέρας ma intervenire su ἀντολάς, cambiando il caso in dativo: ἀντολαῖς, che significherebbe "al loro sorgere" e farebbe coppia con il precedente "quando tramontano".Che cosa concludere sul verso 7, alla fine? Niente: cioè, ciascuno trarrà le proprie conclusioni, questo è il bello della filologia e di una edizione critica. Finché un bel giorno arriverà qualcuno talmente geniale o talmente fortunato da escogitare una soluzione condivisa da tutti, o talmente persuasivo da convincere tutti (ma questo è difficile: i filologi sono diffidentissimi!).

  • Traduzione e commentoAnche oggi, proviamo a tradurre il testo il più letteralmente possibile, così da non nascondere i problemi che esso presenta. Ah, per la lettura, tenete presente che ai versi 15 e 19 ci sono due sostituzioni:

    15 το̆ μή̄ βε̆βMιω̄ς βλέ̆φᾰρᾰ σOμβᾰλέ̄ιν ῠπνώ̄ι (βλέ̆φᾰ con ⏕)19 οῡχ ώ̄ς τᾰ πρό̄σθ᾽ᾰρSστᾰ δ)ᾰπο̆νό̄υμε̆νό̄υ (δTᾰ con ⏕)

    [N.B.: i simboli di breve e di lunga non indicano la quantità della vocale o dittongo cui sono sovrapposti, ma della sillaba nel suo complesso; ricorda che le sillabe che terminano in consonante sono lunghe anche se contengono una vocale breve]

    8 E ora sorveglio il segnale della fiaccola,9 il raggio di fuoco che porta da Troia la voce10 e la notizia della conquista: così difatti domina11 un cuore di donna, dal maschio volere, che spera.12 E qualora vagante di notte e rugiadoso io abbia13 il mio giaciglio, che non viene visitato da sogni14 (difatti la paura mi sta accanto invece del sonno,15 così da non chiudere tranquillamente le palpebre al sonno),16 e qualora io pensi di cantare o canticchiare,17 intagliando questo rimedio come controcanto del sonno,18 piango allora, lamentando la sventura di questa casa19 che non è amministrata nel modo migliore come prima.20 Ma ora avvenga un felice allontanamento dalle fatiche,21 apparendo il tenebroso fuoco dalla buona novella.

    Ed ecco le considerazioni che motivano la traduzione.

    8 φύλασσω: l'azione propria del φύλαξ, naturalmente.λαμπάδος: λαμπάς è la "fiaccola", in quanto il grande rogo sulla cima di

    un monte apparirà, da lontano, simile a una fiaccola. Proprio una "staffetta delle fiaccole" sarà più in là definita la sequenza dei segnali di fuoco che portano l'annuncio della vittoria dal monte Ida ad Argo.9-10φάτιν... βάξιν: sono sinonimi, in quanto significano entrambi "voce";

  • entrambe parole usate in poesia, ma la prima anche da Erodoto. Generalmente i traduttori rendono una delle due con "notizia". Φά-τις è formato dalla radice di φημί, "dico", parente dei latini fa-ma e for; βάξις è collegato al verbo poetico βάζω.

    ἁλώσιμον: una rara parola poetica, nella quale però Corinna ha subito riconosciuto la radice del verbo ἁλ-ίσκομαι, "sono conquistato". Questo aggettivo ci consente di comprendere un'importante caratteristica dello stile tragico e di Eschilo in particolare, che è quella di ‘piegareʼ le parole a un significato inusuale, nuovo. Infatti ἁλώσιμος significa propriamente "conquistabile": in questo passo invece, concordato a βάξιν, significa "relativo alla conquista". Troveremo tanti altri esempi del genere: a volte il cambiamento rispetto al significato proprio è così grande da apparire uno stravolgimento.10 κρατεῖ: < κράτος, "forza". Nel contesto, "domina" significa "mi impone questo incarico".11 ἀνδρόβουλον: < ἀνήρ + √βουλ di βούλομαι, "dalla maschia volontà"; forma la figura retorica dell'ossimoro (accostamento di concetti opposti) col precedente γυναικός.

    ἐλπίζον: participio congiunto a κέαρ. La vedetta non ci dice che cosa il cuore della donna "spera": l'ambiguità crea interesse e tensione nel pubblico, che può intendere sia "speranza di riabbracciare il marito", sia "speranza di mettere in atto il suo piano omicida" (i miti erano conosciuti, per cui la gran parte del pubblico già sapeva come la storia andava a finire).

    κέαρ: forma poetica e non contratta (= κῆρ) corrispondente al comune καρδία, cfr. latino cor, cordis.12 εὖτ᾽ἂν: forma poetica corrispondente a ὅταν; di conseguenza ἔχω è sicuramente congiuntivo.

    νυκτίπλαγκτον ἔνδροσόν τ᾽: due magnifici aggettivi poetici. Il primo è formato da νύξ, "notte", e da un aggettivo derivato dalla radice πλα-, "vagare" (cfr. οἱ πλα-νῆτες, i pianeti, che sembrano vagare nel cielo in contrapposizione alle stelle ‘fisseʼ; o il più umile plancton, formato da microrganismi animali o vegetali incapaci di movimento proprio che vagano portati dalle correnti). Il secondo deriva da ἐν, "dentro", e δρόσος, la rugiada. Sono complementi predicativi dell'oggetto: la vedetta ha il giaciglio (εὐνήν) vagante di notte e rugiadoso, cioè essa cambia di frequente posizione durante la notte ed è bagnata dalla rugiada. Non c'è bisogno di pensare a una ‘brandinaʼ da campeggio: εὐνή può essere non il letto, ma il luogo stesso in cui la vedetta si mette a giacere.Un controllo del vocabolario ci ha informato che δρόσος è solo la rugiada, non la brina (quest'ultima si dice πάχνη, lett. "condensa", < √πηγ di πήγνυμι,

  • "solidifico"). Irene ha allora osservato che forse ci troviamo in estate, e che questo può farci ripensare alla variante ἐν θέρει del v. 6: vedremo...14 φόβος: paura di che, di venire punito dalla regina se dormisse invece di vegliare, o di non vedere il segnale di fuoco? Il tipo di paura in genere espresso da φόβος favorisce la prima interpretazione.15 τὸ... συμβαλεῖν: infinito consecutivo senza ὥστε, usato in poesia e anche dallo storico Tucidide (che ha uno stile ostico la cui sintassi a volte ricorda la poesia).16 ὅταν: la frase principale si fa ancora attendere. Ἀείδω è la forma originaria non contratta, e poi mantenuta in poesia, del comune ᾄδω, "canto".17 Un bellissimo verso tragico. Per capire l'immagine usata dal poeta, si sappia che i ῥιζοτόμοι, "tagliatori di radici" (< grado forte di √τεμ, cfr. τέμ-νω, "taglio"), praticavano l'incisione delle radici di piante per estrarne la linfa e usarla a scopi medicinali. Ἐντέμνων significa appunto "incidere" e ha come compl. oggetto ἄκος, "rimedio": propriamente noi diremmo che si incide la radice per ottenere un rimedio, ma Eschilo sintetizza poderosamente l'espressione in "incidendo un rimedio"! Il rimedio di cui la vedetta parla è il canto e la malattia che esso deve sanare, anzi prevenire, è il sonno. Il rimedio è allora detto ἀντίμολπον, da ἀντί, "contro", + grado forte di √μελπ, "cantare" (cfr. la Musa Melpomene, ispiratrice della tragedia): esso "canta contro il sonno", potente espressione, sia in quanto è esso stesso canto sia in quanto compie una sorta di incantesimo (in-cant-esimo: ancora il canto!) contro il sonno.18 κλαίω... στένων: due sinonimi, ma il secondo è un verbo usato solo in poesia: ricchezza della lingua greca, che fin da Omero mette a disposizione dei poeti un lessico stratificato in più registri espressivi.19 διαπονουμένου: participio congiunto a οἴκου.20 γένοιτ᾽: l'ottativo ha qui il suo valore modale originario (optativus < opto, "desidero"), che esprime un'azione augurata o desiderata.21 πόνων: sono le stesse fatiche della guardia di cui al v. 1: ma si noti che, dato che al verso precedente si parla di un palazzo non ben amministrato, οὐ δια-πονου-μένου, l'augurio della vedetta sembra qui comprendere sia la propria liberazione sia quella del palazzo degli Atridi.22 φανέντος: part. aoristo passivo forte di φαίνω, dunque con valore intransitivo (ἐφάνθην "fui mostrato" ≠ ἐφάνην "apparvi"), in costrutto di genitivo assoluto con πυρός. Il fuoco è detto ὀρφναίου, < ὄρφνη, "tenebra": anche qui Eschilo piega la parola a un significato inusuale, in quanto "tenebroso" significa "nelle tenebre" della notte. Ma notate la bellezza

  • dell'espressione: si crea un ossimoro tra i concetti di fuoco e tenebra, luce e buio, e inoltre il termine ὄρφνη è, come il nostro "tenebra", carico di un significato negativo (viene usato anche per gli Inferi): dunque la buona novella del fuoco annunciatore della vittoria squarcerà le tenebre della paura che avvolgono, in questa notte di ansia, la vedetta e il palazzo degli Atridi.

  • Seminario sull'Agamennone

    Breve riassunto degli incontri trascorsi(per chi vuole ripassare e per chi è stato assente)

    3° incontro, 11 Dicembre 2007

    Seconda parte del prologoL'augurio che la vedetta ha espresso nei versi precedenti trova immediato compimento: il fuoco tanto a lungo atteso finalmente si scorge. Col verso 22 inizia così una seconda parte del prologo, nella quale il senso di stanchezza e di scoramento, che finora ha pervaso i versi, lascia spazio a un'esplosione di gioia e al desiderio di far festa. Ma gli ultimi versi che la vedetta pronuncia prima di lasciare la scena sono invece sinistri: c'è qualcosa di grave che essa non può dirci e che "la casa stessa, se prendesse voce, direbbe".Per la metrica, incontriamo tre sostituzioni ai versi 26, 28 e 30, tutte della prima sillaba del trimetro:

    26 Ᾰγᾰμέ̄μνο̆νό̄ς γῠν+ικῐ σή̄μᾱινώ̄ το̆ρώ̄ς (Ᾰγᾰ ⏕)28 ο̆λο̆λ8γμο̆ν έ̄υφη̄μό̄υντᾰ τή̄ιδε λ+μπᾰδ= (ο̆λο̆ ⏕)30 ε̆ᾰλώ̄κε̆ν ώ̄ς ο̆ φρ8κτο̆ς +γγε̄λλώ̄ν πρε̆πέ̄ι (ε̆ᾰ ⏕)

    [N.B.: i simboli di breve e di lunga non indicano la quantità della vocale o dittongo cui sono sovrapposti, ma della sillaba nel suo complesso; ricorda che le sillabe che terminano in consonante sono lunghe anche se contengono una vocale breve]

    Nel verso 26, la presenza del nome proprio Agamennone è condizione necessaria e sufficiente alla presenza di una sostituzione metrica: i nomi propri infatti non hanno sinonimi di differente valore prosodico che il poeta possa usare in loro vece (prosodia: sequenza di quantità sillabiche). Nei versi 28 e 30, invece, Eschilo avrebbe naturalmente potuto, scegliendo altre parole che significassero "grido" ed "è conquistata", fare a meno delle sostituzioni. Forse il poeta ha voluto imprimere a questi versi, nei quali la vedetta esprime in modo concitato il proprio entusiasmo, un ritmo più accelerato (è giudizio condiviso

  • che le sillabe brevi diano maggiore velocità al ritmo).

    Traduzione e commentoLe traduzioni che diamo in questo seminario sono ‘di servizioʼ, ovvero vogliono essere uno strumento per comprendere il testo originale e collocare nel contesto le note del commento. Per questo sono molto letterali, fino a un punto che non sarebbe tollerabile in traduzioni che di servizio non fossero.

    22 Salve, lampa, tu che di notte una diurna23 luce dichiari e l'istituzione di danze24 numerose in Argo in grazie di questo evento.25 Evviva, evviva!26 Alla moglie di Agamennone segnalo distintamente27 di elevare, sorta dal letto, quanto più velocemente per la casa28 un grido di giubilo in onore di questa fiaccola,29 se la città di Ilio30 è conquistata, come la torcia spicca annunciando.

    22 ὦ: i filologi riflettono anche sulle piccolezze, come è questa interiezione che suole accompagnare il vocativo. Raccogliendo una lunga serie di passi tragici e comici in cui compare, essi hanno constatato che i vocativi preceduti da ὦ hanno un tono meno formale di quelli che di ὦ sono privi: il contrario cioè di quanto accade in italiano, dove usiamo "o" quando vogliamo dare un tono più enfatico o solenne al compl. di vocazione. Forse Eschilo ha consapevolmente usato ὦ per caratterizzare il personaggio del φύλαξ: egli si rivolge alla luce del fuoco con un tono familiare, come quello di chi finalmente veda una persona attesa da tanto tempo.

    χαῖρε: imperativo di χαίρω usato come espressione di saluto, equivalente al latino salve (due augùri simili ma diversi: il verbo latino, derivato da salus, fa riferimento alla salute fisica; il verbo greco, derivato da χάρις, al benessere emotivo).

    λαμπτήρ: i suffissi -τηρ / -τωρ servono a formare i cosiddetti nomina agentis, "nomi di chi compie un'azione", come il corrispondente latino -tor (laudator) e di conseguenza l'italiano -tore: se λάμπω significa "splendo", λαμπ-τήρ è ciò che splende, la luce.

    νυκτός: qui c'è un bel problema interpretativo. Con l'interpunzione adottata da West e presente nella maggioranza dei codici, esso è un genitivo di tempo determinato da collegare a πιφαύσκων: "dichiarando di notte". Tre

  • codici tuttavia hanno virgola non prima, ma dopo νυκτός, che così risulta essere un genitivo di specificazione di λαμπτήρ: "luce della notte". L'interpunzione presente nei manoscritti non deve influenzarci, perché essa non risale ad Eschilo: infatti al tempo di Eschilo i segni di interpunzione... non erano ancora stati inventati! Le parole si scrivevano una dopo l'altra senza interpunzione e senza lasciare spazi. La scelta dunque si potrà fare solo soppesando l'alternativa dal punto di vista stilistico e poetico. Sono entrambe due belle immagini: ma la prima ("dichiarando di notte") ha qualcosa in più, perché crea un forte ossimoro (ossimoro: accostamento di parole che esprimono azioni, stati, concetti opposti) tra νυκτός ed ἡμερήσιον (< ἡμέρα) φάος. Eschilo ama la figura dell'ossimoro, che corrisponde alla cifra della sua arte arcaica, possente, ricca di forti contrasti; ne abbiamo già visti due, uno al v. 11 (γυναικός ἀνδρόβουλον) e l'altro al v. 21 (ὀρφναίου πυρός).

    ἡμερήσιον: in che senso la luce del fuoco notturno è detta "diurna"? Forse perché, metaforicamente, essa chiude la lunga ‘notteʼ della paura e dell'angoscia iniziata dieci anni prima con la partenza dell'armata per Troia. "La notte ch'i' passai con tanta pièta" è in Dante (Inferno I, 21) tutto il periodo di traviamento trascorso nella selva oscura.23 πιφαύσκων: cerca di notare l'uso degli aspetti verbali: all'aoristo φανέντος (v. 21), col quale la vedetta immaginava l'improvviso accendersi del fuoco nel buio della notte, si contrappone qui il presente πιφαύσκων, che ci mostra il fuoco che nel buio splende e continua a splendere. Al seminario vi ho detto che πιφαύσκω deriva, tramite raddoppiamento (πι < φι per legge di Grassmann) e suffisso (σκ) dalla stessa radice di φημί; difatti esso per lo più viene usato col significato di un verbum dicendi. Vedo ora nei vocabolari che πιφαύσκω deriva invece da φάος, "luce": dunque è del tutto analogo al nostro "dichiarare", in cui l'uso costante come verbum dicendi ha fatto quasi perdere la coscienza della derivazione da clarus (in altre parole, quando diciamo "dichiaro" facciamo senza accorgercene una sinestesia). Dunque φάος πιφαύσκων equivarrebbe a una figura etimologica, ovverosia una figura retorica che consiste nell'accostamento di due termini che derivano dalla medesima radice ("questa selva selvaggia, e aspra, e forte", Inferno I, 5).

    χορῶν κατάστασιν: χορός è sia "la danza", come qui, sia "il coro", come quello che sta per entrare in scena tra pochi versi. Ma il coro della parodo dell'Agamennone sta per danzare, come vedremo, tutt'altra danza da quella, gioiosa, che la vedetta ora fantastica: dunque questo verso, che fa nascere nel pubblico un'aspettativa che sarà delusa, contribuirà all'effetto di sorpresa che avrà la parodo ormai prossima. La κατάστασις (< κατά + ἵστημι, "metto giù",

  • "stabilisco") è lo stabilimento, l'istituzione di qualcosa: la traduzione con "inizio", spesso adottata, non rende bene questa parola greca.24 πολλῶν: in marcato enjambement rispetto a χορῶν. In greco e in latino è bene essere prudenti nell'individuazione degli enjambements: infatti in queste due lingue, dato che l'ordo verborum è molto libero, la collocazione nel verso successivo di una parola strettamente legata a qualcosa di già detto può essere dovuta al naturale svolgersi del discorso, non a un disegno del poeta. Qui però l'espressione χορῶν κατάστασιν è già in sé completa e non fa presagire la presenza di un aggettivo dopo la piccola pausa di fine verso, per cui trovare πολλῶν al verso seguente fa un certo effetto: e in questo certo effetto consiste appunto l'enjambement (in generale, ricorda che le figure retoriche devono fare un qualche effetto: altrimenti è inutile dire che esse sono presenti in un testo!). Un esempio ancora più sicuro di enjambement è ἐμήν al v. 14, lontanissimo da εὐνήν.

    τῆσδε συμφορᾶς χάριν: come δίκην (v. 3), χάριν funge da preposizione posposta e esprime il compl. di causa o di fine. La vox media συμφορά, che pochi versi prima compariva col valore negativo di "sventura" (18), vale qui il positivo "ventura"; ma nulla ci vieta di usare la nostra vox media "evento".25 ἰοῦ ἰοῦ: esclamazioni extra metrum, che cioè non concorrono a formare un trimetro giambico; del resto non formano neppure un singolo metro giambico, nonostante la prosodia (ῐο̅υ) sembri corrispondervi, perché lo iato (iato: scontro tra due vocali), come quello tra i due ἰοῦ, non è ammesso all'interno di alcun verso greco.26-29 La sintassi non è semplice: σημαίνω regge una infinitiva oggettiva di tipo volitivo ("segnalo di fare una certa cosa": in latino avremmo una completiva con ut) che ha ἐπορθιάζειν come predicato, ὀλολυγμόν come oggetto e αὐτήν (Clitemestra) come soggetto logico; a quest'ultimo è congiunto il participio ἐπαντείλασαν (che pertanto è in accusativo), mentre l'altro participio εὐφημοῦντα è congiunto a ὀλολυγμόν. Dunque costruisci così: σημαίνω (αὐτήν) ἐπορθιάζειν ὀλολυγμὸν εὐφημοῦντα, ἐπαντείλασαν εὐνῆς. Dei due dativi, δόμοις viene inteso come compl. di vantaggio, λαμπάδι come retto da ἐπορθιάζειν. L'uso che Eschilo fa del dativo mette sovente in difficoltà gli interpreti, laddove questo caso appare quasi 'precipitato' nella frase senza che si possa sicuramente comprenderne il rapporto con le altre parole.26 σημαίνω: abbiamo confrontato questa lezione con la variante σημανῶ, futuro. Col presente σημαίνω, l'esclamazione ἰοῦ ἰοῦ costituisce essa stessa il σῆμα, cioè il segnale dato a Clitemestra affinché ella susciti un grido di giubilo: ‘dico "evviva" e con questa esclamazione segnaloʼ. Col futuro σημανῶ, invece,

  • ἰοῦ ἰοῦ risulta un'esclamazione di gioia che la vedetta rivolge a se stessa, rimandando a un secondo momento l'azione di avvisare Clitemestra: ‘dico "evviva", poi segnaleròʼ. In effetti sembra un po' strano che la vedetta possa, semplicemente dicendo ἰοῦ, comunicare un messaggio complesso alla regina; Irene ha però osservato che tra i due poteva esserci un accordo in tal senso, per cui da una parte la regina automaticamente interpreta il grido del φύλαξ nel modo giusto, dall'altra il φύλαξ sa già che cosa la regina a sua volta farà.29 Ἰλίου πόλις: costrutto ovvio e immediatamente traducibile per noi italiani ("la città di Ilio"), ma in realtà non comune in greco, dove "la città di Ilio" dovrebbe dirsi semmai Τρώων πόλις (città dei Troiani), come Atene si dice πόλις Ἀθηναίων.30 ἑάλωκεν: perfetto di ἁλίσκομαι: la vedetta si aspettava una ἁλώσιμον βάξιν (v. 10), la notizia della conquista, ed ecco il fuoco annuncia che la città "è conquistata" (meglio di "è stata conquistata": il perfetto qui indica l'attuale condizione di Ilio). Però nel papiro si leggono tracce delle prime due lettere di questo verso, e queste tracce non corrispondono ad εα. West fa due ipotesi per spiegare questa discrepanza tra codici e papiro (vedi l'apparato): 1) forse nel papiro mancavano i versi 30 e 31, per cui le tracce di quelle due lettere non sono altro che ciò che rimane di τὰ iniziale del verso 32 (spiegazione che non convince, vero?); 2) forse nel papiro c'era un verso in più tra gli attuali 29 e 30. Ma perché, potreste dire, invece di fare strane ipotesi su versi in meno o in più non si fa una congettura che proponga un verbo, alternativo a ἑάλωκεν, che combaci con quelle tracce? Perché evidentemente non se ne trova neppure uno, figuratevi se non ci hanno provato!

    ἀγγέλλων πρέπει: πρέπω col participio predicativo; la traduzione di solito suggerita prevede di assegnare modo e tempo di πρέπω al participio e di rendere πρέπω con un avverbio: "annuncia distintamente".

    31 E proprio io stesso in persona danzerò il proemio:32 difatti metterò a frutto i dadi ben caduti dei padroni,33 dato che questo segnale di fuoco ha per me gettato tre volte sei.34 Ma dunque possa accadere che io la carissima mano35 del signore delle case, ritornato, tenga con questa mano.36 Per il resto, taccio. Un gran bove mi sta sulla lingua.37 Ma la casa stessa, se prendesse voce,38 parlerebbe chiarissimamente. Poiché, per parte mia,39 volentieri parlo a chi sa, per chi non sa volentieri dimentico.

  • 31 αὐτός τ᾽ ἔγωγε: fortissima enfasi, per tre motivi: 1) in greco il pronome soggetto di regola non si esprime, quindi già dire ἐγώ produce enfasi; 2) la particella enclitica γε è rafforzativa; 3) αὐτός = ipse. L'accento che la vedetta pone sul proprio ruolo nella danze di festeggiamento segna uno sviluppo del suo personaggio: finora ci aveva detto che aspettava il segnale di fuoco semplicemente come una liberazione (ἀπαλλαγή), ora dice qualcosa di più positivo.32-33 Versi apparentemente enigmatici, che si spiegano col riferimento a un gioco da tavolo dell'antica Grecia, una sorta di dama nella quale ciascun giocatore poteva a ogni mossa spostare (τίθεσθαι) le proprie pedine di un numero di caselle corrispondente al lancio di tre dadi esagonali, il punteggio massimo essendo pertanto τρὶς ἕξ, tre volte sei (il giocatore lancia, βάλλει; i dadi cadono, πίπτουσι). La guardia si esprime come se i dadi corrispondessero alla sorte degli Atridi (τὰ δεσποτῶν) e dunque essi fossero, adesso che Ilio è presa, εὖ πεσόντα, caduti bene: difatti il segnale di fuoco che annuncia la presa della città è addirittura come un lancio di dadi fortunatissimo, un diciotto. Ma tutto ciò è visto dal φύλαξ in relazione a se stesso, è lui che diviene il protagonista del gioco (θήσομαι): ora potrà compiere la mossa decisiva e vincere la partita, potrà cioè smettere di vegliare la notte sul palazzo degli Atridi. Si può aggiungere che in un certo senso la vedetta immagina se stessa sia nel ruolo del giocatore che compie la mossa (θήσομαι), sia in quello della pedina che compirà il movimento decisivo sul tabellone (χορεύσομαι: danzerò il proemio): ma questo forse è troppo dantesco per trovarsi in Eschilo...34-35 χέρα... χέρι: la ripetizione corrisponde alla figura retorica del poliptòto, ovvero dell'uso di uno stesso termine in due o più casi diversi nell'ambito della stessa frase (‘casoʼ in greco è πτώσις < πίπτω: i casi... cadono!). Non si può essere sicuri che Eschilo l'abbia usata coscientemente: è però probabile che la vedetta accompagnasse queste parole con un eloquente gesto della mano (τῆιδε, "questa", ha valore deittico, cioè dimostrativo).

    μολόντος: part. aor. forte di βλώσκω.36 σιγῶ· βοῦς: asindeto. Generalmente in greco le frasi e i periodi sono collegati tra loro per σύνδεσμος, "legamento" (σύν + δέω), tramite cioè congiunzioni e particelle; rara è la mancanza del σύνδεσμος, cioè l'asindeto. Qui esso sottolinea una breve pausa dopo σιγῶ, pausa che lascia per un attimo risuonare nel silenzio quel sinistro "taccio".

    βοῦς... βέβηκεν: è chiaramente un proverbio. Βέβηκεν, perfetto di βαίνω, non vale come verbo di moto ma indica lo stato ed equivale praticamente a ἐστι o κεῖται; difatti il compl. ἐπὶ γλώσσῃ è di stato in luogo,

  • non di moto a luogo. Ma naturalmente questo verbo si usa solo per cose o persone che stanno in un luogo per esserci arrivate.37-38 οἶκος... λέξειεν: periodo ipotetico della possibilità. Il nome di "periodo della possibilità", ricorda, non significa che la vedetta ritiene possibile che la casa parli (ovviamente questo è impossibile), ma che essa ritiene possibile che, se essa parlasse, dica chiarissimamente ciò che succede: in altre parole, è l'apodosi che è vista come possibile, non la protasi.38 ὡς: la congiunzione ha valore causale ed è periodale, non frasale, introduce cioè un periodo e non una frase subordinata. È un uso possibile anche in italiano.

    μαθοῦσιν: in prosa il participio sostantivato è di regola preceduto dall'articolo, in poesia può farne facilmente a meno.

    κoὐ: crasi di καὶ οὐ, dove la negazione non va con λήθομαι ("non dimentico") ma con μαθοῦσι ("per coloro che non sanno"); ἐκών ("volentieri") va sia con αὐδῶ sia con λήθομαι; quest'ultimo verbo equivale a λανθάνομαι e vale "dimentico".

    Considerazioni conclusiveBene, siamo arrivati alla fine del proemio. Ecco, tradotte dall'inglese, le pagine che ad esso dedica E. Fränkel, autore del migliore commento all'Agamennone.

    "Ogni tragedia dell'Orestea comincia con una preghiera del personaggio che recita il prologo. Nelle Supplici questo personaggio è il coro, durante il prologo di Oreste nelle Coefore anche Pilade è sulla scena; nell'Agamennone invece si tratta di un vero soliloquio. È caratteristico della concezione eschilea del monologo che il parlante non si rivolga al proprio cuore o alla propria mente (come in Omero e nella lirica), ma agli dei o a esseri divini.I prologhi dell'Agamennone e delle Eumenidi sono entrambi recitati da un servitore: sembra che Eschilo abbia in questo seguito il modello di Frinico (il primo grande poeta tragico di cui sappiamo qualcosa), nelle cui Fenice il prologo era affidato a un servo che stava rassettando la sala del Consiglio, cioè a un semplice servitore impegnato nei suoi compiti quotidiani, come la vedetta dell'Agamennone.Qualunque modello possa avere influenzato la forma del prologo dell'Agamennone, nel contenuto esso appare come un'opera di grande originalità e in effetti come uno dei capolavori di discorso drammatico. Raramente il monologo si è dimostrato una forma di espressione così appropriata: la

  • solitudine stessa, una solitudine protratta e snervante, sembra aver trovato voce. Non una sola volta ci viene in mente, leggendolo, che il prologo è in primo luogo un modo di preparare il pubblico introducendo o ricordando fatti e circostanze fondamentali per lo sviluppo della trama. È vero che il φύλαξ alla fine del suo discorso scomparirà per sempre: ma finché è sulla scena egli sembra esser lì in carne e ossa per una propria ragione, non semplicemente per farsi portavoce del poeta. Pur nel suo ristretto ambito d'azione, questo personaggio è perfettamente delineato. La reazione di un uomo semplice e onesto a un compito monotono e faticoso; le sue sofferenze; le sue frustrazioni e speranze: tutto ciò è chiaramente dispiegato dinanzi a noi. Così reali sono gli elementi che causano le sue sofferenze e sono oggetto delle sue riflessioni (dal giaciglio duro e bagnato sul tetto alle lucenti stelle sopra di lui, dai timori per le minacce che incombono sul suo signore al sentimento di immenso sollievo quando il fuoco annuncia la fine del suo impegnativo compito) e così fortemente tutte le sue parole avvincono la nostra mente, che noi non possiamo fare a meno di immedesimarci nel φύλαξ. Non possiamo considerarlo un personaggio secondario che svolge una funzione di mera preparazione: per tutto il tempo che è sulla scena, egli è per noi un compagno, un compagno che soffre.Allo stesso tempo, il principale scopo di un prologo tragico, quello di delineare la cornice entro cui si svolgerà il dramma, è costantemente perseguito, anche se con sobrietà. Innanzitutto, è espressa l'attesa per la presa di Troia (vv. 9-10). Poi gravi parole rendono appieno la grandezza del personaggio di Clitemestra (v. 11). Subito dopo, con una frase di grande emotività si accenna al Male che si prepara nella casa di Agamennone (vv. 18-19), concetto che è poi ripreso alla fine del prologo (vv. 36-39). Così, fin dall'inizio, viene ribattuta quella cupa nota che presto diventerà il leitmotiv dell'intero dramma: l'ossessione di un inevitabile fato di morte comincia a penetrare nella mente del pubblico. Infine, il prologo svela un importante aspetto dell'uomo che è il vero fulcro di questa tragedia. Quali che siano le colpe di Agamennone in altri rispetti, egli è per il suo popolo un signore benevolo, che essi non si limitano a rispettare ma amano. I sentimenti affettuosi e la profonda devozione espressi ai vv. 34-35 non devono essere trascurati. La vedetta sta aspettando il ritorno del re con un fervore e una nostalgia degne di un Eumeo. Così, la prima menzione di Agamennone è diretta a suscitare la simpatia del pubblico nei suoi confronti. Questo dettaglio, tra l'altro, mostra benissimo quanto Eschilo abbia guadagnato dalla sua scelta di non seguire Omero, che (Odissea 4, 524) parlava sì di una vedetta col medesimo compito del nostro φύλαξ, ma assoldata da Egisto e dunque ostile ad Agamennone."

  • Seminario sull'Agamennone

    Breve riassunto degli incontri trascorsi(per chi vuole ripassare e per chi è stato assente)

    4° incontro, 18 Dicembre 2007

    N.B. I primi tre paragrafi di questa dispensa trattano la metrica e sono difficili. Se vuoi puoi anche saltarli e andare subito alla traduzione e al commento, dato che la comprensione del testo può fare a meno della metrica; ma perderesti l'opportunità di capire uno degli aspetti più peculiari della tragedia greca.

    Metrica (1): approfondimento sul concetto di versoTutti i versi del prologo, che abbiamo appena finito di leggere, sono trimetri giambici. Il trimetro giambico è il verso recitato per eccellenza della tragedia greca, anche se non l'unico, e in Eschilo non pone grandi difficoltà di analisi dato lo scarso numero di sostituzioni (⏕, due brevi per una lunga). Con l'ingresso nell'orchestra del coro, e dunque con l'inizio della parodo, è necessario approfondire un po' alcuni concetti di metrica così da comprendere il tipo di verso lì usato, più complesso del trimetro giambico: l'anapesto. Ti avverto che la metrica non è una materia di immediata comprensione: ci vuole pazienza, non pretendere di capire tutto alla prima lettura.Per cominciare, riflettiamo sul concetto stesso di verso. Quando, parlando della metrica di un passo, diciamo che esso "è in trimetri giambici", che cosa intendiamo? Innanzitutto che misurando (metrica < μετρικὴ τέχνη, "arte della misurazione": μέτρον = "misura") le sillabe di quel passo otteniamo delle sequenze di sillabe brevi e lunghe che corrispondono alla ripetizione di uno schema fisso: lo schema, appunto, del trimetro giambico (vd. 1° incontro).Ciò è corretto; ma non esaurisce affatto la questione.Un "verso" infatti non è semplicemente una sequenza prefissata di sillabe brevi e lunghe, ma possiede numerose altre caratteristiche. Fra tutte, fondamentale è la seguente:

    ogni verso presuppone al suo termine una pausa, la pausa di fine verso, che lo divide dalla sequenza metrica successiva

    Dall'esistenza di questa pausa derivano due conseguenze:

  • 1) Tra la fine di un verso e l'inizio del successivo è ammesso lo iato. Lo iato è la successione di due vocali appartenenti a parole diverse: fenomeno normale in italiano ma assolutamente sgradito ai greci, che spesso lo evitavano anche in prosa e in poesia lo escludevano con rarissime eccezioni. Il nome stesso di iato rimanda a quella vistosa apertura della bocca (lat. hio, "spalanco la bocca") che è necessaria per pronunciare distintamente due vocali contigue che non siano ‘dolcemente collegateʼ da una consonante. Mentre all'interno di un verso non ci può essere iato, grazie alla pausa di fine verso un verso può finire in vocale anche quando quello successivo inizia per vocale.Per esempio, Agamennone vv. 6-7:

    λαμπροὺς δυνάστας, ἐμπρέποντας αἰθέριἀστέρας ecc.

    Oppure vv. 12-13:εὖτ᾽ ἂν δὲ νυκτίπλαγκτον ἔνδροσον τ᾽ ἔχωεὐνήν ecc.

    2) La sillaba finale del verso può essere breve anche se lo schema metrico richiede una sillaba lunga. Ciò si spiega così: la pausa di fine verso in un certo senso compensa la brevità della sillaba, lasciandola risuonare più a lungo e dunque allungandola. Nel trimetro giambico, che in ultima posizione richiede una lunga (il metro giambico è x–⏑–), si trovano di frequente sillabe brevi.Per esempio, Agamennone 8:

    καὶ νῦν φυλάσσω λαμπάδος τὸ ξύμβολο̆ν (λο̆ν vale come lunga)Oppure v. 34:

    γένοιτο δ᾽ οὖν μολόντος εὐφιλῆ χέρᾰ (ρᾰ vale come lunga)Come ricorderai, nello schema del trimetro giambico si tiene conto di questo fenomeno usando per l'ultima sillaba il simbolo ⏓:

    x–⏑– x–⏑– x–⏑⏓

    Metrica (2): i versi composti da colaSe hai capito quello che abbiamo detto, esaminiamo la prima parte della parodo dell'Agamennone:

    40 δέκατον μὲν ἔτος τόδ᾽ ἐπεὶ Πριάμωι μέγας ἀντίδικος Μενέλαος ἄναξ ἠδ᾽ Ἀγαμέμνων διθρόνου Διόθεν καὶ δισκήπτρου τιμῆς ὀχυρὸν ζεῦγος Ἀτρειδᾶν

  • στόλον Ἀργείων χιλιοναύτην45 τῆσδ᾽ ἀπὸ χώρας ἦραν, στρατιῶτιν ἀρωγήν,

    μέγαν ecc.

    Come vedi, alcuni righi, la maggioranza, vengono stampati con un piccolo rientro, in modo che ogni tanto resti in evidenza un rigo privo di rientro. Si fa così per far capire che tutte le parole da δέκατον a ἀρωγήν comprese (e di nuovo da μέγαν fino all'ultima parola dell'ultimo rigo rientrato, e così via) formano un unico verso: ebbene sì, un unico verso molto lungo, divisibile però in delle unità più piccole e di lunghezza variabile che vengono chiamate i cola (sing. colon: κῶλον = "membrο"). Nella nostra edizione i cola corrispondono ai righi; quelli dei righi 40 e 45 sono più lunghi.A questo punto puoi trarre da solo due conclusioni:

    • da δέκατον a ἀρωγήν non ci può essere neanche uno iato, neppure alla fine dei righi, perché siamo all'interno di un unico verso

    • ἀρωγήν invece (ultima parola del verso) potrebbe anche essere in iato col verso successivo e finire in sillaba breve sebbene lo schema richieda la lungaIn effetti con ἀρωγήν ciò non capita; ma se proseguiamo nella parodo vedrai subito entrambi questi fenomeni:

    46 μέγαν ἐκ θυμοῦ κλάζοντες ἄρη, τρόπον αἰγυπιῶν οἵτ᾽ ἐκπατίοις ἄλγεσι παίδων ὕπατοι λεχέων στροφοδινοῦνται πτερύγων ἐρετμοῖσιν ἐρεσσόμενοι, δεμνιοτήρη πόνον ὀρταλίχων ὀλέσαντε̆ς· (τε̆ς vale come lunga!)

    55 ὕπατος ecc.

    67 Τρωσί θ᾽ ὁμοίως. ἔστι δ᾽ ὅπῃ νῦν ἐστι· τελεῖται δ᾽ εἰς τὸ πεπρωμένον· οὔθ᾽ ὑποκαίων οὔτ᾽ ἐπιλείβων

    70 οὔτε δακρύων ἀπύρων ἰερῶν ὀργὰς ἀτενεῖς παραθέλξει.ἡμεῖς ecc. (iato tra παραθέλξει e ἡμεῖς!)

    Insomma, devi abituarti a considerare questi gruppi di righi come delle sequenze metriche unitarie, che si snodano colon dopo colon e si concludono solo dove sarebbe lecito uno iato o una breve al posto di una lunga. Del resto il

  • lavoro di analisi lo ha già fatto per noi l'editore, il nostro West: il modo in cui il testo è stampato non lascia dubbi sulla sua struttura metrica.Come ha notato Elena, evidentemente non era previsto ‘prendere fiatoʼ alla fine dei singoli cola, almeno non più di quanto si potesse fare in altri punti all'interno del verso.Ora, se hai capito anche questo, sei pronto per vedere come è fatto l'anapesto.

    Metrica (3): l'anapestoIl metro anapesto corrisponde alla duplicazione del seguente piede (piede: unità in cui è analizzabile un metro, ma che da sola non viene usata):

    ⏖‒È ammessa sia la sostituzione delle due brevi con una lunga, che produce quello che può sembrare uno spondeo (due lunghe):

    ⏔‒[leggi: lunga al posto di due brevi + lunga]

    sia, una volta che si sono sostituite le prime due brevi, la sostituzione della lunga originale, che produce quello che può sembrare un dattilo:

    ⏔⏕[leggi: lunga al posto di due brevi + due brevi al posto di una lunga]

    Ho detto "quello che può sembrare spondeo o dattilo" perché è solo la prosodia che corrisponde a quella di uno spondeo o di un dattilo: il ritmo è diverso. Infatti nel vero dattilo e nel vero spondeo (assumendo come 'vero' lo spondeo derivato dal dattilo) l'accento è sulla prima parte del piede, mentre nello pseudo-spondeo e pseudo-dattilo derivati dall'anapesto è sulla seconda:

    vero spondeo: ‒́‒ pseudo spondeo: ‒‒́vero dattilo: ‒́⏖ pseudo dattilo: ‒⏑́⏑

    Ciò avviene perché nel piede anapestico di forma base l'accento va sulla sillaba lunga (⏖‒́) e pertanto anche nelle sostituzioni si mantiene lo stesso ritmo.

    Dato che, come abbiamo detto, il metro anapestico è formato da due piedi, tenendo conto delle possibili sostituzioni questo è il suo schema:

    ⏔⏕ ⏔⏕Si capisce che le realizzazioni possibili dell'anapesto sono svariate: esso permette più variazioni del giambo. Eschilo non le sfrutta tutte, perché per esempio evita di sostituire solo la lunga (a quanto pare non gradiva quattro brevi di fila: ⏖⏕); Euripide, che nell'uso dei metri è molto più fantasioso, farà di tutto.

  • Adesso riprendiamo il primo lungo verso della parodo, suddiviso nei cola dal rigo 40 al 46, e vediamo quali sostituzioni ci sono; come al solito non scrivo accenti e spiriti così che vediate meglio lo schema metrico:

    δε̆κᾰτό̄ν με̆ν ε̆τό̄ς / το̆δ᾽ ε̆πέ̄ι Πρῐᾰμώ̄ι / με̆γᾰς jντῐδῐκό̄ς nessuna sost. Με̆νε̆λjο̆ς ᾰνjξ / η̄δ᾽ Ᾰ́γᾰμε̄μνώ̄ν 3° datt, 4° spond δῐθρο̆νό̄υ Δῐο̆θέ̄ν / κᾱι δ8σκη̄πτρό̄υ 3° spond, 4° spond τῑμή̄ς ο̆χῠρό̄ν / ζε̄υγό̆ς Ᾰτρε̄ιδ>ν 1° spond, 3° datt, 4° spond στο̆λο̆ν Ᾰργε̄ιώ̄ν / χῑλ@ο̆νᾱυτή̄ν 2° spond, 3° datt, 4° spond τη̄σδ᾽ Aπο̆ χω̄ρ>ς / η̄ρ>ν, στρᾰτῐώ̄τῐν ᾰρώ̄γη̄ν, 1° datt, 2° spond, 3° spondμέγαν ecc.

    Ancora due cose da notare: 1) le barrette oblique segnalano le dieresi, cioè delle suddivisioni interne dei cola tra un metro e l'altro; 2) l'ultimo colon ha una sillaba in meno, in quanto -γην è solo la prima metà di un piede anapestico. Questo fenomeno si chiama catalessi (catalessi: "mancanza", λείψις, di una sillaba "in fondo", κατά, al verso). Eschilo in questa parodo usa sistematicamente la catalessi alla fine dei lunghi versi anapestici: perché? Perché la catalessi spezza il ritmo, lo ferma, e così segnala la fine del verso. Abbiamo così, dopo lo iato e la breve al posto di una lunga, un terzo fenomeno che ci consente di individuare la fine dei versi anapestici: la catalessi.

    Con ciò abbiamo affrontato tutte le difficoltà legate alla comprensione della metrica. Adesso possiamo tranquillamente parlare di questo coro.

    La parodo: sezione anapesticaCome sappiamo, il coro della tragedia è composto da danzatori/cantanti che, appunto, compiono una danza cantando. Come risulta dal testo di questa tragedia e di quasi tutte le altre che ci sono rimaste, il canto era di tipo strofico, cioè realizzato con la ripetizione di una stessa melodia prima nella strofe e poi nell'antistrofe (antistrofe: strofe di rimando, di risposta). Noi, che non possediamo più le melodie, deduciamo ciò dalla metrica: sembra ovvio infatti che a una coppia di sequenze metriche uguali, che riscontriamo nel testo di strofe e antistrofe, corrispondesse una medesima melodia. Dato che il coro, lo ripetiamo, danzava, sembra plausibile che anche i passi di danza dell'antistrofe

  • dovessero corrispondere a quelli della strofe; e in effetti l'etimologia stessa di strofe ("volta", < στρέφω) e di antistrofe ("controvolta") fa pensare a movimenti di danza che il coreuta prima compie in una direzione, poi nell'altra.Si susseguivano diverse coppie di strofe + antistrofe; la melodia poteva essere o sempre la stessa o diversa per ciascuna coppia. Ma attenzione: la sezione strofica della parodo dell'Agamennone inizia non al rigo 40, bensì al rigo 104, come vedi nell'edizione West dall'indicazione marginale "str. 1": da lì in poi dobbiamo immaginare i coreuti che, disposti armoniosamente nell'orchestra, compiono le loro evoluzioni di danza mentre cantano all'unisono. Ma allora che cosa sono i righi 40-103?Per capirlo bisogna porsi un'altra domanda: i coreuti come arrivano all'interno dell'orchestra? Voglio dire: entrano quatti quatti mentre la vedetta sta ancora parlando? entrano dopo che la vedetta è uscita, e il pubblico deve aspettare che essi camminando in silenzio vadano a prendere posizione? Niente di tutto questo: anche l'ingresso del coro è parte integrante della tragedia, che in mancanza di sipario si svolge tutta sotto gli occhi... e gli orecchi del pubblico. Dopo l'uscita di scena della vedetta, dagli ingressi laterali (πάροδοι) il coro entra solennemente, marciando, preceduto da un suonatore di flauto (l'auleta, < αὐλός = "flauto"): durante la marcia declama i vv. 40-103, cioè i versi della sezione anapestica della parodo dell'Agamennone. Proprio "anapesti di marcia" è il nome che si dà a versi come questi dell'Agamennone, agli anapesti cioè declamati da un coro durante l'ingresso.La parodo è pertanto composta di due sezioni distinte: la sezione anapestica, nella quale il coro entra nell'orchestra e declamando gli anapesti va a disporsi per il successivo canto; la sezione strofica, nella quale danza e canta usando vari metri lirici.L'anapesto è un verso dal ritmo marcato, con i cola ben scanditi dalle dieresi, dunque adatto a una marcia: anche l'etimologia del nome ("ribattuto", < ἀναπαίω) richiama un passo di marcia. Inoltre è un verso che si presta bene sia alla recitazione, sia al canto. Si ritiene che gli anapesti di marcia non fossero né un canto vero e proprio, né una recitazione vera e propria, ma (utilizzando un termine musicale dell'opera) un "recitativo"; quest'ultimo termine indica (cito da un dizionario) uno "stile di canto che tende a riprodurre, attraverso una recitazione intonata, la naturalezza e la flessibilità della lingua parlata". Il coro forse recitava questi versi intonandoli sulle note del flauto.La sezione anapestica fa così da transizione, col suo recitativo, tra il recitato del prologo e il canto della sezione strofica: l'Agamennone inizia insomma con una imponente climax musicale.

  • Traduzione e commento

    40 Questo è il decimo anno da quando, grande avversario di Priamo, il sire Menelao e Agamennone, di un onore dal duplice trono e dal duplice scettro, che viene da Zeus, saldo giogo degli Atridi,

    45 la flotta di mille navi degli Argivi da questa terra fecero salpare, militare sussidio,dal cuore gridando a gran voce "guerra!"

    50 come avvoltoi che, pei dolori remoti dei figli, sommi sui loro giacigli volteggiano in giro,

    remando coi remi delle ali, avendo perduto la fatica della veglia sul letto dei pulcini.

    40 ἐπεί: "da quando"; in prosa si direbbe ἐξ οὗ.Πριάμῳ: dativo di svantaggio retto da ἀντίδικος, come di regola con

    aggettivi che indicano amicizia (es. φίλος) e ostilità (ἐχθρός), somiglianza (es. ὁ αὐτός) e differenza (οὐχ ὅμοιος). Nel codice τ la lezione Πριάμου è una banalizzazione, cioè l'introduzione di una forma più facile.

    ἀντίδικος: termine del lessico giudiziario, indica l'avversario in una causa. È il primo di una lunga serie di termini attinti dal lessico giudiziario usati nell'Agamennone. È attributo di Μενέλαος; il suo avversario è Priamo, anche se ci si aspetterebbe Paride.

    ἄναξ: il termine consueto in Omero per un re acheo.διθρόνου... καὶ δισκήπτρου: la predilezione di Eschilo per gli aggettivi

    composti e in generale per i paroloni era così spiccata che Aristofane la mise in ridicolo nelle sue Rane. In questa commedia il genio indiscusso della commedia antica immagina che Eschilo e Euripide si incontrino nell'Ade e, davanti al dio Dioniso in persona, nume tutelare della tragedia, si prendano a... versi in faccia per dimostrare la propria superiorità. E sentite che cosa dice Euripide del collega (vv. 924-26): "Poteva buttare là una dozzina di paroloni grossi come buoi, pieni di cipiglio e di pennacchi: certi mostruosi spaventapasseri, che il pubblico non conosceva neppure"! Ma non preoccupatevi, il nostro Eschilo si difende bene: "Per grandi concetti e pensieri occorre dar vita anche a parole grandi in proporzione" (v. 1058).

    Διόθεν: il suffisso -θεν, che esprime il moto da luogo, qui in maniera sintetica indica l'origine divina (ma qui si parla di Zeus, mi raccomando, non di "Dio"...) della regalità simboleggiata dal trono e dallo scettro. Il colon è

  • caratterizzato da una vistosa allitterazione in dentale: διθρόνου Διόθεν καὶ δισκήπτρου. I poeti greci erano molto attenti ai suoni, tanto più in contesti dove era presente la musica. Qui l'effetto dell'allitterazione è di accentuare il ritmo martellante dell'anapesto di marcia.

    τιμῆς... Ἀτρειδᾶν: entrambi i genitivi specificano, ognuno a suo modo, ciò in cui consiste lo ζεῦγος, il giogo, la coppia. La desinenza -ᾶν è dorica (contrazione di αω in α invece che in ω). La lingua usata nelle liriche dei cori tragici contiene regolarmente quella che viene definita una patina dorica, ottenuta perlopiù adottando il vocalismo tipico di quel dialetto greco, di cui è caratteristico il mantenimento di ᾱ laddove in attico e ionico si passa a η. Nel far ciò i tragediografi attici rispettavano una tradizione: il canto corale infatti nasce molto prima della tragedia e nasce in ambito dorico: dorici, spartani in particolare, sono i primi grandi poeti della lirica corale. Il rispetto della tradizione è una caratteristica di tutta la poesia greca: è il genere poetico, non la nazionalità del poeta, che determina il metro e la lingua che vengono usati. Dato che qui siamo ancora nella sezione anapestica e recitativa, non in quella strofica e lirica, gli editori considerano Ἀτρειδᾶν una forma dorica isolata. A dir la verità, se dai un'occhiata all'apparato noterai che in altri due punti i codici presentano una desinenza dorica: χιλιοναύταν e ἀρωγάν; ma West preferisce normalizzarle e le sostituisce con la forma attica (non tutti gli editori lo fanno).45 χιλιοναύτην: altro aggettivo composto. La cifra di mille non è iperbolica, ma arrotondata rispetto al totale di 1186 ricavato dal catalogo delle navi in Iliade II. Eschilo veramente parla qui di Argivi, non di Achei, per cui le navi dovrebbero essere molte di meno, anche intendendo Argivi come Peloponnesiaci in generale.

    ἦραν: aoristo I asigmatico di αἴρω, "sollevo", qui usato nel significato tecnico di "faccio salpare". Le barche, ricorda, non erano ormeggiate, ma tratte in secco, per cui per metterle in mare era necessario sollevarle; da qui l'uso del verbo αἴρω si estende alle grandi navi, che naturalmente non venivano sollevate ma fatte scivolare; sbaglia il GI quando dice che si intende "sollevare l'ancora".

    στρατιῶτιν ἀρωγήν: l'apposizione sembra un po' fiacca, e in ogni caso è più debole di στόλον χιλιοναύτην cui si riferisce. Fränkel spiega però che anche ἀρωγή è un termine del lessico giudiziario, indicante chi in una causa sostiene una delle due parti. Eschilo dice insomma che tutti gli Argivi sostengono Menelao nella causa che lo vede impegnato contro Priamo.

    κλάζοντες ἄρη: il nome del dio della guerra, Ἄρης, viene usato come sinonimo di πόλεμος (figura retorica dell'antonomasia). Secondo Fränkel ἄρη (accusativo) non è semplicemente il compl. oggetto di κλάζοντες (gridando un

  • grido di guerra), ma il contenuto stesso del grido (gridando "guerra!"); in questo caso risulta fastidioso l'aggettivo μέγαν, che è concordato ad ἄρη, poiché, mentre sembra logico che uno possa gridare "guerra!", non ci si immagina uno che gridi "grande guerra!". Personalmente accetterei la congettura μεγάλ᾽, dove μεγάλα ha valore avverbiale ("grandemente, a gran voce") e va con κλάζοντες; tra l'altro Eschilo sta qui imitando un passo di Omero, davvero molto simile, nel quale c'è l'espressione μεγάλα κλάζοντε.50 τρόπον αἰγυπιῶν: inizia una maestosa similitudine, imitata da Omero nel contenuto ma tutta espressa in stile eschileo. I due Atridi, addolorati per la sottrazione di Elena da casa da parte di Paride, alla partenza della flotta hanno elevato un grido di guerra; sono ora paragonati a una coppia di avvoltoi che, constatata la sottrazione dei piccoli dal nido, gridano mentre volteggiano su di esso battendo lentamente le grandi ali.

    ἐκπατίοις: un punto di ardua comprensione: in tutta la letteratura greca rimasta l'aggettivo compare solo qui! L'etimologia (ἐκ + πάτος, che è il "sentiero battuto") fa intuire il significato proprio di "remoto", ma potrebbe anche valere il significato traslato di "straordinario, enorme". Nel primo caso avremmo la figura retorica dell'enallage, ovvero un aggettivo che grammaticalmente è concordato a un nome ma logicamente è riferito a un altro ("Il divino del pian silenzio verde", Carducci, Il bove v. 14): difatti "remoti" sono ovviamente i figli degli avvoltoi che sono stati sottratti dal nido, non i dolori degli avvoltoi per i loro figli. Nel secondo caso il passo risulta più scorrevole, ma non si capirebbe perché Eschilo abbia usato questo raro aggettivo per esprimere un significato tanto comune come "enorme". La congettura ἐκπάγλοις non merita credito perché, come ha notato Elena, è improbabile che un copista sostituisca una forma più comune (ἐκπάγλοις) con una molto rara (ἐκπατίοις).

    ὕπατοι: qui West addirittura mette le croci, a indicare che secondo lui la parola è un errore che nessuno è riuscito a sanare in modo convincente. Altri editori la accettano: stiracchiando un po' la sintassi, "sommo" regge il genitivo λεχέων nel senso di sul nido, per influsso della costruzione di ὑπέρ da cui ὕπατος deriva.

    στροφοδινοῦνται: altro parolone, formato da due radici di significato analogo, ma col secondo elemento più forte: στροφή è il voltarsi, da στρέφω, mentre δίνη è addirittura un gorgo.

    ἐρεσσόμενοι: bella metafora, perfettamente calzante al volo di rapaci con una grande apertura alare. Fränkel nota che Eschilo ribalta qui una metafora, abbastanza comune, con la quale le navi sono dette "volare". L'unione di

  • ἐρετμοῖσιν a ἐρεσσόμενοι è un altro esempio di figura etimologica (vd. v. 23).δεμνιοτήρη πόνον: difficile tradurre queste parole. Il πόνος ὀρταλίχων,

    "la fatica dei pulcini", è la fatica che gli avvoltoi hanno fatto per accudire i pulcini (genitivo oggettivo); essa è δεμνιοτήρη in quanto gli avvoltoi sorvegliano, τηροῦσι, il letto, δέμνιον, dei pulcini. Gli avvoltoi la hanno "persa" (ὄλλυμι) in quanto ne hanno perso il frutto, ovvero i pulcini stessi.

  • Seminario sull'Agamennone

    Breve riassunto degli incontri trascorsi(per chi vuole ripassare e per chi è stato assente)

    5° incontro, 3 Gennaio 2008

    Metrica (1): colometriaRiprendiamo il discorso sulla metrica dell'anapesto. Abbiamo detto che i singoli righi, a partire da ognuno di quelli stampati senza rientro fino all'ultimo tra quelli successivi stampati con rientro, sono cola, cioè ‘membriʼ di un unico organismo, di un unico verso anapestico: per esempio, il primo verso anapestico della parodo va da δέκατον del rigo 40 fino ad ἀρωγήν del rigo 46. L'immagine che ti suggerisco di ricordare è –poco ortodossa ma calzante– quella di un serpente che si snoda scendendo di rigo in rigo, con la testa sulla prima parola del primo colon e la coda sull'ultima parola dell'ultimo colon: un unico organismo, ripeto, suddivisibile in segmenti. Solo alla fine del verso c'è la pausa di fine verso, che permette la presenza dello iato e della sillaba breve al posto della lunga (permette: è una possibilità, non una necessità); i cola invece stanno tra loro in sinafìa, cioè in "collegamento" (< συνάπτω, "attacco insieme").Questa immagine può aiutarti a comprendere un altro aspetto del verso anapestico cantato: il fatto che la lunghezza dei singoli cola risponde spesso a un criterio soggettivo dell'editore. Difatti, se confrontiamo l'edizione di West con altre edizioni, vediamo che praticamente non ci sono due colometrie (colometria: misurazione dei cola, ovvero suddivisione del verso in cola) uguali. I cola anapestici possono essere composti da un solo metro (monometri), da due (dimetri), da tre metri (trimetri). Ebbene, West fa cominciare il primo verso della parodo con un trimetro (δέκατον μὲν ἔτος / τόδ᾽ ἐπεὶ Πριάμωι / μέγας ἀντίδικος), mentre la maggioranza degli editori con un dimetro (δέκατον μὲν ἔτος / τόδ᾽ ἐπεὶ Πριάμωι); e via via ci sono numerosi sfalsamenti tra le edizioni. Ciò tutto sommato ha ben poca importanza, dato che tra un colon e l'altro non c'è la pausa di fine verso ma la sinafia. Il nostro ‘serpenteʼ, insomma, può snodarsi in tanti modi diversi: la lunghezza complessiva resta la stessa, ma la lunghezza dei singoli membri può cambiare.[Per i curiosi: il colon di quattro metri, tetrametro, è usato nell'anapesto

  • recitato dove, dotato di pausa di fine verso e ripetuto κατὰ στῖχον, cioè “di fila”, assume il rango di verso vero e proprio, analogo al trimetro giambico.]A questa variabilità della lunghezza dei cola è dovuta la singolare numerazione dei righi: come vedi, la progressione delle cifre (40, 45, 50: la numerazione è ogni cinque) non corrisponde alla progressione dei righi. Ciò accade perché gli editori, anche se cambiano la colometria, non cambiano invece la tradizionale numerazione dei righi, al fine di mantenere tra un'edizione e l'altra la corrispondenza delle citazioni.Della colometria dei testi tragici si erano già occupati i famosi grammatici alessandrini, cioè quegli studiosi che nell'epoca ellenistica ebbero a disposizione la prodigiosa biblioteca del Museo di Alessandria e svilupparono come non mai l'arte della filologia. Nei codici a volte abbiamo delle tracce del loro lavoro.

    Metrica (2): catalessiVale la pena anche di tornare anche sul concetto di catalessi. Come ricorderai, la fine del verso anapestico è segnata dalla catalessi, cioè dalla mancanza dell'ultima sillaba nell'ultimo metro: τη̄σδ᾽ Cπο̆ χω̄ρEς / η̄ρEν, στρᾰτῐώ̄/τῐν ᾰρώ̄γη̄ν(ν́̄). Il metro catalettico si presta a chiudere il verso in quanto la mancanza di una sillaba ferma il ritmo, interrompe il flusso regolare di anapesti, impone una pausa.Ora, sembra logico che alla pausa del ritmo debba corrispondere una pausa della sintassi: in corrispondenza della conclusione del periodo metrico, cioè, dovrebbe concludersi anche il periodo sintattico; non a caso è proprio period il termine usato dai filologi anglosassoni per definire un verso composti da cola. Questo è un punto importante quando si parla di metrica, perché sarebbe del tutto sbagliato considerare la metrica un gioco di simboli di breve e di lunga ‘senza nulla sottoʼ: la metrica è fatta di parole, di espressioni, di frasi, di periodi, non di simboli astratti; sono le parole, le espressioni, le frasi e i periodi che vengono recitati e cantati, non gli schemi metrici. Pertanto è logico che ci si debba aspettare una corrispondenza, più o meno stretta, tra sintassi e metro.Ebbene, se esaminiamo la parodo dell'Agamennone, vediamo che effettivamente una corrispondenza del genere c'è: su 10 catalessi, 8 coincidono con un segno di interpunzione forte. Ma ci sono anche due eccezioni: ἀρωγήν del rigo 46 e Δαναοῖσιν del rigo 66. Nel primo caso abbiamo comunque fine di frase, anche se non di periodo (la frase al participio prosegue il medesimo periodo), per cui l'eccezione non fa scalpore. Nel secondo invece Δαναοῖσιν è subito ripreso da Τρωσί θ᾽ ὁμοίως e dunque sembra che siamo di fronte a una clamorosa

  • mancanza di pausa sintattica; di essa i critici hanno cercato di capire il motivo. Il celebre Gottfried Hermann (un filologo dell'Ottocento che qualsiasi studente di lettere classiche impara presto a conoscere) sostenne che Eschilo abbia qui in realtà dimostrato il suo talento: difatti, dato che con la catalessi il periodo sintattico solitamente si conclude, e dato che questo periodo sembra effettivamente concluso col compl. di termine Δαναοῖσιν, nel momento in cui inaspettatamente il discorso prosegue con Τρωσί θ᾽ ὁμοίως la menzione dei Troiani riceve, dice Hermann, una "forza del tutto particolare". Non male come spiegazione! Ma se un giorno scoprissimo invece che Τρωσί θ᾽ ὁμοίως non l'ha scritto Eschilo ma è una interpolazione (interpolazione: parola inserita nel testo da qualcuno che non sia l'autore) di un lettore, a cui sembrava impossibile che Eschilo attribuisse le lotte e le sofferenze della guerra di Troia solo ai Danai?Comunque, le eccezioni alla corrispondenza tra periodo metrico e periodo sintattico negli anapesti di Eschilo sono pochissime: Fränkel cita solo altri tre passi, tutti delle Supplici, la tragedia più antica tra le sette conservate.Un'ultima notizia: il dimetro anapestico catalettico si è meritato per la sua importanza un nome particolare, quello di paremiaco, letteralmente "proverbiale": difatti era molto usato nei proverbi.

    Traduzione e commentoRipeto che la traduzione è letteralissima e di servizio.

    55 Ma sommo udendo o un Apollo, o Pan, o Zeus il lamento con voce di uccello, dall'acuto grido, di questi meteci invia ai trasgressori l'Erinni che tardi punisce.

    60 E così i figli di Atreo colui che è più forte invia contro Alessandro, il protettore degli ospiti Zeus, per una donna dai molti uomini lotte numerose e fiaccanti le membra (piegandosi nella polvere il ginocchio

    65 e consumandosi nei riti preliminari la lancia) volendo porre ai Danai,e ai Troiani ugualmente. Ma la cosa sta come ora sta: si sta compiendo verso il destino. Né bruciando da sotto né libando da sopra né piangendo con sacrifici senza fuoco placherà le ire inflessibili.

  • 55 ὕπατος: riprende palesemente ὕπατοι degli avvoltoi al rigo 51: gli avvoltoi hanno visto dall'alto il nido depredato, gli dèi odono da ancora più in alto gli avvoltoi che si querelano. Morfologicamente è un aggettivo derivato dalla preposizione ὑπέρ, come in latino superus da super: il significato è analogo a quello del superlativo supremus (da cui summus per sincope e assimilazione: supremus > *supmus > summus), dunque la traduzione non può essere che "sommo".

    ἀΐων: nota bene come è scritto: i due puntini sullo iota sono il segno della dieresi, cioè della separazione tra alfa e iota che non formano dittongo; pertanto lo spirito si scrive sull'alfa e l'accento si pronuncia sullo iota.

    τις: l'aggettivo indefinito, che letteralmente è strano ("o un Apollo"), qui vale nel senso di "un dio, o Apollo o Pan o Zeus". Ci si è chiesti perché Eschilo menzioni proprio questi tre dèi come protettori degli avvoltoi offesi. Zeus è naturalmente presente come dio garante della giustizia (tema caro a Eschilo e centrale nell'Agamennone, brava Elena) e in particolare -viene detto subito dopo- come protettore degli ospiti; Pan è un dio silvestre, venerato soprattutto nella montuosa Arcadia, quindi a buon diritto vicino agli avvoltoi e al loro habitat; ma perché Apollo? Fränkel dice che non è nota una particolare associazione di Apollo con i monti e riporta le ipotesi alternative di molti critici: Apollo come dio cacciatore, come dio del vaticinio, come protettore degli uccelli in genere, concludendo: "forse è meglio ammettere che non sappiamo quale speciale motivo abbia avuto il poeta per menzionarlo". A me pare che un buon motivo potrebbe essere l'associazione tra Apollo e il Sole, il Sole che tutto vede e al quale non sfugge l'offesa subita dagli avvoltoi. A questo proposito posso citare un testo ellenistico di mitografia chiama