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    L’opera dalle origini al Settecento (escluso Mozart)

    1. Definizione di opera in musica

    L'opera lirica può essere definita come la rappresentazione scenica di un'azione i cui personaggi si

    esprimono fondamentalmente cantando: “lirico” è un aggettivo sinonimo di “cantato” o “cantante”,e l'elemento che distingue l'opera dalle altre forme di teatro è proprio il fatto che i personaggi,

    anziché parlare, cantano.

     Non basta dunque, per fare un'opera, che un testo drammatico si avvalga in qualche sua parte di un

    accompagnamento musicale o di canzoni, perché non da questo, in tali casi, i personaggi ricevono

    la loro fisionomia essenziale. Rientrano nella storia dell'opera anche quei generi in cui, nonostante

    la presenza di passi di recitazione parlata, l'espressione vocale-musicale ha però un peso decisivo, e

    sono l’opéra-comique, e il singspiel .

    Oltre a quanto detto, bisogna precisare che non ogni stile di canto è adeguato al genere dell'opera inmusica, e per questa ragione, come vedremo, non vengono considerate opere le prime “favole

     pastorali” completamente musicate di cui si ha notizia: Il satiro, La Disperazione di Fileno, e Il

     gioco della cieca, tutte musicate dal gentiluomo romano Emilio de’ Cavalieri (1550 ca.-1620), sutesti di Laura Guidiccioni, e rappresentate a Firenze tra il 1591 e il 1595. La ragione consiste nel

    fatto che le loro musiche, che non ci sono pervenute, per quanto ne sappiamo si fondavano su forme

    musicali preesistenti ai fermenti culturali che erano stati alla base della nascita dell'opera, ed erano

    quindi forme inadatte a esprimere personaggi e situazioni drammatiche.

    Si è considerata invece a lungo come la prima opera della storia la Dafne del romano Jacopo Peri

    (1561-1633) e del nobile fiorentino Jacopo Corsi (1561-1604) su testo del fiorentino Ottavio

    Rinuccini (1562-1621) rappresentata in casa dello stesso Corsi a Firenze, certamente nel carnevaledel 1598 (forse anche prima), e ripresa varie volte negli anni successivi; ma è difficile giudicarla

    sulla base dei pochi frammenti che ce ne sono pervenuti.E’invece considerata unanimemente la prima vera opera l' Euridice musicata da Peri su testo di

    Rinuccini, e rappresentata a Firenze il 6 ottobre 1600 (a spese del citato Jacopo Corsi), nell'ambito

    dei festeggiamenti per il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV, re di Francia.

    Al momento della rappresentazione, il musicista Giulio Caccini (1550 ca.-1618) impose che i suoi

    allievi interpreti dell'opera sostituissero la musica di Peri con musica sua, inoltre nei mesi successivi

    completò e pubblicò una sua partitura dell' Euridice che fu però eseguita nel 1602. Solo qualche

    mese più tardi apparve la stampa della partitura di Peri, primo esempio perfetto del nuovo genere, e

    il più antico di cui abbiamo conoscenza diretta.

    2. Premesse

    Prima di parlare del nuovo genere è però necessario accennare alle sue premesse storiche: unaspecificamente musicale (la monodia accompagnata), e l'altra teatrale (l'uso della musica negli

    spettacoli teatrali presso le corti italiane e particolarmente quella fiorentina, dove il nuovo genere

    nacque).

    2.1 Premessa musicale 

    La monodia accompagnata, cioè una monodia sostenuta da un accompagnamento armonico affidato

    a strumenti, costituiva, tra la fine del XVI e all'inizio del XVII secolo, una importante novità

    strutturale nella storia musicale. Da secoli, infatti, più precisamente a partire dal IX secolo (stando

    alle testimonianze scritte che ci sono pervenute), quando si abbandonò la semplice monodia

    gregoriana, ciò non avvenne aggiungendo alla melodia degli accordi, ma una o più melodie tra loro

    simultanee, dando vita così alla cosiddetta polifonia. Ora, all'epoca della nascita dell'opera le formetipiche della musica vocale d'arte, come il mottetto e il madrigale, erano ancora polifoniche.

    Tuttavia, di una sorta di monodia accompagnata, se non proprio da accordi, almeno da una parte

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    strumentale che valeva solo da accompagnamento, si hanno testimonianze sin dalla fine del

    Trecento. Tra l'altro bisogna ricordare che nel Medioevo la musica semplice, come appunto le

    monodie o in genere le musiche popolari, si tramandava per lo più per via orale, per cui ce ne sono

    rimaste poche testimonianze scritte. Inoltre nel corso del Cinquecento, divenne sempre più diffusa

    la prassi di eseguire alcune composizioni polifoniche affidando una sola delle loro voci al canto, e

    le altre, all'occorrenza più o meno semplificate, a uno strumento polifonico, cioè capace di suonare più note contemporaneamente (organo, cembalo, liuto ecc.). Questa pratica favorì l'affermarsi di

    una concezione sempre meno polifonica e contrappuntistica, e sempre più accordale

    dell'accompagnamento e della conseguente tendenza a far risaltare una sola voce melodica. Questa

    tendenza ebbe la sua consacrazione nella tecnica del cosiddetto "basso continuo", affermatasi

    appunto sulla fine del Cinquecento. Anche questa pratica aveva i suoi precedenti: era uso, quando

    uno strumento a tastiera dovesse sostenere con alcuni accordi essenziali l'intonazione dei cantori

    d'una polifonia vocale, che lo strumentista eseguisse fedelmente la parte più bassa della

    composizione (più precisamente la nota di volta in volta più bassa, che formava una parte detta"basso seguente"), e gli accordi che ritenesse, a suo giudizio, più opportuni. Il basso continuo è una

     prassi simile, ma non identica: l'esecutore dello strumento polifonico ha scritte, davanti a sé,

    soltanto la melodia affidata al canto, e una parte di basso, sulla quale deve improvvisare degliaccordi (l'eventuale presenza, in alcune composizioni, di due o tre melodie, non cambia

    l'impostazione, perché il trattamento dei loro reciproci incontri, è ormai dominato da una coscienza

    armonica, verticale, nettamente diversa da quella contrappuntistica, orizzontale dei polifonisti delle

    epoche precedenti). La differenza con l'uso precedente sta nel fatto che nel basso continuo questi

    accordi non sono più una sorta di sintesi dei momenti armonicamente fondamentali (ovvero non

    corrispondono a incontri di voci su determinati intervalli) di una composizione polifonica, bensì

    sono concepiti ex novo, (al di fuori della parte vocale) nella sola funzione di accompagnamentoaccordale della parte melodica. Questa evoluzione strutturale (il passaggio da una struttura

     prevalentemente contrappuntistica orizzontale a una struttura prevalentemente armonica verticale)stabilì una concezione del linguaggio musicale eminentemente armonica, che fu la condizione

    imprescindibile alla nascita del cosiddetto senso tonale moderno, cioè della cosciente vittoria, sulle

    scale modali antiche, dei modi maggiore e minore, fondati sulla esplicitazione della nota sensibile.

    La fase finale di questo processo, cioè dell'affermazione progressiva della monodia accompagnata,

    che la pratica del basso continuo sanziona definitivamente, coincise con la nascita dell'opera.

    2.2 Premesse teatrali 

    Per quanto riguarda invece le premesse teatrali, bisogna ricordare che fin dall'inizio del XVI secoloil canto monodico e polifonico veniva impiegato, in funzione scenica, all'interno di una vasta

    tipologia di spettacoli drammatici, soprattutto quelli allestiti nelle corti in occasione difesteggiamenti solenni, come nascite, matrimoni, visite di personaggi illustri, ecc. Particolarmente

    importanti erano gli "intermedi", termine con il quale si designa tutto ciò che servì a riempire gliintervalli tra un atto e l'altro delle commedie (in cinque atti) o delle favole pastorali, ma anche, a

    volte, delle tragedie e delle sacre rappresentazioni. Gli intermedi potevano essere "non apparenti" o

    "apparenti". Quelli "non apparenti" consistevano unicamente di musiche, i cui esecutori erano

    normalmente dietro la scena, quindi non visibili dagli spettatori; quelli "apparenti" invece (restando

    comunque gli eventuali strumenti normalmente fuori scena) consistevano in qualcosa di visivo:

    rappresentazioni simili a quelle degli intermezzi conviviali (brevi pastorali o farse, mascherate,

    danze, ecc.) o altre più impegnative, fastose, e anche costose, perché basate su macchine

    scenografiche che di per sé bastavano a suscitare l'ammirato stupore degli ascoltatori. Naturalmente

    gli intermedi di quest'ultimo tipo erano i più rari, in quanto realizzabili solo dalle corti più

    importanti, e, come si è già detto, in solennità speciali. Sono però quelle di cui ci è pervenuta

    notizia particolareggiata (soprattutto attraverso i diari e le descrizioni) e, in alcuni casi, anche lemusiche. Negli intermedi di questo tipo l'argomento poteva essere indipendente da quello della

    commedia a cui essi erano intercalati, oppure avere con la commedia una certa connessione;

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     potevano svolgere, dal primo all'ultimo intermedio, un tema poetico unico, o variare da intermedio

    a intermedio. Gli argomenti erano per lo più allegorici, con temi e personaggi ispirati alla mitologia

    classica, ma spesso con riferimento ai personaggi reali in onore dei quali era stata allestita la festa.

    Per la loro magnificenza gli intermedi assunsero proporzioni tali da superare in importanza le stesse

    commedie, e dunque, nonostante fossero nati a sussidio di un'azione drammatica "principale"

    divennero a poco a poco essi stessi l'evento principale: a questo proposito ci sono pervenutelamentele fin dalla metà del '500; celebre fra tutte quella del Lasca, poeta di intermedi egli stesso

    (oltre che commediografo) che nel madrigale La commedia che si duol degli Intermezzi fa dire alla

    commedia:

    Questi empi e scelerati a poco a poco

     preso han lena e vigore,

    e tanto hanno or favore

    ch'ognun di me si prende scherno e gioco,

    e sol dalla brigata

    s'aspetta e brama e guata

    la meraviglia, ohimé! degli intermedi;

    e se tu non provvedi,

    mi fia tosto da lor tolto la vita;

    misericordia, Febo! aita, aita".

    Questo genere di spettacolo con musica si affermò soprattutto in ambiente mediceo fiorentino; in

    questo ambito hanno particolare interesse quegli intermedi alla cui realizzazione presero parte i

     protagonisti del nuovo genere operistico. Ricordiamo perciò almeno gli intermedi del 1583, inseriti

    tra gli atti della commedia Le due Persilie di Giovanni Fedini, fra i compositori dei quali era Jacopo

    Peri; quelli del 1586 organizzati per il matrimonio di Virginia de' Medici con don Cesare d'Este e

    inseriti fra gli atti de L'amico fido di Giovanni de' Bardi, che fu anche l'organizzatore dello

    spettacolo, il poeta di tutti gli intermedi e il compositore dell'ultimo; e soprattutto i sei intermedidel 1589 (poi stampati a Venezia nel 1591) per La pellegrina di Girolamo Bargagli, rappresentata il

    2 e il 15 maggio per le nozze di Ferdinando I de' Medici con Cristina di Lorena e ripetuti il 6 e il 13

    con altre due commedie, rispettivamente la Zingara, e la Pazzia. Le musiche di questi intermedi

    (organizzati da Bardi, anche se poi furono eseguiti con alcune modifiche per l'intervento di Emilio

    de' Cavalieri, divenuto nell'autunno 1588 sovraintendente degli spettacoli di corte) furono composte

    da diversi musicisti, tra cui Giulio Caccini, Cristofano Malvezzi, Luca Marenzio, Jacopo Peri, oltre

    che Bardi ed Emilio de' Cavalieri. Gli intermedi suddetti esercitarono sulla nascita dell'opera

    un’influenza notevole per aver sperimentato in proprio parecchi fra gli elementi costitutivi dei suoi

    inizi: gli argomenti mitologici e pastorali, la scenografia, e soprattutto una monodia accompagnata

    orientata, almeno in modo rudimentale, verso il nuovo, e comunque diversa dalle semplici forme

    canzonettistiche in cui si era esercitata fino ad allora.Altra premessa "teatrale" all'opera in musica è costituita da un genere molto radicato nella

    tradizione cinquecentesca, la pastorale drammatica, detta anche tragicommedia per la

    contemporanea presenza, in essa, di elementi tragici e comici. In questo caso, però, la premessa non

    riguarda tanto il tipo di rappresentazione, come per gli intermedi, ma piuttosto riguarda i contenuti e

    l'ambientazione. Tra gli esempi illustri di questo genere ebbero grande fortuna, l' Aminta (1573) di

    Torquato Tasso e Il pastor fido (1589) di Giovanni Battista Guarini. Questi drammi erano

    ambientati nel mondo immaginario e utopico, agreste e idilliaco dell'Arcadia, regione dell'antica

    Grecia in cui i personaggi, pastori e ninfe, si davano ai piaceri della poesia e della musica, per le

    quali erano particolarmente dotati. In questo mondo Dei e semidei (quali ad esempio Apollo eOrfeo) intervenivano presentandosi spesso come cantori: proprio Guarini, nel suo Compendio della

     poesia tragicomica, opera scritta in difesa del genere tragicomico (stampato a Venezia nel 1601 macircolante in forma manoscritta già qualche anno prima), sottolinea il fatto “che tutti gli arcadi

    erano poeti, che'l principale studio, il principale esercizio loro era quel della musica, che

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    l'apparavano da fanciulli, che le leggi a ciò li costringevano”. Queste idee erano presenti nella

    mente dei letterati e musicisti che alla fine del XVI secolo misero interamente in musica le ‘favole’

    (così furono intitolate le prime opere in musica) pastorali in ‘stile rappresentativo’.

    3. La camerata fiorentina

    Per lungo tempo si è fatto derivare il progetto, la teorizzazione e la realizzazione dell'opera in

    musica, dalle discussioni filologiche ed estetizzanti della cosiddetta Camerata Fiorentina, o de'

    Bardi, un gruppo di letterati e artisti che, partiti dall'intento di far rivivere la tragedia greca,

    avrebbero poi creato un nuovo genere. In realtà, le conversazioni fra letterati, artisti e musicisti che

    si svolsero nel salotto del letterato e dilettante di musica Giovanni de' Bardi, conte di Vernio (1534-

    1612), dal 1576-77 (circa) a non oltre il 1592 (anno in cui Bardi si trasferì a Roma), si svolsero su

    vari argomenti, non solo musicali; ma riguardo al fatto che vi si vagheggiasse una rinascita dellatragedia greca come dramma interamente cantato, o comunque di quella che poi fu l'opera lirica,

    non si ha la minima prova.

    E' vero comunque che i membri della camerata subirono l'influsso esercitato dalle ricerche svoltesull'antica musica greca dall'umanista e filologo Girolamo Mei (1519- 1594): Mei, residente a

    Roma, intrattenne un fitto scambio epistolare con il compositore e liutista Vincenzo Galilei (padre

    di Galileo), uno dei tre musicisti che con certezza furono legati alla Camerata (con Giulio Caccini e

    il dilettante Piero Strozzi). Il documento che rispecchia il grado di conoscenza delle fonti greche

     posseduto da Mei e da lui trasmesso alla Camerata è il Dialogo della musica antica et della

    moderna (Firenze, 1581), in cui l'autore, Vincenzo Galilei, senza mai riferirsi alla tragedia, espose il

    risultato di cinque anni di studi sui documenti superstiti della teoria e pratica dell'antica musicagreca, studi che egli aveva intrapreso con l'appoggio e il patrocinio di Bardi: proprio quest'opera

     permette di datare l'inizio dell'attività della “camerata” di Bardi a circa un quarto di secolo primadegli esordi dell'opera. L'analisi delle teorie musicali antiche esposte nel Dialogo era uno degli

    interessi del conte Bardi, il quale era un buon grecista e seguace delle tendenze neopitagoriche e

    neoplatoniche dell'umanesimo fiorentino.

    Altro argomento del Dialogo era la critica rivolta al contrappunto, cioè al linguaggio polifonico

    della musica di quel tempo, al quale veniva contrapposta positivamente la struttura monodica. Lo

    stesso Galilei, dopo la pubblicazione del Dialogo, esemplificò i suoi intenti componendo due

    monodie (ora perdute): il lamento del conte Ugolino dal canto XXXIII dell' Inferno della Divina

    Commedia, e le bibliche Lamentazioni di Geremia. Con queste composizioni Galilei si proponevaevidentemente di suggerire la via per una riforma strutturale delle forme musicali. Sappiamo dallo

    stesso Galilei che tali composizioni furono eseguite “sopra un corpo di viole esattamente intonate,cantando un tenore di buona voce e intelligibile” (così si legge in una lettera di Galilei al duca di

    Mantova Guglielmo Gonzaga).Dunque, al di là del merito di avere condotto con rigore filologico ricerche sulla musica greca (per

    le quali vi era da tempo un generale interesse), l'unica argomentazione dell'ambiente Bardi che si

     può collegare alla nascita dell'opera è la polemica rivolta dai suoi membri contro la polifonia e in

    favore della monodia accompagnata, considerata questa come il mezzo espressivo più efficace per i

    loro fini artistici e musicali. Si erano comunque già avuti, nel Cinquecento, atteggiamenti così

    radicali contro la polifonia soprattutto nell'ambito delle discussioni su una possibile riforma della

    musica sacra, ai fini di ottenere nella sua esecuzione una più chiara intelligibilità del testo, in

    contrasto con l'accusa da più parti rivolta alla polifonia. I cameratisti definirono la polifonia artificio

     barbarico perché annientava l'espressione; questo accadeva sia perché le parole ne risultavano

    inintelligibili (e per loro la musica aveva valore espressivo soltanto come intensificazione della

     parola), sia per la discontinuità che ne veniva alle singole melodie concomitanti, a tratti emergenti,a tratti ridotte a un ruolo subordinato. In questa polemica il monodismo greco appariva un modello,

    anche se, all'epoca, puramente astratto, dato che della musica greca non si aveva una sufficiente

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    conoscenza.

    Galilei e Bardi moderarono più tardi il loro estremismo antipolifonico, tuttavia bisogna registrare

    che la camerata dette un contributo anche pratico in favore della monodia, applicandola in numerosi

    luoghi degli intermedi teatrali organizzati presso la corte medicea. Come si è già ricordato, infatti,

    Bardi fu anche il principale organizzatore degli spettacoli offerti dalla corte medicea in varie e

    importanti occasioni, la più significativa delle quali, ai fini della storia musicale, fu il già citatomatrimonio tra il granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena, festeggiato con la messa in scena di

    commedie interpolate da sfarzosi intermedi. Questi intermedi ebbero, come tema principale,

    allegorie del potere della musica ideate da Bardi, il quale scrisse personalmente il testo di due

    madrigali e compose la musica di un altro. Gli altri testi furono scritti da Ottavio Rinuccini e

    Giovanni Battista Strozzi.

    In questi intermedi furono però largamente impiegate, oltre alle monodie, anche musiche

     polifoniche; Bardi infatti, nel suo Discorso inviato a Giulio Caccini sopra la musica antica e il

    cantar bene (ca. 1590) affermò che il tempo non era ancora giunto per una radicale riforma dell'artemusicale e che conveniva trarre il miglior partito possibile dall'uso presente. Dopo di ciò Bardi fu

    indotto a trasferirsi a Roma dall'ostilità del granduca Ferdinando I verso coloro che erano stati in

    auge sotto il suo predecessore Francesco I (fratello di Ferdinando), e la moglie di lui, BiancaCapello. Ferdinando, già cardinale, durante il governo del fratello Francesco I aveva preferito

    vivere a Roma in segno di disapprovazione verso la cognata. Successe a Francesco alla morte di

    questi (1587), seguita a pochi giorni di distanza da quella di Bianca; ottenne poi di abbandonare lo

    stato ecclesiastico e di contrarre matrimonio per assicurare la discendenza dinastica. Portò con sé da

    Roma, come persona di sua fiducia, Emilio de' Cavalieri, ed inoltre il madrigalista Luca Marenzio,

    la cantante Vittoria Archilei e il marito di lei, Antonio, anch'esso musicista.

    4. Emilio de' Cavalieri  

    Già nel 1588 l'autorità di Bardi come organizzatore di spettacoli era stata limitata dalla nomina di

    un soprintendente a tutte le arti, il già citato nobile romano Emilio de' Cavalieri, il quale denunciò

    nel 1589 le ingenti somme spese per gli spettacoli di Bardi e si vantò poi di avere organizzato

    spettacoli di gusto migliore con minore spesa. Per gusto migliore de' Cavalieri intendeva quello

     pastorale dei poeti della corte ferrarese, Tasso e Guarini, dei quali, insieme al granduca Ferdinando,

    era ammiratore.

    Cavalieri, infatti, avvalendosi dei testi di Laura Guidiccioni, introdusse, al posto delle commediecon macchinosi e costosi intermedi, brevi e semplici azioni cantate di argomento pastorale. Si ha

    notizia di un Satiro, di una Disperazione di Fileno (1591) e del Gioco della Cieca (1595), da unepisodio del Pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Non ne sono rimasti né i testi, né le musiche;

    ma ciò che ne disse poi la prefazione della Rappresentazione di Anima et di Corpo, pure diCavalieri (1600), lascia capire che tendevano a una stilizzazione più affine ai modi del balletto o

    della pantomima che a quelli dell'opera, che le loro musiche dunque si fondavano su forme più

    "canzonettistiche", preesistenti, come abbiamo già detto, a quei fermenti culturali che avevano fatto

    nascere l'ambizione dell'opera e inadatte a esprimere situazioni drammatiche e personaggi. Cavalieri

    si vantava di aver reso nella sua musica gli 'affetti' dei personaggi; ma il teorico Giovanni Battista

    Doni scrisse invece che essa consisteva di ariette "che non hanno che fare niente con la buona e

    vera musica teatrale". Come vedremo, Jacopo Peri riconobbe a Cavalieri, nella prefazione

    all' Euridice, il merito di avere “prima che da ogni altro, ch'io sappia, con maravigliosa invenzione

    [...] fatta udire la nostra musica sulle scene” (nostra, in opposizione all'antica), ma aggiungeva poi

    di avere a sua volta adoperato la "nostra" musica "in altra guisa".

    L'attività e la sorte di Cavalieri si avviarono al declino dopo il 1595, forse anche per ragioni legatealla sua salute che lo indussero a tornare a Roma intorno al 1597, nonostante ricevesse ancora

    incarichi ufficiali dalla corte fiorentina. Nel febbraio del 1600 fece rappresentare nell'oratorio

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    filippino della Chiesa Nuova la Rappresentazione di anima et di corpo, una allegoria spirituale che

    rivela la condizione di contrizione del suo animo. Tuttavia la pubblicazione, avvenuta dopo qualche

    mese, della partitura, a cura del Guidotti (la condizione signorile di Cavalieri non permetteva al

    gentiluomo di occuparsene personalmente, e per questa ragione le sue composizioni precedenti non

    erano mai state pubblicate), rivendicava a Cavalieri (nella prefazione scritta dal Guidotti) le

    innovazioni che egli aveva introdotto negli spettacoli fiorentini: tale rivendicazione poteva esserestata suggerita dal rammarico di Cavalieri per essere stato messo da parte nella preparazione di

    nuovi spettacoli che avrebbero festeggiato nell'ottobre di quell'anno le nozze di Maria de' Medici

    (figlia di Francesco I) con il re di Francia Enrico IV. A Cavalieri fu infatti affidata in

    quell'occasione solo la musica di un breve dialogo di due dee, su testo del Guarini, da eseguire

    durante un banchetto.

    5. L'opera italiana nel Seicento

    5.1 Le prime opere fiorentine 

    Per arrivare alle prime vere e proprie opere in musica bisogna dunque considerare la fase successiva

    all'ambiente Bardi, quando l'influenza sia di Bardi, sia del suo antagonista Cavalieri appartenevanoal passato e un nuovo gruppo si era formato intorno a un altro gentiluomo fiorentino, Jacopo Corsi

    (1561-1602), anche lui dilettante e promotore di attività artistiche; fu nell'ambito di questa cerchia

    che vennero affrontati i problemi inerenti alla rappresentazione di favole musicali. Già dal 1594

    Corsi aveva iniziato a mettere in musica una pastorale mitologica di Ottavio Rinuccini, la Dafne,

    successivamente rappresentata più volte tra il 1598 e il 1600 in casa Corsi, e poi a corte, con musica

    in parte di Corsi, ma per lo più del cantante e compositore Jacopo Peri (1561- 1633). Come si è

     precedentemente accennato, l'argomento e l'ambientazione di questo, come dei successivi lavori delgenere, rivelano che il dramma cantato fu nei primordi un dramma pastorale con musica, e non una

    tragedia messa in musica, perché era nel mondo fantasioso dell'Arcadia che poteva sembrare plausibile e verosimile fare esprimere i personaggi di un dramma con il canto invece che con la

     parola recitata. Collocando i protagonisti dell'opera nel clima della pastorale si poteva dare

    motivazione del "recitar cantando", di "imitar col canto chi parla", espressioni queste che appaiono

    nelle prefazioni dei primi libretti e partiture teatrali stampati all'epoca. Proprio per risolvere il

     problema della verosimiglianza (cioè per giustificare che dei personaggi si esprimessero cantando

    anziché recitando) la scelta dei personaggi delle prime opere cadde su dei cantori: lo è Apollo,

     protagonista della Dafne, e tanto più lo è Orfeo protagonista della successiva Euridice. Orfeo

     peraltro non è solo cantore, ma è colui che vince le potenze infernali con il canto: il canto non si dàdunque come elemento di un'arte particolare, ma addirittura come esigenza realistica, perché non

    sarebbe realistico che Orfeo si esprima senza il canto.Lo stesso Corsi decise di far rappresentare, in occasione del matrimonio di Maria de' Medici con il

    re di Francia Enrico IV un'altra pastorale, l' Euridice, su testo di Ottavio Rinuccini, e con musica diJacopo Peri: l'esecuzione avvenne in una saletta di Palazzo Pitti la sera del 6 ottobre 1600.

    L' Euridice, di cui, a differenza della Dafne, ci è pervenuta l'intera partitura a stampa, è considerata

    il punto di partenza della storia dell'opera, anche se nell'ambito dei festeggiamenti nuziali occupò

    un posto secondario. L'evento teatrale più importante dell'occasione fu invece la messa in scena, il 9

    ottobre, di una favola mitologica in 5 atti, il Rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera, tutta

    musicata e corredata di spettacolari intermedi: fu offerta dal granduca e rappresentata nella sala

    delle Commedie di Palazzo degli Uffizi. Giulio Caccini compose la musica dell'azione principale e

    dell'ultimo coro; le altre parti corali degli intermedi, erano state affidate ad altri musicisti della corte

    medicea.

    5.2 Giulio Caccini A proposito di Giulio Caccini (1551-1618), bisogna dire che non apparteneva alla cerchia di Corsi,

    ma aveva fatto parte dell'ambiente di Bardi, per qualche tempo era stato anche suo segretario, e per

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    questi trascorsi non era ben visto dal granduca Ferdinando I: era però riuscito a recuperarne la stima

    grazie alla sua attività di cantante e di maestro di cantanti valorosi, tra i quali, in seguito, anche le

    figlie Francesca (detta la Cecchina, anch'essa compositrice) e Settimia. Per quanto riguarda

    l' Euridice, Caccini ne aveva compreso l'importanza, per cui, come si è già detto, non si contentò di

    imporre nella prima esecuzione che i suoi allievi sostituissero la musica di Peri con musica sua, ma

    in pochi mesi completò una sua versione completa dell'opera, e la stampò con la dicitura “posta inmusica in stile rappresentativo”. Solo più tardi uscì la partitura dell' Euridice del Peri, corredata con

    la più modesta dicitura Le Musiche di Jacopo Peri...sopra l'Euridice del sig. Ottavio Rinuccini. Fu

     proprio Caccini a porre erroneamente l'accento sugli intenti classicheggianti della Camerata quando,

    nella dedica a Bardi della sua Euridice, affermò che la sua favola era composta “in stile

    rappresentativo”, vale a dire “quello stile usato da me altre volte, molti anni orsono [...] E questa è

    quella maniera altresì, la quale negli anni che fioriva la Camerata sua in Firenze, discorrendo ella,

    diceva [...] essere stata usata dagli antichi Greci nel rappresentare le loro tragedie e altre favole,

    adoperando il canto”: questa affermazione adulatoria fu poi ripresa dai suoi allievi e dal figlio diBardi, Pietro, e ha costituito la base dell'errata interpretazione del ruolo e degli intenti della

    Camerata dei Bardi. E' da notare e confermare che Caccini, nonostante l'accenno alle tragedie,

    chiama l' Euridice "favola", e lo stesso fa Peri con la sua Dafne. Caccini sin dal 1590 circa avevacominciato a comporre quelle "arie" (strofiche) e madrigali (non strofici) a voce sola “per cantare

    sul chitarrone o altro strumento” che nel 1602 raccolse e pubblicò con il titolo emblematico de Le

    nuove musiche. Queste monodie, non concepite per il teatro, sembrano confermare che gli interessi

    del gruppo non vertevano specificamente sul testo (la sua Euridice fu evidentemente composta per

    reggere la rivalità con quella di Peri, rispetto alla quale è decisamente meno "drammatica"); ma al

    tempo stesso Caccini mostra un impegno, nel linguaggio monodico, profondamente nuovo. Ne Le

    nuove musiche infatti l'espressione della parola è legata a un fascino melodico e vocale senza precedenti; nuova è anche l'elegante libertà della sua andatura, evidentemente conseguente al nuovo

    e ingegnoso accorgimento tecnico, il basso continuo, che liberava la melodia dalle pastoie delcontrappunto. Come già detto questo sistema di scrittura veniva già utilizzato da organisti e

    suonatori di cembalo, i quali, per accompagnare una composizione polifonica complessa,

    segnalavano le armonie con indicazioni numeriche essenziali poste sulle note della parte più bassa

    (il termine basso continuo deriva dal fatto che la parte alla quale sono apposte le numeriche degli

    accordi coincide con quella di basso fino a tanto che questa non è interrotta da pause; quando ciò

    accade il basso continuo "continua" con le note della parte, qualunque essa sia, che

    temporaneamente assume le funzioni di basso). Il passo decisivo compiuto da Caccini consisté nel

    concepire questa linea di basso direttamente in funzione della melodia del canto, anziché derivarlada un complesso di linee contrappuntistiche il cui percorso condizionava e limitava il fluire della

    melodia principale. La libertà espressiva così conseguita dalla melodia poté servire all'espressionedei testi, secondo le aspirazioni che erano state espresse anche nella camerata di Bardi; tanto più che

    la realizzazione ed esecuzione del continuo erano affidate di solito a un solo esecutore, o allo stessocantante (che si accompagnava da sé) e ne erano così favorite la flessibilità e l'espressività

    dell'esecuzione per le quali Caccini usò il termine sprezzatura (il termine deriva dal Cortegiano di

    Baldassare Castiglione, il quale lo adoperò per indicare che il perfetto gentiluomo deve sapere

    eseguire anche le azioni più difficili con una apparente negligenza e naturalezza, la sprezzatura

    appunto, che non ne lascia trasparire la difficoltà).

    Inoltre Caccini nella prefazione alle Nuove musiche è il primo a dare conto delle tecniche vocali

    sottese al nuovo stile. E' interessante notare che i protagonisti di questa prima fase dell'opera furono

    due cantanti: l'opera infatti non nacque per il desiderio di far rivivere la tragedia, ma per l'esigenza

    di rinnovare il tipo di canto a voce sola che era stato usato nella musica profana fino ai primi

    decenni del '500, ed era poi stato abbandonato, almeno in apparenza, perché durante tutto il secolo

    era sempre stata accettata la pratica di eseguire musiche composte con tutte le risorse artistiche della polifonia, affidando però la parte superiore a una voce solista e le altre a strumenti di vario genere o

    a un liuto.

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    5.3 Jacopo Peri 

    E' probabile che Peri abbia appreso dall'esempio di Caccini l'innovazione del basso continuo;

    tuttavia, chiamato da Corsi e da Rinuccini a contribuire alla realizzazione delle loro "azioni tutte di

    musica", si preoccupò, più che altro, di creare un linguaggio drammatico più che vocale, che

    subordinasse le ragioni del canto alla declamazione del testo per sottolinearne le inflessioniespressive e i vari gradi di tensione o di abbandono. Nella prefazione dell' Euridice Peri scrisse di

    “un'armonia, che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare

    che pigliasse forma di cosa mezzana” e che “potesse in parte affrettarsi, e prender temperato corso

    tra i movimenti del canto sospesi e lenti, e quegli della favella spediti e veloci”; soltanto dove il

    testo diventa più lirico lascia che la melodia si espanda con maggiore libertà e vocalizzazione.

    Benché fosse anch'egli un cantante, Peri si pose soprattutto il problema della musica drammatica e

    lo risolse con grande intensità. Delle due Euridice la sua è quella innovativa dal punto di vista del

    dramma, mentre l'opera di Caccini, più lirica non possiede lo stesso vigore drammatico. Nel testo di Euridice Rinuccini narra il mito famoso di Orfeo e Euridice, interpretandolo alla maniera pastorale

    allora di moda e sostituendo al finale tragico un lieto fine in vista dell'occasione festosa per cui

    l'opera era stata scritta.Come si è già detto, delle due versioni musicali, quella di Caccini è più melodiosa e lirica, non

    lontana dai madrigali e dalle arie delle Nuove musiche, mentre la versione di Peri è più drammatica.

    Peri non soltanto la realizzò in uno stile a metà tra il parlato e il cantato ma variò il suo approccio al

    testo secondo le diverse esigenze delle situazioni drammatiche.

    Tre esempi della sua Euridice illustrano altrettanti stili monodici rintracciabili nell'opera, di cui uno

    solo è realmente nuovo. Il Prologo è modellato sull'aria strofica tipica del Cinquecento: ogni verso

    viene cantato su un modello melodico formato da note ripetute e da uno schema cadenzale chetermina su due note tenute; le strofe sono separate da un ritornello. Anche la canzone di Tirsi è un

    tipo di aria, non strofica ma ritmicamente marcata e melodica, e con cadenze armonicamente piùaccentuate alla fine dei versi (più che altro dalla dominante alla tonica): è delimitata da una sinfonia

    che costituisce il più lungo interludio esclusivamente strumentale della partitura. Infine, il terzo

    esempio di stile monodico, il parlato di Dafne, è davvero un prototipo di recitativo nuovo. Gli

    accordi specificati dal basso continuo non hanno un'organizzazione ritmica, né un piano formale, e

    hanno la sola funzione di supporto per la voce recitante. Questa voce è libera di assecondare i ritmi

    del parlato; può iniziare con una nota consonante, in accordo con le armonie del basso, e poi

    allontanarsi liberamente da questa; solo alcuni finali di verso sono sottolineati da cadenze mentre

    molti sono elisi. Nel parlato di Dafne Peri mette in atto una progressione emotiva graduale:all'inizio il procedere melodico è consonante, emotivamente neutro, su una base armonica

    lentamente modulante. Ma quando la narrazione di Dafne arriva al morso del serpente che uccideEuridice, il suo "parlato" diventa più agitato, più dissonante, le modulazioni armoniche sono più

    repentine le cadenze più rare, i movimenti del basso più rapidi.Un'altra opera importante in questo periodo è la Dafne di Marco da Gagliano (ca. 1575-1642),

    rappresentata per la prima volta a Mantova nel 1608 e a Firenze due anni dopo. Il libretto è un

    adattamento del poema di Rinuccini del 1594, che a sua volta si ispirava a uno degli intermedi del

    1589. Il prologo è cantato da Ovidio, che è l'autore delle Metamorfosi, da cui è tratta la vicenda.

     Nelle parti vocali sono inseriti diversi ritornelli strumentali; l'opera si conclude con un ballo come

    nel finale dell' Euridice del Peri. Non c'è sinfonia, ma l'autore, nella prefazione, indica che se ne

    sarebbe dovuta eseguire una prima nel prologo, utilizzando gli strumenti destinati ai ritornelli e ad

    accompagnare i cori. Proprio il coro ha grande importanza in questa Dafne, sia nello svolgimento

    dell'azione, sia nei momenti statici e puramente contemplativi; le parti corali acquistano varietà

    grazie all'inserimento di brani solistici, duetti e brevi intermezzi orchestrali. Tutta la partitura,

    insomma, mostra notevoli risorse musicali derivate dalla tradizione degli intermedi e dal nuovostilema del recitativo monodico.

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    5.4 L' Orfeo di Monteverdi 

     Nel 1607 fu rappresentato a Mantova, presso la corte dei Gonzaga, l'Orfeo di Claudio Monteverdi

    (1567-1643), su testo di Alessandro Striggio junior. Monteverdi visse fra due secoli, ma anche fra

    due epoche della storia musicale, partecipando da protagonista a entrambe: fu infatti polifonista di

    stile cinquecentesco nella prima parte della sua attività, e divenne poi un importante esponente della

    "monodia rappresentativa", in conformità della quale rinnovò completamente nei madrigali e nellecomposizioni sacre il suo stesso stile polifonico. Delle sue tredici opere liriche ce ne sono pervenute

    solo tre (a parte pochi frammenti delle altre, tra i quali è il famoso "Lamento" tratto da Arianna,

    opera rappresentata a Mantova nel 1608): l'Orfeo, che è la sua prima opera, Il ritorno di Ulisse in

     patria (1641) e L'Incoronazione di Poppea (1642), che sono rispettivamente la terz'ultima e

    l'ultima, e presentano una struttura diversa dall'Orfeo, conforme piuttosto al corso che l'opera, come

    vedremo, andava in quegli anni imboccando a Venezia, dove furono rappresentate. L'Orfeo è invece

    il culmine del momento originario del nuovo genere: è modellato, sia per l'argomento del testo, sia

     per l'impiego di diversi stili musicali, sulle versioni fiorentine dell' Euridice. La pastorale diRinuccini nelle mani del poeta Alessandro Striggio si era dilatata fino alle dimensioni di un dramma

    in cinque atti che Monteverdi arricchì mediante una vasta gamma di risorse vocali e strumentali. La

    rappresentazione delle emozioni è più variegata, le armonie sono più espressive, i recitativi nondipendono principalmente dalla successione delle parole, ma diventano oggetto di sperimentazione

    assumendo di volta in volta diverse organizzazioni formali. Inoltre Monteverdi introdusse molte

    arie solistiche, duetti, complessi di tipo madrigalesco, danze che costituiscono una parte cospicua

    dell'opera e forniscono allo stesso tempo un necessario contrasto col recitativo.

    E' interessante considerare tre sezioni dell'Orfeo che sono più o meno analoghe a quelle già

    analizzate per l' Euridice: il Prologo, il canto di Orfeo e la narrazione della morte di Euridice da

     parte della Messaggera. Come già rilevato, nell'Orfeo le proporzioni sono molto dilatate.Il Prologo è un'aria strofica intercalata da un ritornello (inserito tra una strofa e l'altra) orchestrato

    con molta cura. Monteverdi musica ogni strofa variandone la melodia ma lasciando intatto, alla base, lo schema armonico: si tratta di una delle tecnica usate nel Cinquecento per improvvisare

    vocalmente un testo poetico. A questo proposito è bene notare che la famosa aria di Orfeo nel terzo

    atto, Possente spirto, si basa su una simile ma non identica procedura, perché qui Monteverdi

    fornisce una diversa ornamentazione dello stesso schema melodico.

    La canzonetta strofica di Orfeo, Vi ricorda o boschi ombrosi, è simile all'aria di Peri per Tirsi, ma il

    ritornello ha una scrittura contrappuntistica a cinque parti.

    Infine, come nell'opera di Peri, lo stile più nuovo viene impiegato per rendere il dialogo e il tragico

    racconto. Il parlato della Messaggera, In un fiorito prato, imita infatti lo stile di recitativosviluppato da Peri, ma lo inserisce in un movimento armonico, un disegno melodico e una

    concezione drammatica di ben altre proporzioni.Particolarmente importante nell'Orfeo è il trattamento che Monteverdi riservò all'orchestra. Nelle

    opere fiorentine erano stati usati per l'accompagnamento strumentale solo pochi liuti, o strumentianaloghi, posti dietro la scena e quindi non visibili dagli spettatori. Nell'Orfeo, invece, Monteverdi

    utilizzò un'orchestra di circa quaranta strumenti (mai usati, tuttavia, contemporaneamente), tra cui

    flauti, cornette, trombe, tromboni, la serie completa di archi e vari strumenti per la realizzazione del

     basso continuo. In molti brani inoltre, cosa assolutamente inconsueta all'epoca, il compositore, per

    rendere al meglio le varie situazioni drammatiche, ritenne necessario specificare di volta in volta gli

    strumenti che voleva fossero suonati. La partitura contiene anche ventisei brevi numeri orchestrali,

    tra cui una "toccata" introduttiva e diversi ritornelli.

    5.5 L'opera a Roma 

    Dopo Firenze e Mantova, le due città che segnarono le svolte essenziali dell'opera nel Seicento

    furono Roma e Venezia.Soprattutto in coincidenza con il pontificato di Maffeo Barberini, papa Urbano VIII, eletto nel 1623,

    Roma divenne un importante centro di attività operistica. Molte opere, come era accaduto a Firenze

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    e Mantova, furono scritte in occasione di feste particolarmente solenni, per allestire le quali non si

     badava a spese: la ricchezza dei mezzi a disposizione permetteva una grande abbondanza di effetti

    scenici e un largo impiego di masse per i balli e gruppi d'insieme (dette "cori") per le parti vocali.

    Lo stile monodico era stato introdotto a Roma nel 1600 con La rappresentazione di anima et dicorpo di Emilio de' Cavalieri, che fu seguita, nel 1606, dall' Eumelio di Agostino Agazzari, una

    favola pastorale di carattere moralistico.Si allestirono poi, nei palazzi cardinalizi, opere di carattere pastorale e morale che seguivano il

    modello fiorentino nello stile dominante del recitativo.

    La prima opera profana di scuola romana fu La morte d'Orfeo (1619) di Stefano Landi (1586-1639).

    Vi si notano grandi scene d'insieme per solisti e coro poste alla fine di ogni atto. Questo tipo di

    scene d'insieme sono presenti naturalmente anche nelle due Euridice fiorentine e in Orfeo di

    Monteverdi; ma, mentre in quelle opere erano strettamente connesse allo sviluppo della trama, ne

     La Morte d'Orfeo e nelle seguenti opere della scuola romana, questi grandi finali non sono sempre

     ben inseriti nel tessuto della vicenda, ma spesso sono avulsi dal contesto drammatico, e per questaragione ricordano piuttosto le esibizioni vocali e spettacolari degli intermedi.

     Nell'opera romana va segnalata la caduta delle preoccupazioni sulla verosimiglianza del

     personaggio che canta invece di parlare; ciò è attestato dal graduale abbandono dei soggetti pastorali, e dal fatto che gli stessi argomenti mitologici cessarono di essere esclusivi: si iniziò così a

    elaborare soggetti derivati dai racconti epico-cavallereschi di Ariosto e Tasso, dall'agiografia

    cristiana e perfino dagli intrecci della commedia dell'arte.

    Inoltre la linearità dell'iniziale opera fiorentina, basata su trame semplicissime e fedeli alle unità

    aristoteliche di tempo, luogo e di azione, andò presto travolta da libretti sempre più incuranti di

    queste unità e inclini a complicare l'azione (tra l'altro ammettendo scene comiche accanto a quelle

    tragiche e creando situazioni spettacolari atte a favorire le esibizioni della scenotecnica barocca) eda musiche stilisticamente composite.

    Dal punto di vista musicale, il primo esempio di opera che registra un distacco dalla scuolafiorentina è La catena d'Adone (Roma 1626) di Domenico Mazzocchi (1592-1665) su libretto di

    Ottavio Tronsarelli. Il libretto si rifà a un episodio dell' Adone di Giovanni Battista Marino, e narra

    la storia di Adone che, vittima delle arti della maga Falsirena, viene liberato da Venere; la storia

    vuole simboleggiare la liberazione dell'uomo dalla schiavitù dei sensi e degli inganni per mezzo

    della grazia celeste. I personaggi mitologici che fanno parte dell'azione non hanno più il carattere

    solenne di quelli dell'opera fiorentina, ma hanno atteggiamenti simili ai personaggi di una farsa

    realistica e piccante. La trama è complessa ed è infarcita di ogni sorta di trucchi magici e di

    travestimenti, a cui si aggiungono continui cambiamenti di scena, apparizioni divine, congiure, iltutto inserito nel consueto sfondo pastorale. La presenza di scene fantastiche, il numero elevato di

     personaggi e una certa incoerenza in alcuni episodi fanno intravedere in questo lavoro il futurosviluppo dell'opera barocca. Per quanto riguarda la musica, l'importanza della Catena d'Adone

    risiede nel numero dei suoi insiemi vocali e nella distinzione embrionale che si viene a definire frarecitativi monodici e melodie vocali con profilo melodico e forma musicale più definiti: appare il

    termine "aria" e viene applicato non solo alle melodie vocali solistiche, ma anche ai duetti e ai pezzi

    d'insieme con più voci. Alcune "arie" solistiche non sono facilmente distinguibili dai recitativi

    monodici; altre hanno invece una struttura precisa e una melodia ben definita. Questo uso di forme

    chiuse di diversa specie è frequente, ed ha luogo (così dichiara Mazzocchi stesso nella prefazione

    alla partitura) allo scopo di evitare il “tedio del recitativo”.

    A partire dal 1632 si utilizzò di preferenza come teatro una sala con capacità di circa 3000 posti a

    sedere allestita da Gian Lorenzo Bernini nel Palazzo Barberini alle Quattro Fontane (durante il

     pontificato di Maffeo Barberini, divenuto papa Urbano VIII) inaugurato in quell'anno con l'opera

    Sant'Alessio di Stefano Landi (1590 ca.-1655) su testo del cardinale Giulio Rospigliosi (1600-

    1669), futuro papa Clemente IX dal 1667. Rospigliosi scrisse in tutto una dozzina di libretti, chevanno dal dramma sacro, alla favola pastorale, alla commedia in musica; in particolare si adoperò

     per equiparare l'opera al teatro parlato, attraverso la letteratura popolare devota, la commedia

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    dell'arte e l'opera del drammaturgo spagnolo Pedro Calderòn de la Barca (1600-1681).

    Proprio a Roma fu particolarmente accentuata la tendenza delle "azioni tutte in musica" ad

    adeguarsi alla varietà tematica del teatro parlato; il governo papale infatti era contrario alle

    rappresentazioni dei cosiddetti comici dell'arte e l'opera dunque cercò di prenderne il posto facendo

     proprie a volte alcune sue caratteristiche. Sui frontespizi il più frequente sottotitolo non fu più

    "favola", ma "dramma" o "commedia" musicale: il termine "commedia" non denotavanecessariamente un genere comico ma venne a significare un qualsiasi tipo di azione teatrale.

    L'importanza data agli apparati scenici e ai relativi effetti spettacolari, ritenuti altrettanto importanti

    della musica, dava ancora agli spettacoli operistici carattere di eccezionalità, e per questo motivo le

    opere venivano riprese poche volte.

    Il Sant'Alessio fu dunque la prima opera rappresentata nel teatro del Palazzo Barberini, e il primo

    allestimento curato da Rospigliosi: in quegli anni infatti, e per molto tempo ancora, il librettista si

    occupava della regia degli spettacoli. E' importante notare in quest'opera la presenza di elementi e

     personaggi comici, perché questa novità, insieme agli argomenti agiografici e agli effettispettacolari, saranno le caratteristiche tipiche delle opere romane seicentesche. Il recitativo

    comincia a mostrare quelle che saranno le sue peculiarità future, diviene più discorsivo, presenta

    molte note ribattute e cadenze, ed è a volte interrotto da brevi episodi cantabili: nel complesso peròl'opera è solenne e oratoriale. Le arie solistiche sono poche, ma abbondano le scene corali e

    d'insieme, tra cui, da segnalare, è quella che conclude l'ultimo atto.

    Su testo di Rospigliosi è anche la favola pastorale Erminia sul Giordano, tratta da diversi episodi

    della Gerusalemme liberata di Tasso, e musicata da Michelangelo Rossi (1633): le scene difettano

    di coordinazione, ma presuppongono ricchi e macchinosi effetti scenici.

    Per quanto riguarda la commedia in musica, alla quale si accennava, Rospigliosi ne dette il primo

    esempio storico nel 1637 con il Falcone (tratto dal Decameron di Boccaccio) musicato da VirgilioMazzocchi (fratello di Domenico, 1597-1646), che fu poi rielaborato con il titolo Chi soffre speri e

    con aggiunte musicali di Marco Marazzoli: in questo lavoro l'elemento comico svolge un ruolosignificativo e si fa via via sempre più vivo l'esempio del contemporaneo teatro drammatico

    spagnolo, impostato sulla più grande molteplicità di situazioni e azioni ed effetti, in netta

    opposizione ai principi aristotelici. Altro soggetto tipicamente spagnolo è quello di Dal male il bene

    (1654) sempre di Rospigliosi, tratto da una commedia di Calderòn de la Barca, con la musica di

    Marazzoli e di Angelo Maria Abbatini (1595-1679). In queste due opere vengono impiegati rapidi

    recitativi semplici in stile parlante, e pezzi d'insieme solistici concertati, elementi che anticipano lo

    stile dell'opera buffa.

    L'ultimo importante compositore romano di opere di questo periodo fu Luigi Rossi (ca. 1597-1653),di cui si conoscono Il palazzo incantato (su testo di Rospigliosi, Roma 1642), ricco di invenzioni

    sceniche, e Orfeo. Quest'ultimo fu rappresentato in italiano a Parigi nel 1647; la famiglia Barberiniinfatti, a causa dei cambiamenti politici verificatisi a Roma nel 1644 con l'elezione di papa

    Innocenzo X (Doria Pamphili), era stata costretta a emigrare in Francia. Su invito del cardinalMazarino molti musicisti, compreso Luigi Rossi, si recarono a Parigi al seguito della famiglia

     principesca per dare al pubblico francese un esempio dell'opera italiana. Il testo di Orfeo, basato sul

    mito antico, introduce tuttavia molti episodi che danno vita a una successione di scene serie e

    comiche intercalate da balli ed effetti scenografici spettacolari. Di fronte a un libretto del genere,

    sprovvisto di unità drammatica, Rossi sfrutta tutte le occasioni musicali offerte da ogni scena. La

     partitura di Orfeo è dunque varia come il libretto, e costituisce il primo caso di opera dove il

    numero delle arie supera quello dei recitativi: vi si trovano arie strofiche su un basso ostinato, arie

     bipartite, arie comiche, arie con da capo e altrettanti pezzi d'insieme di diversa specie. La musica

     possiede perfezione stilistica e raffinatezza, ma nonostante la bellezza dei particolari, nella sua

    totalità non ha però molta consistenza drammatica. In questo senso l'Orfeo di Rossi testimonia

    quanto l'opera in pochi decenni si fosse allontanata dagli ideali della scuola fiorentina e avesseintrapreso la strada della esteriorità formale tipica della poetica barocca.

    Roma fornì anche i primi esempi di esportazione di un'opera in altre città attraverso compagnie

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    itineranti: è per questa via che il nuovo genere raggiunse Venezia.

    5.6 L'opera a Venezia 

    Venezia fu la prima città dove, nel 1637, nacque per l'opera un teatro pubblico destinato a un

     pubblico pagante, che fu il teatro di San Cassiano, edificato dalla nobile famiglia Tron. Altri ne

    seguirono presto in parecchie città d'Italia, e nella stessa Venezia, che arrivò a possedernecontemporaneamente sedici, e perciò fu, fino a tutto il secolo seguente, il centro italiano (ed

    europeo) più ricco di vita operistica.

    Il passaggio dal teatro privato al teatro pubblico fu una svolta importante. Il teatro privato era un

    atto di mecenatismo che un nobile offriva ai suoi pari, o anche a una certa borghesia più elevata, a

    un pubblico scelto insomma, formato da un numero di invitati che poteva essere anche molto alto.

    Lo spettacolo d'opera era dunque un "evento", qualcosa di unico, che anche le corti più importanti

    offrivano raramente, e non in un teatro come noi lo intendiamo, ossia in un edificio apposito, ma in

    una sala che di volta in volta veniva adattata per lo spettacolo in programma. Lo spettacolo pubblicofu invece a pagamento (anche se in modo diverso da come avviene oggi), si organizzò in "stagioni"

    collocate in determinate epoche dell'anno (durante le quali ogni opera si replicava per parecchie

    sere), creò un tipo di edificio apposito (il teatro a palchetti su pianta a ferro di cavallo o a ellisse), egradatamente sostituì la scenografia creata espressamente per un'opera determinata, con un

    repertorio di scene "in dotazione" da usare in tutte le opere.

     Nelle Memorie teatrali di Venezia (Venezia 1681) il canonico e librettista dalmata Cristoforo

    Ivanovich (1628-1689) spiegò in maniera particolareggiata l'organizzazione del sistema

    impresariale veneziano il quale si proponeva di realizzare nei teatri d'opera “una pompa e splendore

    incredibile, punto non inferiore a quanto si pratica in diversi luoghi della magnificenza de' Principi,

    con questo solo divario, che dove questi lo fanno godere con generosità, in Venezia è fatto pernegozio”. Questa trasformazione non deve tuttavia far pensare a un teatro puramente impresariale

    frequentato da chiunque, perché in realtà si trattava ancora di un semimecenatismo per il fatto chedietro ogni teatro c'era una famiglia nobile, o un gruppo di nobili, che offriva delle basi finanziarie.

    Fin dalla costruzione del teatro ogni palchetto diveniva proprietà di un "palchettista" che poteva

    comunque darlo in affitto ad altri: in questo modo solo una parte del pubblico versava denaro

    all'imprenditore direttamente sera per sera. Inoltre, a partire soprattutto dal primo Settecento, il

    numero delle repliche non era proporzionale al numero degli spettatori, perché questi erano, per la

    maggior parte, sempre gli stessi: era costume dei palchettisti infatti frequentare il teatro tutte le sere,

    come a un ritrovo. Quindi il pubblico dell'opera rimase relativamente ristretto e, salvo eccezioni,

    limitato ad alcuni ceti.Dopo l'apertura del teatro di S. Cassiano, nel 1637, a Venezia sorsero altri cinque teatri destinati

    all'opera in musica. Tali teatri presero il nome della parrocchia in cui si trovavano: il teatro di S.Moisé (dal 1639), dei SS. Giovanni e Paolo (1639), Novissimo (1641), di S. Apollinare (1651), di

    S. Luca o S. Salvador (1661). Le famiglie patrizie veneziane che ne finanziarono la costruzione o ilriadattamento dandone poi la gestione ad impresari furono i Tron, i Vendramin, i Giustinian e i

    Grimani.

    Il carattere impresariale dell'opera veneziana determinò anche un sensibile cambiamento dei

    contenuti e della struttura dell'opera in musica. Se i primi soggetti della produzione operistica

    veneziana si rivolgono principalmente alla mitologia, ben presto si passò a temi tratti dalla storia

    classica, in particolare le vicende della guerra di Troia e dalla storia romana. Questo perché Venezia

    si considerava discendente di Roma la cui nascita, a sua volta, era tradizionalmente collegata

    all'eroe troiano Enea. In tal modo veniva sottolineata la grandezza di Venezia, i suoi ideali e le sue

    eroiche origini. Protagonisti di queste opere sono quindi eroi come Achille, Ulisse, Scipione,

    Alessandro Magno, Muzio Scevola, Annibale. Ciò non impediva però di lasciare ampio spazio alle

    situazioni amorose, alle vicende romanzesche adatte a fornire occasioni per realizzare straordinarieffetti scenici. Importante a questo proposito fu l'opera di Jacopo Torelli (1608-1678), l'architetto e

    scenografo che, al fine di rendere possibile il cambiamento simultaneo delle scene, mise a punto un

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    sistema di quinte scorrevoli attraverso un congegno posto sotto il palcoscenico. Mentre nel corso

    dei primi anni i libretti veneziani continuarono ad avere la divisione in cinque atti tipica dell'opera

    cortigiana, successivamente si passò alla più agile struttura in tre atti che rimase praticamente in

    auge, almeno per l'opera seria, fino a tutto il Settecento.

    Fino alla metà del secolo la struttura musicale dell'opera a Venezia era basata fondamentalmente

    sullo stile recitativo che, grazie alla sua forma "libera", ben si adattava a piegarsi di volta in volta ai percorsi mutevoli e contrastanti del testo. Non mancavano comunque periodiche aperture, senza

    soluzione di continuità, in zone ariose come del resto già avveniva nell'opera romana. Le strutture

    chiuse come arie e canzonette strofiche corredate da interventi strumentali si incontravano per lo

     più in episodi narrativi e dialoganti, in situazioni festose, e in scene con personaggi giovani e

     buffoneschi.

    5.7 Monteverdi, Cavalli e Cesti 

    Se ci soffermiamo a considerare le due opere veneziane di Monteverdi che ci sono rimaste, Ilritorno di Ulisse in patria (composta su testo, tratto dall'Odissea XIII- XXIII, del nobile veneziano

    Giacomo Badoaro [1602-1654] e rappresentato dalla compagnia Manelli al teatro S. Cassiano e a

    Bologna nel 1640) e L'incoronazione di Poppea (1642, rappresentata al teatro dei SS. Giovanni ePaolo nel carnevale del 1643 su libretto di Gian Francesco Busenello [1598-1659]), ci possiamo

    rendere conto della straordinaria evoluzione stilistica verificatasi dai tempi delle sue produzioni

    mantovane. Si passa intanto dalla rappresentazione di un mondo fantastico e irreale nel quale i

     personaggi sembrano rappresentazioni di ideali universali e astratti, alla rappresentazione, nelle

    ultime opere veneziane, di personaggi reali, carichi di umanità con le loro passioni quali amore,

    odio, tristezza, gelosia. Il recitativo monteverdiano manifesta in queste ultime opere tutta la gamma

    delle sue possibilità espressive sperimentando varie soluzioni formali: si passa dalla declamazioneaperta e continua, all'inserimento di brevi aperture melodiche. Le forme chiuse hanno

     principalmente ritmi ternari e sono costruite su frasi melodiche dall'andamento prevalentementeregolare. Le situazioni patetiche e i sentimenti contrastanti di solito vengono resi attraverso motivi

    cromatici, intervalli melodici minori e diminuiti e attraverso colorature.

     L'incoronazione di Poppea è per molti aspetti il capolavoro operistico di Monteverdi, pur non

     possedendo la varietà di colori orchestrali e l'ampia struttura scenica e strumentale dell'Orfeo. In

     Poppea prevale una scorrevole e spontanea alternanza fra un recitativo declamato costruito sul

     parlato e aperture liriche musicalmente più mosse in corrispondenza di momenti

    drammaturgicamente ed emotivamente salienti del testo, senza chiudersi in quella rigida alternanza

    in arie e recitativi nettamente distinti che si stava gradualmente affermando dell'opera del tempo.Un importante esponente della scuola operistica veneziana fu Pier Francesco Cavalli (1602-1676),

    allievo di Monteverdi, organista e successivamente maestro di cappella in S. Marco. Dal 1639 al1666 produsse musica operistica (più di trenta opere) che fu rappresentata nei teatri veneziani; in

    seguito tali opere furono eseguite da compagnie itineranti in molte città italiane (tra cui Ancona,Firenze, Milano, Napoli, Palermo) e a Parigi, dove Cavalli visse fra 1600 e 1602.

    La musica di Cavalli, analogamente a quella di Monteverdi, utilizza una scorrevole alternanza tra

    stile recitativo e stile arioso, senza quella netta differenziazione tra recitativo e aria che si realizzerà

    solo più tardi. A volte le sezioni ariose intervengono in momenti particolarmente significativi del

    testo alla fine della sezione in recitativo: in tal caso questi episodi erano detti "cavate" o "arie

    cavate". Di solito i recitativi in Cavalli sono sostenuti soltanto dal basso continuo, mentre in rari

    casi intervengono gli archi. Normalmente la funzione dell'orchestra era quella di eseguire ritornelli

    tra una strofa e l'altra delle arie. Quasi tutte le arie del Cavalli sono in ritmo ternario e spesso

    costruite su basso ostinato. Nel caso del "lamento", un topos operistico particolarmente diffuso in

    quel periodo, tale basso era costituito da un tetracordo discendente (diatonico o cromatico) che si

    ripeteva per tutta la durata dell'aria. E' il caso del celebre lamento di Climene nell'opera Egisto(1643): la figurazione del basso, basata su un tetracordo discendente che occupa quattro battute,

    viene ripetuta diciotto volte. Il "lamento" così concepito ebbe notevole fortuna anche al di fuori del

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    repertorio operistico, e in particolare nella cantata da camera. D'altra parte Cavalli mostra un certo

    vigore realistico anche nelle scene comiche, dando prova di conoscere a fondo anche questo tipo di

    meccanismo drammatico: esemplare in questo senso è il suo Ormindo (1644).

    Altro compositore della scuola veneziana fu Antonio Cesti (1623-1669); delle dodici opere che ci

    rimangono di lui, almeno cinque ebbero una vasta circolazione: L'Orontea (1649), l' Alessandro

    vincitor di se stesso (1651), l' Argia (1655), la Dori (1657) e il Tito (1666). Questi lavoriinaugurarono diversi teatri pubblici quali quello di Pavia, Cremona, Macerata, Torino, Viterbo,

    Foligno. Nelle opere di Cesti si approfondisce notevolmente la separazione tra recitativo e aria. In

    questo modo Cesti contribuì notevolmente alla definizione di una nuova struttura del melodramma,

    in cui il centro dell'interesse musicale si sposta dal recitativo ai pezzi chiusi e lirici (aria e duetto)

    conferendo ad essi una definizione più netta, proporzioni più ampie, e dando vita a una notevole

    varietà di forme: come in Cavalli abbiamo l'aria-lamento su basso ostinato e l'aria strofica con

    ritornello strumentale ripetuto fra una strofa e l'altra, ma la novità più evidente in Cesti è la

     prograssiva affermazione dell'aria con da capo, cioè un'aria tripartita (A B A) in cui la terza parte ècostituita dalla ripetizione della prima. Questa ripetizione spesso è variata attraverso l'inserimento

    di nuove fioriture melodiche. Questa innovazione introdotta da Cesti è particolarmente importante

     perché, come vedremo, l'aria col da capo rappresenterà la struttura portante dell'opera seria, maanche dell'opera buffa, in tutto il secolo successivo.

     Nonostante la grande diffusione dell'opera in diverse città italiane grazie all'apertura di moltissimi

    nuovi teatri pubblici, Venezia continuò per tutta la seconda metà del secolo ad essere il principale

    centro di produzione operistica in Italia. Altri compositori importanti oltre Cavalli e Cesti furono

    Carlo Pallavicino (ca. 1630-1688). Antonio Sartorio (ca. 1620-1681), Giovanni Legrenzi (1626-

    1660), Pietro Andrea Ziani (ca. 1620- 1684), Carlo Francesco Pollarolo (1653-1729). Il lavoro più

    importante di Sartorio fu l'opera seria Adelaide (1672), mentre Legrenzi si distinse nel genereeroicomico, in cui si alternavano scene serie a scene comiche. Le sue opere principali furono Totila

    (1677) e Il Giustino (1683).Molte opere di compositori veneziani furono rappresentate anche in altre città italiane (Bologna,

    Roma, Napoli, Milano, Siena, Genova, Reggio Emilia, Udine) e anche all'estero. Molti compositori

    alternarono la loro attività in Italia con soggiorni all'estero: è il caso di Carlo Pallavicino (1630-

    1688) che lavorò principalmente a Dresda e Agostino Steffani che, fra l'altro, lavorò a lungo a

    Monaco di Baviera e ad Hannover.

    Verso la fine del secolo il ruolo guida della produzione operistica passerà da Venezia a Napoli,

    dove l'opera fu introdotta dalla compagnia di Febiarmonici che vi rappresentarono alcune opere

    veneziane. Primi compositori napoletani di qualche rilievo furono Francesco Cirillo (1632-1656), eFrancesco Provenzale (1627-1704).

    6. L'opera in Francia tra Sei e Settecento

    6.1 Introduzione 

     Nel corso del Seicento e del Settecento l'opera italiana si diffuse e si affermò in tutta Europa

    diventando l'opera per eccellenza sia nella struttura musicale sia nell'uso della lingua italiana.

    Tentativi di organizzare un'opera "nazionale" furono fatti in Germania, soprattutto ad Amburgo, e in

    Inghilterra dove emerge la figura isolata di Henry Purcell. L'unico paese che riuscirà a creare un

    tipo di opera autoctona completamente svincolata dal modello italiano fu la Francia.

    L'opera italiana era approdata in Francia grazie al matrimonio di Maria de' Medici con il re Enrico

    IV. In seguito il Cardinal Mazarino, nel tentativo di italianizzare la cultura francese chiamò alla

    corte parigina numerosi compositori, librettisti e operatori teatrali italiani. Furono così rappresentate

    l'Orfeo, opera del compositore di scuola romana Luigi Rossi che era arrivato a Parigi al seguito

    della famiglia Barberini, il Serse e l' Ercole amante di Cavalli.Le caratteristiche dell'opera italiana del tempo, per la sua irrazionalità, per la complessità degli

    intrecci difficilmente comprensibili e l'incoerenza drammatica dovuta al disinvolto alternarsi di

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    episodi seri ed episodi comici poco si confacevano però allo spirito francese e ai gusti della classe

    intellettuale di corte. Inoltre non si capiva la struttura musicale costituita da un noioso succedersi di

    arie e recitativi, ma soprattutto non si accettava l'uso della voce innaturale e astratta dei castrati.

    Questa insoddisfazione unita al forte sentimento nazionalistico tipico dei francesi portò alla

    creazione di un tipo di opera in lingua francese con caratteristiche musicali e drammaturgiche

     proprie.

    6.2 Il Ballet de cour e la Comédie-ballet 

    Il nuovo tipo di spettacolo operistico si innestò in Francia su due generi autonomi come il balletto e

    la tragedia parlata che in Francia godevano di una lunga e gloriosa tradizione. Il ballet de cour era

    un genere di spettacolo che faceva parte integrante del cerimoniale di corte: esso era caratterizzato

    da argomenti mitologici, personaggi allegorici la cui funzione era ovviamente quella di esaltare la

    monarchia, sfarzo nelle scene e nei costumi, l'uso di cori omofonici e il rispetto nei ritmi musicali

    della metrica della versificazione francese. Un esempio tipico di questo tipo di spettacolo fu Circéou le Balet comique de la Royne (comique ha qui significato generico di "drammatico")

    rappresentato a corte nel 1581 per festeggiare il matrimonio di Maria di Lorena, sorella della regina,

    con il duca di Joyeuse. Il soggetto è ovviamente basato sulla figura della maga Circe i cuiincantesimi vengono interpretati in chiave allegorica: i sovrani francesi avrebbero dovuto acquistare

    un potere magico attraverso la sconfitta della maga. Autori della musica furono Jacques Salmon e

    Lambert de Beaulieu, e il coreografo fu il ballerino Baldassarre de Belgioioso.

    Dagli elementi derivati dal ballet de cour il drammaturgo Molière e il musicista Jean- Baptiste

    Lully (1632-1687) idearono la cosiddetta comédie-ballet , cioè una commedia infarcita di entrées di

     balletto e brani vocali corali e solistici (airs) i cui argomenti erano leggeri, prevalentemente amorosi

    e satirici. Un tipico esempio di questo genere è Le bourgeois gentilhomme del 1670.

    6.3 Lully e la tragédie-lyrique Ufficialmente l'opera francese ebbe inizio con la fondazione dell'Académie Royale de Musique,

    avvenuta nel 1669 sotto la direzione del librettista Pierre Perrin (ca. 1620-1675) e del compositore

    Robert Cambert (ca. 1627-1677) che ebbero l'esclusiva di comporre e rappresentare opere

    interamente cantate. Frutto di questa collaborazione furono le opere a carattere pastorale Pomone e

     Les peines et les plaisirs. In seguito al fallimento della gestione di Perrin e Cambert la direzione

    dell'Académie e quindi il monopolio delle esecuzioni d'opera furono affidate al già citato Jean-

    Baptiste Lully. Italiano di nascita, giunse a Parigi nel 1646, a 14 anni. Alla sua straordinaria

     personalità si deve l'ideazione della struttura tipica dell'opera nazionale francese che venne arappresentare la sintesi di tutti i generi ampiamente collaudati in Francia: cioè il ballo, la tragedia

    classica nazionale di Thomas Corneille e Jean Racine, la pastorale e gli apparati scenotecnici trattidall'opera italiana. Tale modello di opera prese il nome di Tragédie-lirique o tragédie-en musique.

    Il librettista principale di Lully fu il commediografo Philippe Quinault che trattò principalmentetemi mitologici e pastorali. Il primo esempio di tragédie-lirique risale al 1673: Cadmus et Hermion;

    su testo di Quinault; dello stesso librettista sono le opere Alceste (1674), Thésée (1675), Atys

    (1676), Isis (1677). Psyché (1678) e Bellérophon (1678) sono su testo di T. Corneille e B. le Bovier

    de Fontenelle; ancora Proserpine (1680), Persée (1682), Phaéton (1683), Amadis (1684), Roland

    (1685), Armide (1686) sono su libretto di Quinault; infine Acis et Galathée (" pastorale héroique"

    (1686) e Achille et Polyxène (completata da Pascal Collasse) sono su libretto di J. G. de

    Campistron.

    Come abbiamo già detto, nelle intenzioni di Lully e di Quinault la tragédie-lirique mantiene le

    caratteristiche drammaturgiche della tragedia parlata della tradizione francese, infatti Quinault

    attinse a piene mani da Corneille e Racine spesso usando le loro stesse fonti classiche. Il verso usato

    era quello alessandrino (verso di dodici sillabe con cesura dopo la sesta) alternato a volte a ottonarie novenari per rendere più scorrevole il ritmo. Vennero rispettate le unità aristoteliche di tempo e di

    luogo e, a partire dal Thésée (1675), vennero eliminate le scene comiche. Tra le regole della

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    tradizione drammaturgica venne riaffermata quella della liaison de scène, cioè la regola secondo cui

    nel corso dell'opera veniva realizzata una sorta di continuità lasciando sempre in scena almeno un

     personaggio presente nella scena precedente. Dalla tradizione drammaturgica francese Lully eredita

    anche l'articolazione in cinque atti preceduti da un prologo: quest'ultimo spesso era cantato da dei,

    ninfe, démoni, figure allegoriche (il Sole, la Vittoria, la Gloria) con la funzione di glorificare il re e

    la monarchia.Elemento strutturale base della tragédie lyrique di Lully è il recitativo, che ha la funzione di

    imprimere al dramma un carattere di continuità e unitarietà: non si tratta del recitativo di tipo

    italiano vicino al parlato comune, ma piuttosto dello stile declamatorio tipico della tragedia recitata

    francese. Al fine di seguire il ritmo naturale del testo Lully alterna impercettibilmente misure

     binarie e ternarie producendo in questo modo un fluire naturale della linea melodica. Ovviamente

    tale naturalezza di espressione si basa anche su una struttura rigorosamente sillabica, priva cioè di

    fioriture e ornamentazioni superflue in questo contesto.

    Gli interventi dell'intera orchestra di solito si limitano a momenti particolarmente patetici oappassionati, mentre di solito l'accompagnamento è affidato soltanto agli strumenti che realizzano il

     basso continuo. Momenti di grande eccitazione emotiva sono resi con pause, sincopi, valori puntati,

    esclamazioni affannate, salti melodici inusitati di sesta minore e di quinta diminuita. Nella tragédie lirique l'air è molto simile, nello stile, al recitativo nel quale spesso viene integrato

    in maniera analoga a quanto avviene con l'aria cavata dopo un recitativo nell'opera italiana. Come il

    recitativo il suo stile è quasi sempre sillabico e aderente alle sfumature della declamazione francese.

    Gli airs di Lully sono in genere accompagnati dai soli strumenti del basso continuo e spesso si

    compongono di una frase melodica che ritorna due o più volte, preceduta da un ritornello

    strumentale eseguito da due violini e basso continuo. Altra struttura adoperata è quella bipartita 

    (AAB), tipica dell'air de cour . Numerosi sono i pezzi vocali, specialmente duetti, basati su unascrittura prevalentemente omofonica, che spesso si avvalgono di ritmi di danza.

    Un elemento fondamentale della tragédie lulliana è rappresentato dai cori che spesso sonofunzionali allo svolgimento del dramma come avviene, per esempio, nella scena del sacrificio in

     Bellérophon (III/5) (1679) e in molte scene d'oltretomba, di magia e incantesimo. Tuttavia a volte i

    cori possono avere anche la stessa funzione, esterna al dramma, di commento dell'azione, così come

    avveniva nell'antica tragedia greca. Un esempio di questo uso del coro è dato dalla scena

    dell'assassinio di Sangaride, in Atys. La tipica scrittura corale usata da Lully è quella omoritmica e

    antifonale a quattro parti piuttosto che contrappuntistica.

    L'orchestra di Lully è costituita da cinque parti di archi (due parti di violino, due di viola, una di

     basso), e un gruppo di fiati (flauti, oboi, fagotti) usati sia come sostegno agli archi, sia in manieraautonoma. L'orchestra spesso era divisa in due gruppi: un petit choeur (corrispondente al concertino

    della musica italiana), costituito da 10 strumentisti (violini, flauti, strumenti di basso continuo) cheaccompagnava gli airs; e un grand choeur (corrispondente al concerto grosso) formato da 24

    strumenti (archi, fiati e strumenti del basso continuo). Lully usa spesso l'orchestra a scopodescrittivo, una tendenza questa molto presente nella musica francese, non soltanto operistica (basti

     pensare alla letteratura clavicembalistica tra Sei e Settecento).

    Particolarmente importante nell'opera francese è l'ouverture, un brano strumentale che veniva 

    eseguito prima dell'opera stessa con funzione di introduzione. L'ouverture di Lully è una

    introduzione solenne e brillante: essa è divisa in due movimenti, spesso ritornellati: il primo è lento

    e maestoso, in metro binario e in ritmo puntato; il secondo è veloce, in metro ternario e in stile

    fugato o imitativo. Molti compositori si servirono del modello stabilito da Lully, detto anche "alla

    francese": tra essi G. F. Haendel in molte sue opere e J. S. Bach in diverse composizioni

    strumentali.

    Il modello formale e lo stile musicale della tragédie-lirique di Lully ebbero una notevole influenza

    sui compositori francesi delle generazioni successive. Le sue opere rimasero in repertorio a lungo,fin quasi alla fine del Settecento. Anche i testi di Quinault continuarono a godere di una certa

    fortuna per tutto il Settecento. Il libretto di Armide rappresentò nel Settecento, come vedremo, un

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    modello tipico di coerenza drammatica in alternativa all'imperante drammaturgia metastasiana: si

    vedano ad esempio l' Armida viennese Tommaso Traetta (1761), l' Armida abbandonata napoletana

    di Niccolò Jommelli (1770)con e l' Armide parigina del 1777 di Gluck.

    La fama di Lully è confermata anche dalle numerose parodie poetiche (allusive e satiriche) adattate

    a melodie tratte da sue opere (si volevano porre in ridicolo gli eroi e la pompa regale delle tragédies

    lyriques). Tali composizioni venivano denominate vaudevilles, che divennero l'elemento base dellaopéra-comique, un genere di spettacolo che prevedeva l'alternanza di parti recitate e parti cantate

    che si diffuse in Francia a partire dal 1690 circa.

    6.4 L' Opéra-ballet 

    L'epoca post-lulliana è caratterizzata dall'affermarsi di un nuovo genere di spettacolo, l'opéra-ballet ,

    il cui prototipo è rappresentato dall' Europe galante (Parigi 1697) di André Campra (1660-1744),

    che si andrà ad affiancare alla perdurante tragédie-lirique. Ciò avviene in corrispondenza con

    l'avvento del regno di Luigi XV che aveva determinato un sensibile cambiamento nel clima politicoe sociale di corte. Infatti a differenza del ballet de cour , mancava nell'opéra-ballet un'azione

    drammatica coerente e continua; veniva eseguita da dilettanti ed era completamente accompagnata

    dalla musica. Si trattava quindi di una sequenza di quadri riconducibili genericamente a un temacomune (le stagioni, le nazioni, ecc.) che doveva avere la funzione di pretesto per balli, arie, cori,

    effetti scenici di vario genere.

    Altro sintomo del cambiamento stilistico avvenuto in questo periodo fu l'infiltrazione di

    caratteristiche italiane, tendenza questa che fu rigorosamente contrastata dai critici conservatori, i

    quali rimasero fedeli alla pura tradizione dell'opera francese così come l'aveva concepita Lully. Il

    conflitto tra gli stili francese e italiano provocò nel corso del Settecento, querelles e polemiche

    molto dibattute. Nel momento in cui l'autorità del modello lulliano come proiezione del potereassoluto della monarchia venne meno, nell'opera francese cominciarono a crearsi spazi per

    l'infiltrazione di elementi stilistici alternativi alla tradizione francese, quindi italiani: inserimento diintere arie cantate in italiano o di ariettes con testo francese ma musica in stile italiano, l'uso

    occasionale della forma col da-capo, e l'uso di certe innovazioni armoniche estranee all'idioma di

    Lully ma comuni nella musica di compositori italiani, come modulazioni più libere, l'uso

    abbondante di appoggiature, accordi di settima, alterazioni cromatiche e una scrittura vocale più

    fiorita o espressiva.

    6.5 Rameau

    Jean-Philippe Rameau (1683-1764) rappresenta la figura centrale dell'operafrancese del Settecento. Fu inizialmente teorico, organista e compositore di musica strumentale.

    Soltanto a cinquant'anni (1733) rappresentò la sua prima opera teatrale, la tragédie-lyrique Hippolyte et Aricie, su libretto dell'Abbé Pellegrin, grazie al contributo del mecenate Alexandre-

    Jean-Joseph Le Riche de La Pouplinière presso il quale lavorava. Il successivo grande successo fu,nel 1735, l'opéra-ballet Les Indes galantes. A queste opere seguirono più di venti altri lavori

    teatrali, tra cui Castor et Pollux (1737), Dardanus (1739), Zoroastre (1749) e gli opéra-ballets Les

     Fêtes d'Hébé (1739), Platée (1745) e Zaïs (1748).

    La figura e la produzione operistica di Rameau furono costantemente al centro di aspre polemiche:

    a Parigi si crearono addirittura due opposti partiti: uno favorevole a Rameau (i "ramisti"), l'altro (i

    "lullisti") a lui contrario perché lo accusava di aver sovvertito la tradizione dell'opera francese,

    rappresentata appunto dall'opera di Lully. I lullisti consideravano la musica di Rameau troppo

    complicata e priva di naturalezza. Rameau cercò di giustificarsi nell'introduzione a Les Indes

     galantes, dicendo che aveva “tentato di imitare Lully, non come un copista servile ma, come aveva

    fatto lui, prendendo la natura stessa a modello in tutta la sua bellezza e semplicità”.

    Successivamente Rameau fu coinvolto, suo malgrado, in un'altra polemica, basata sullacontrapposizione della musica francese e quella italiana. Questa querelle fu chiamata Guerre des

     Bouffons, e in essa fu proprio Rameau a diventare il paladino di coloro che lo avevano

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     precedentemente accusato di non scrivere secondo il modello di Lully, dato che aveva ufficialmente

     preso una posizione contro la fazione favorevole alla musica italiana capeggiata da J. J. Rousseau.

    In effetti dal punto di vista musicale le opere di Rameau si pongono sulla scia della grande

    tradizione lulliana: stesso uso della declamazione appropriata e ritmicamente precisata dei recitativi;

    stessa alternanza di recitativi, sezioni di arie melodiche più tradizionali, cori, interludi strumentali; 

    frequente introduzione di scene di divertissement ; e, nelle prime opere, lo stesso tipo di ouverture.D'altra parte si devono rilevare anche numerosi cambiamenti sostanziali. La specificità di Rameu si

     può ravvisare nella natura delle linee melodiche che è ben radicata nell'armonia, per cui i tracciati

    melodici spesso ribadiscono le triadi armoniche a conferma delle sue teorie contenute nel celebre

    Traité de l'harmonie. Su questa stessa linea, Rameau, a differenza di Lully, estende la sua armonia

    diatonica verso procedimenti cromatici ed enarmonici.

    Anche nelle opere di Rameau, come in quelle di Lully, rileviamo un minore contrasto tra lo stile del

    recitativo e quello dell'aria rispetto a quanto avveniva nell'opera italiana. Le arie sono bipartite, col

    da capo o nella forma a rondeau. Manca in esse quella intensità espressiva che caratterizzava le arieitaliane, perché mantengono piuttosto una certa oggettività e freddezza emotiva, pervase di una

    certa vivacità favorita dalla ricca ornamentazione.

    I cori sono ancora più numerosi che in Lully, hanno carattere brillante e sono utilizzati spesso infunzione drammaturgica.

    Rameau trasferì nell'opera la sua passata esperienza di musicista strumentale, esperienza che si

    rileva nelle già citate ouvertures, nelle danze, e nelle sinfonie di carattere descrittivo. Per quanto

    riguarda l'ouverture, se all'inizio Rameau mantenne lo schema di Lully ampliandone però il secondo

    movimento, successivamente sperimentò la forma tripartita tipica della sinfonia italiana. Infine è da

    rilevare in esse la presenza di temi che saranno poi usati nell'opera anticipando un procedimento

    che diventerà consueto, come vedremo, nell'opera "riformata". Altro elemento ricorrente sono i balli, dal minuetto alla ciaccona che ovviamente si collegano all'antica tradizione coreutica

    francese.

    7. L'opera italiana nel primo Settecento 

    7.1 Introduzione 

    Fra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento assistiamo alla codificazione di un tipo d'opera

     profondamente diverso rispetto a quello che si era diffuso nel corso del Seicento. Abbiamo visto

    come il passaggio dall'opera di corte all'opera di tipo impresariale aveva rappresentato un momento

    decisivo di svolta nella storia dell'opera, producendo un interesse diffuso per questo genere dimusica a diversi livelli sociali. Abbiamo anche visto come, aldilà dell'importante esperienza

    francese e dei timidi tentativi tedesco e inglese, è l'opera italiana quella che nel Seicento si affermacon un linguaggio che potremmo definire sovranazionale. All'inizio del Settecento, dunque, è uno

    solo lo stile che domina in tutta l'Europa occidentale, con la sola esclusione della Francia, uno stileche, con le dovute differenze esistenti fra i vari paesi e i diversi compositori, presentava dappertutto

    certe caratteristiche fondamentali comuni.

    Questo tipo di opera però cominciava a soffrire alla fine del Seicento di una certa arretratezza. In

     particolare dal punto di vista drammaturgico. Infatti l'opera aveva completamente perso quella

    coerenza drammatica e quelle caratteristiche nel segno delle quali era nata a Firenze all'inizio del

    secolo. Infatti le dimensioni si erano enormemente ingrandite, gli intrecci si erano complicati a

    dismisura tanto da rendere quasi impossibile seguirne la traccia; il numero dei personaggi era

    aumentato enormemente e la loro presenza non sempre era funzionale allo svolgimento dell'azione.

    Inoltre era frequente una disinvolta alternanza di scene serie e scene comiche. Tutto questo

    ovviamente pregiudicava la dignità letteraria e drammaturgica di queste opere che, oltretutto

    subivano un confronto umiliante con la parallela, aulica produzione francese. Una riformadell'opera doveva quindi necessariamente partire dalla rigenerazione del libretto.

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    7.2 La riforma di Zeno e Metastasio 

    I primi passi in questa direzione furono compiuti da Silvio Stampiglia (1664-1725), ma i due poeti a

    cui va principalmente associata questa riforma furono Apostolo Zeno (1668-1750) e Pietro

    Metastasio (1698-1782). Fu soprattutto Zeno che, per influenza del teatro francese, si mostrò

    favorevole alla scelta di soggetti storici ma contrario a intrecci non completamente attendibili,

    nonché a interventi soprannaturali, macchine, episodi comici superflui, declamazione enfatica, tutti elementi che erano molto diffusi nel Seicento. Egli comunque, pur non eliminando del tutto le scene

    e i personaggi comici nell'ambito di un'opera seria, le collocò alla fine di ciascun atto, eliminando in

    questo modo l'incoerenza generata dalla continua alternanza fra serio e comico. Questo processo fu

     portato a compimento da Metastasio il cui modello di libretto rimase assolutamente incontrastato

     per tutto il Settecento. 

     Nel 1730 Metastasio divenne Poeta Cesareo alla corte di Vienna, succedendo a Stampiglia e a Zeno

    che avevano occupato quella carica rispettivamente dal 1705 e dal 1718. I suoi 27 drammi per

    musica e le altre composizioni come feste teatrali, serenate, cantate celebrative, furono musicati, nelSettecento, oltre un migliaio di volte. I drammi di Metastasio traggono i soggetti principalmente

    dalla storia classica, greca e romana, prevale nettamente il lieto fine (infatti il finale tragico è

     presente soltanto nella Didone abbandonata, nel Catone in Utica e in Attilio Regolo). Metastasiomostra di adeguarsi alle regole della grande drammaturgia di tradizione, rispettando le unità

    aristoteliche, ricorrendo alla liason de scène per dare il senso della continuità al dramma. La cifra

    specifica del dramma metastasiano potrebbe essere individuata nella creazione di un meccanismo

    drammatico in grado di soddisfare gli ideali razionalistici del tempo, ma anche di contenere gli

    elementi lirici capaci di predisporre un incontro particolarmente organico tra poesia e musica.

    7.3 Struttura del dramma metastasiano Dal punto di vista formale il libretto di Metastasio si divide in tre atti ognuno dei quali suddiviso in

    scene articolate in due parti nettamente distinte nella loro funzione drammaturgica: il recitativo el'aria. Il recitativo era costituito da versi sciolti (principalmente settenari ed endecasillabi); l'aria era

    articolata di solito i