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Gianni Ferracuti Liberalismo, socialismo, nazione

La polemica Ortega - Romanones sulla dittatura di Primo de Rivera

(2013)

www.ilbolerodiravel.org Mediterránea - Centro di Studi Interculturali

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LIBERALISMO, SOCIALISMO, NAZIONE: LA POLEMICA ORTEGA - ROMANONES SULLA DITTATURA DI PRIMO DE RIVERA

Gianni Ferracuti

i

Il 13 settembre 1923 il generale Miguel Primo de Rivera, con un colpo di stato, assume il

governo della Spagna e istituisce un Direttorio Militare; la Costituzione del 1876 viene so-spesa, il Governo civile e il Parlamento sono dissolti e la stampa è sottoposta a censura. Il colpo di stato mette fine alla situazione disastrosa del paese, retto da un Governo e istitu-zioni totalmente prive di prestigio, con una democrazia solo apparente, elezioni manipola-te, situazione economica fuori controllo e, in politica estera, una catastrofica conduzione della guerra con il Marocco. Ne consegue che l'intervento dei militari, visto come opera-zione chirurgica, con scarse analogie con le coeve esperienze del fascismo italiano, gode di un ampio consenso sociale: oltre al favore di alcuni settori abbienti della popolazione, può

i Gianni Ferracuti, «Liberalismo, socialismo, nazione, realismo politico: la polemica Ortega-

Romanones», in Rivista di Politica, n. 2, 2013, pp. 33-61

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giovarsi anche di un sostanziale atteggiamento di attesa da parte dei socialisti, interessati all'eliminazione del caciquismo,

ii promessa dal generale. La dittatura di Primo de Rivera non ha il carattere sanguinario e ferocemente repressi-

vo di altre esperienze europee; nel dicembre del 1925 il Direttorio Militare viene sostituito da un Direttorio Civile (in cui i militari conservano comunque una presenza determinan-te), che tollera l'azione politica del sindacato (UGT) e del partito socialista (PSOE), e che dura circa quattro anni, fino alle dimissioni del generale, avvenute nel gennaio 1930. Segue un anno intermedio, con la cosiddetta dictablanda del generale Dámaso Berenguer, e poi dell'ammiraglio Juan Bautista Aznar, che dura fino alla sconfitta elettorale delle forze mo-narchiche e alla proclamazione della Seconda Repubblica spagnola.iii

Nel marzo del 1925, quando è verosimile immaginare che siano in corso trattative con la Monarchia per l'inserimento nel Direttorio di esponenti civili, il partito liberale propone un progetto di «fronte unico» democratico per il ripristino delle liberà costituzionali sop-presse da Primo de Rivera. In una serie di tre articoli, pubblicati sul quotidiano El Sol tra il 6 e il 12 marzo, con il titolo di Vaguedades,

iv José Ortega y Gasset si schiera decisamente contro tale progetto. Agli articoli di Ortega risponde, con una lettera pubblicata sullo stesso quotidiano il 13 marzo, il conte di Romanones. Álvaro de Figueroa y Torres, conte di Romanones, era un importante esponente del partito liberale, politico professionista, abile nelle manovre di palazzo, ma anche grande affarista; al momento del golpe era presi-dente del Senato. A sua volta, Ortega pubblica, sempre su El Sol, tra il 15 e il 19 dello stesso

ii Con questo termine si intende in Spagna una forma esasperata, e di fatto istituzionalizzata, di clientelismo politico locale, che giunge a controllare efficacemente la vita sociale dei ceti deboli e a gestire l'esito delle elezioni politiche: era possibile decidere, prima delle elezioni, quale partito avrebbe vinto e con quanti deputati. Questo sistema collaborava, diciamo così, sia col partito con-servatore, sia col partito liberale. Ovviamente, era estremamente efficace nella «gestione» dei con-flitti sociali. Cfr. Pierre Vilar, Storia della Spagna, tr. it. di E. Rivoire, Garzanti, Milano 1977, 60-98, per una sintesi della vicenda politica spagnola dalla Prima Repubblica alla guerra civile. Cfr. inoltre Gabriele Ranzato, La difficile modernità e altri saggi sulla storia della Spagna contemporanea, Ed. Dell'Orso / Istituto di Studi Storici G. Salvemini, Alessandria 1997 (in partic. il capitolo: «La diffi-cile modernità: la Spagna “liberaldemocratica”, 1875-1923», pp. 13-124). Ortega fornisce una detta-gliata interpretazione del processo storico che conduce alla dittatura di Primo de Rivera, con dense pagine dedicate al caciquismo, in «La redención de las provincias y la decencia nacional», in Obras

completas, Taurus, Madrid 2005, vol. IV, pp. 671-774. iii Sulla crisi del sistema spagnolo e sulla dittatura di Primo de Rivera cfr. Javier Tusell, Historia

de España en el siglo XX, Taurus, Madrid 1998, in part. i capp. «La crisis del parlamentarismo liberal (1914-1923)» e «La dictatura de Primo de Rivera y el fin de la monarquía», rispettivamente alle pp. 95-156 e 157-205.

iv José Ortega y Gasset, «Vaguedades», in Obras completas, (Taurus), cit., vol. III, pp. 788-94.

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mese, la replica, in forma di lettera aperta al conte.v

Nella sostanza, Ortega obietta che restaurare il Parlamento e le istituzioni precedenti il golpe, come se niente fosse accaduto, equivale a riportare in auge proprio ciò che aveva causato il disastro politico e, di conseguenza, il golpe stesso. Ma, come gli è abituale, la po-lemica contingente diventa il punto di partenza per riflessioni più profonde e di portata più generale. In primo luogo, la critica al carattere astratto del liberalismo come regime po-litico.

La critica al liberalismo

Che il liberalismo sia una colonna portante della tradizione europea, Ortega l'ha sem-pre riconosciuto: il «perenne liberalismo europeo», dice nella Rebelión de las masas;

vi ma, nello stesso tempo, ha sempre affermato l'esigenza di un liberalismo nuovo, depurato dagli er-rori delle filosofie ottocentesche. In La reforma liberal (1908), scrive:

I partiti liberali hanno oggi in Europa la figura più triste che si possa immaginare. Sono giunti

nel momento giusto per conquistare alcune virtù pubbliche, alcuni diritti sacri; nell'essenziale

hanno conseguito il loro intento, compiuto la loro vita eroica, e oggi, perduta la gioventù, si

v id., «Entreacto polémico», ibid., pp. 795-806. vi id., «La rebelión de las masas», in Obras completas, Madrid, Revista de Occidente, 1966, vol. IV,

pp. 111-310, p. 128. Sul pensiero di Ortega, in generale, cfr. i miei: José Ortega y Gasset, Esperienza reli-

giosa e crisi della modernità, Il Cerchio, Rimini 1992. Seconda edizione digitale Mediterránea, Centro di Studi Interculturali, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste 2013; L'invenzione

del Novecento: le Meditazioni sul Chisciotte di Ortega y Gasset, Mediterránea - Centro di Studi Inter-culturali, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste 2013 <www.ilbolerodiravel.org/index.php/prodotto/gianni-ferracuti-linvenzione-del-novecento-intorno-alle-

meditazioni-sul-chisciotte-di-ortega-y-gasset>; In vino veritas: Dioniso, la ragione storica e la fine della filo-

sofia in Ortega, Mediterránea - Centro di Studi Interculturali, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste 2007 <www.ilbolerodiravel.org/index.php/prodotto/gianni-ferracuti-in-vino-veritas-dionisismo-crisi-delloccidente-e-morte-della-filosofia-in-ortega-y-gasset/>. Sul suo pensiero politico, cfr. i miei saggi raccolti in Difesa del nichilismo: ventura e sventura dell’uomo-massa

nella società contemporanea, Mediterránea - Centro di Studi Interculturali, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste 2015, <www.ilbolerodiravel.org/index.php/prodotto/gianni-ferracuti-

difesa-del-nichilismo-ventura-e-sventura-delluomo-massa-nella-societa-contemporanea/> e Traversando i

deserti d'occidente: Ortega y Gasset e la morte della filosofia, Mediterránea - Centro di Studi Intercul-turali, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste 2012, <www.ilbolerodiravel.org/index.php/prodotto/traversando-i-deserti-doccidente-ortega-y-gasset-e-la-morte-

della-filosofia>.

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ostinano a continuare con lo stesso atteggiamento. Ma sono giunti momenti nuovi che, nei loro

otri da pellegrini, portano per loro la vecchiaia, e per altri la giovinezza, con il fresco motto di

una politica futura. La discrezione avrebbe consigliato loro una ritirata o un cambiamento.vii

Il giovane Ortega ritiene che il liberalismo, nella sua dimensione essenziale e perenne,

sia un processo di continuo miglioramento della società, e non accetta che esso si riduca a una semplice gestione dell'esistente, con un marcato segno conservatore. Tuttavia la sua crisi, e più in generale quella dell'intera classe politica, derivano da una crisi ancor più profonda, che investe dalle fondamenta la società.viii Una vita sociale debole e malaticcia non è in grado di fornire al liberalismo la continua energia necessaria ad alimentare il suo spirito rivoluzionario; i vecchi liberali si adagiano sugli allori dei diritti conquistati, e adot-tano un atteggiamento conservatore. Ma, scrive Ortega, «i partiti liberali sono partiti dirim-

pettai della Rivoluzione, o non sono nulla».ix E aggiunge:

Chiamo liberalismo quel pensiero politico che antepone la realizzazione dell'ideale morale al-

le esigenze utili a una parte dell'umanità, sia essa una casta, una classe o una nazione. La di-

rezione conservatrice, invece, si disinteressa di esigenze ideali, nega il loro valore etico e, su

questo punto, si attiene a ciò che si è già realizzato, se pure non istiga a regredire a forme su-

perate di costituzione politica.

Il liberalismo crede che nessun regime sociale sia definitivamente giusto: la norma o idea di

giustizia implica sempre un al di là, un diritto umano ancora non riconosciuto e che, pertanto,

oltrepassa, supera la costituzione scritta. La transizione tra le due costituzioni non è contenu-

ta in nessuna di esse: il diritto a trasformare le costituzioni è sovracostituzionale; non è un di-

ritto scritto, è una di quelle leggi non scritte, ágrafoi nómoi, sottese a ogni codice.x

Il liberalismo spagnolo è, secondo Ortega, addormentato da quarant'anni (il che ri-

manda precisamente al 1868, cioè alla rivoluzione liberale e alla proclamazione della Prima Repubblica). In questi quattro decenni, il liberalismo si è smarrito, ha combattuto batta-glie marginali, fino a chiudersi su posizioni di retroguardia, modellandosi sul partito con-

vii José Ortega y Gasset, «La reforma liberal», in Obras completas, (Taurus), 2004, vol. I, pp. 140-6,

p. 142. viii Questo rende impossibile, per Ortega, sostituire la classe politica attraverso un normale ri-

cambio elettorale, o mandando al potere dei tecnici: «Non si risolverà il caso lanciando sui politici di

mestiere ogni sorta di improperio, come se accanto al Parlamento esistesse un'altra Spagna sana, energica e

intelligente. Tale Spagna non esiste; se esistesse, si occuperebbe di politica, farebbe udire in molti casi le sue

grida, e farebbe persino sentire, al momento giusto, la robustezza dei suoi muscoli» (ibid., pp. 140-1). ix ibid., p. 142. x ibid., p. 143.

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servatore:

La direzione conservatrice, che non è un'idea - sublime nome!-, ma l'esatto contrario, un istin-

to, ha fatto attenzione, molto astutamente, a non svegliare nel liberalismo questa strana, ad-

dormentata morale, ed è forse riuscito a convincerlo che la sua essenza è il laissez faire, lais-sez passer. Dai conservatori ha avuto origine questa sentenza pericolosa secondo cui il libera-

lismo non sarebbe altro che l'esercizio della libertà.xi

Il venticinquenne Ortega della Reforma liberal rompe questa identificazione «liberali-

smo = esercizio della libertà», e quasi vent'anni dopo ripropone la sua critica al progetto di fronte unico costituzionale di Romanones. Per come lo intende Ortega, il vero liberali-smo, quello che è un motore rivoluzionario delle trasformazioni sociali, deve intendere la libertà in senso attivo, come ricerca continua di nuovi diritti, e parla piuttosto di libertà al

plurale, libertades, indicando diritti concreti e non una generica astrazione. In questo sen-so, il vero liberale segue l'evoluzione della società, si fa carico delle legittime esigenze di libertà nuove e della rivendicazione di diritti concreti di fronte alle nuove situazioni socia-li. In particolare, con la nascita delle fabbriche, l'avvento del proletariato come nuovo soggetto sociale, e la discussione sulla giustizia sociale nel quadro nuovo della lotta tra ca-pitale e lavoro, la frontiera della rivoluzione liberale deve spostarsi in avanti, facendo pro-prie le rivendicazioni del socialismo:

Nel liberalismo non è possibile equivoco. Il senso segnato dalla sua tradizione e dalla sua ori-

gine è indubbio e preciso: dovunque sia proclamato un diritto nuovo dell'uomo, esso deve esse-

re presente, anche se gli oscurantisti, che sono legione, pretendono di gettare le tenebre su ciò

che è chiaro e splendente. Quale affermazione di diritto nuovo e originale emerge sulla parca

storia contemporanea? L'idea socialista. Dunque non è possibile altro liberalismo che il libe-

ralismo socialista.xii

xi ibid., p. 144. xii ibid., p. 145. «Di fronte agli equivoci poco eleganti dei partiti attuali appare l'emergere magnifico

dell'idea socialista. La sua realizzazione è il nuovo comandamento, l'imperativo morale che incombe

sull'uomo moderno. E, se non vuole sfumare in una vaga dottrina della tolleranza, il liberalismo deve deci-

dersi a togliere la politica dall'ambito del meramente utilitario e dirigere la sua prua verso l'Atlantide dei

doveri morali, delle virtù sociali. Non credo che esista una missione più perfetta e gloriosa sulla terra» (ibid., p. 146). Sempre nel 1908 attacca il formalismo dei partiti liberali, e più in particolare la versione manchesteriana del liberalismo, riprendendo con entusiasmo un intervento in tal senso di Miguel de Unamuno: afferma infatti «la necessità di raccogliere i vigori del liberalismo fuori dall'alveo del partito

liberale attuale, in altri partiti nuovi, radunandoci attorno alla nuova idea di libertà, senza capi né aspira-

zioni ministeriali. Questo nuovo partito di estrema sinistra romperebbe lo scolasticismo parlamentare, orga-

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L'idea di nazione

La critica al vecchio liberalismo, e la necessità di conservarne lo spirito «perenne» lan-

ciandolo verso nuove battaglie politiche (il socialismo), vanno di pari passo con l'atten-zione, sempre più marcata, verso l'idea di nazione. Come la interpreta Ortega, l'idea di na-zione non ha alcun legame con forme di nazionalismo (basti pensare che, parafrasando una vecchia formula liberale, contrappone più volte la nazione allo stato). Nazione è il di-namismo sociale precedente lo stato, e in fondo da esso svincolato: è la libera azione degli individui consapevoli della propria tradizione culturale. È la nazione che, nel corso della storia, si dota di strutture statali; dunque, lo stato è uno strumento al suo servizio, e in nes-sun modo si può rovesciare la gerarchia, ponendo la nazione, la società, al servizio dello stato.

Il collegamento tra la crisi del liberalismo e l'idea di nazione è insito nei termini in cui si pone la crisi stessa: come si è detto, per Ortega questa si manifesta nella sfera politica, ma nasce nelle profondità della sfera sociale, coinvolge la cultura del paese e si amplia pro-gressivamente per l'assenza di efficienti strutture formative. La Spagna, dice drasticamen-te Ortega nel 1909, non esiste come nazione, perché «i peccati della Spagna non sono altro che i

peccati degli spagnoli. E gli spagnoli non sono quelli della provincia accanto né quelli della casa

vicino: lo spagnolo più a portata di mano è per ciascuno se stesso».xiii Poiché l'origine del male è

nizzerebbe il popolo e plasmerebbe vigorosamente il blocco progressista: dovrebbe essere un partito frusta e i

blocchi [politici] non si formano estraendo la media proporzionale dei programmi, come pretende il signor

Álvarez, ma con pure frustate» (id., «Glosas a un discurso», in Obras completas (Taurus), cit., vol. I, pp. 217-20, p. 218) (allude, probabilmente, a Melquíades Álvarez González-Posada, fondatore nel 1912 del Partido Reformista, di ispirazione repubblicana, ma disposto a governare con la monarchia. Nel 1923 era presidente del Congreso de los Diputados e spingeva per il ritorno a un governo civile. Par-tecipa a diverse congiure contro Primo de Rivera. Viene fucilato dalle forze repubblicane nel 1936).

xiii id., «Los problemas nacionales y la juventud», in Obras completas (Taurus), cit., vol. VII, pp. 121-9, p. 122. Si noti che questa denuncia della mancanza di vigore nazionale nell'articolo non serve per criticare una debolezza dello stato, ma un suo atto di forza illegittimo: la repressione dei moti catalani del 1909: «Nessuno si sarà sorpreso che, col pretesto di restaurare la tranquillità nella fisiologia di

Barcellona alcune migliaia di cittadini sono state incarcerate; dozzine di loro, su cui non pesano neanche

quei sospetti o indizi di colpevolezza che permetterebbero di iniziare un processo, sono stati deportati e confi-

nati in paesi dove non hanno potuto trovare alloggio né mezzi per vivere; è stato provocato l'espatrio di molte

migliaia; si sono chiuse più di cento scuole e si stimolano tutti i bassi istinti delle classi elevate; si sospendono

per un tempo lunghissimo quei diritti che dànno alla vita moderna la sua dignità; le decisioni della giustizia

sono affidate al giudizio di Dio dei tribunali militari; si minaccia la stampa e la si tratta con atteggiamenti e

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nella società, i difetti di questa si ritrovano in entrambi i grandi partiti che si contendono il governo della nazione; da qui la percezione di uno stallo, perché il cambio del governo risulta inutile, se non si mette mano alle cause originarie della crisi:

Siamo governati da una comunità governante della cui totalità ignoriamo quali pensieri ab-

bia, e da un governo senza idee politiche, senza coscienza politica. In quanto ai ministri presi

individualmente, ci risulta che alcuni di loro non pensano né hanno mai pensato nulla. [...] Ci

reggono ora, signori, e probabilmente ci reggeranno quando cambierà il governo, persone con

le quali, anche volendolo, non possiamo esercitare quella virtù del rispetto, che costruisce le

città, la virtù socializzatrice per eccellenza. Platone pretendeva che governassero i filosofi: non

chiediamo tanto, riduciamo al minimo il nostro desiderio, chiediamo che non ci governino de-

gli analfabeti.xiv

Dal liberalismo al socialismo

Se è chiaro il legame tra crisi del liberalismo e idea di nazione, altrettanto lo è quello tra

idea di nazione e socialismo. Il socialismo spagnolo ha, per Ortega, due enormi pregi, che pesano molto di più dei difetti che si porta dietro come ideologia ottocentesca: in primo luogo, nasce spontaneamente dal dinamismo sociale, non è stato introdotto dall'alto, da qualche intellettuale o politico di professione. In secondo luogo, nell'abulico e infermo corpo sociale spagnolo è un anticorpo attivo, che si muove nella giusta direzione di una riforma economica e morale: per Ortega, è oggettivamente una forza di ricostruzione na-zionale. Per ragioni sostanzialmente identiche, questo ruolo verrà riconosciuto anche alle istanze autonomiste e federaliste, presenti ovunque nella società del tempo.

Numerose sono le occasioni in cui Ortega sottolinea positivamente la caratteristica del socialismo spagnolo come movimento nato dal basso:

frasi da re di taverna, come se la stampa fosse solo un'azienda e non fosse anche un diritto dei cittadini; e

soprattutto che si approfitti di questa violenza giuridica per iniettare nel popolo spagnolo le menzogne uffi-

ciali» (ibid., p. 123). Si comprende, dunque, che rinvigorire la società e far rinascere la nazione sono cose che non hanno nulla a che vedere con una politica di atti di forza. Al contrario, proprio una nazione debole e malata sostituisce la forza alla legalità.

xiv ibid., p. 126. «Il partito che salirà al potere sarà l'ombra cinese di questo che ora se ne va. Non sono

ugualmente responsabili di ciò che è accaduto tutti i partiti che oggi sono rappresentati nella Camera?

Hanno rispettato i capi liberali e repubblicani tutti i doveri più elementari di guardie giurate del tesoro libe-

rale?» (ibid., p. 127).

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Il socialismo ha fatto presa nella mente degli operai prima che in quella di qualche professore

di Economia e non si è ancora dato il caso che si dichiarasse socialista - non dico di entrare nel

partito - qualche politico, pensatore o letterato di valore. Il socialismo che c'è oggi in Spagna è,

dunque, intellettualmente e materialmente opera esclusiva degli operai [...]. Proletaria è l'or-

ganizzazione e proletarie sono le idee.xv

E aggiunge: «Non credo che si abbia diritto ad accusare di mancanza di intelligenza un grup-

po di operai in una terra come la nostra, dove persino nei chiostri delle università si incontrano

analfabeti».xvi Il carattere popolare del socialismo spagnolo è, d'altronde, la riprova della mancanza nel paese di minoranze intellettuali capaci di formare una solida opinione pub-blica, e i socialisti, che si costruiscono da sé, con tutti i loro limiti culturali, sono la parte sana della nazione, che si organizza contro la parte marcia. Par di capire che dare cultura ai socialisti è ritenuta un'impresa possibile; dare onestà e senso della nazione ai vecchi poli-tici, è fuori dalla portata dell'impegno umano.

Bisogna, comunque, ricordare che, di fronte ad ogni fenomeno storico, Ortega è sem-pre bene attento a distinguere tra due aspetti: ciò che esso è, e ciò che può diventare nella direzione del miglioramento e del perfezionamento. Così, riconosciuti i meriti del sociali-smo - di ciò che esso è-, bisogna ammettere anche che esso è insufficiente e ben al di sotto di quello che può diventare. Il socialismo è, per Ortega, un progetto prima ancora che una realtà. Ciò dipende sia dal fatto contingente che i socialisti spagnoli, all'inizio del Nove-cento, sono una minoranza, il cui peso politico è molto ridotto, sia dal fatto che l'adesione di Ortega al socialismo è propositivamente critica, e non limitata all'accettazione di un programma già confezionato. Scrive nel 1908 in Nuevas glosas: «Per una mirabile contingen-

za, lo stato morale della Spagna obbliga il socialismo - non quello di oggi, bensì quello futuro - ad

ergersi a difensore della cultura».xvii

xv id., «El recato socialista», in Obras completas (Taurus), vol. I, pp. 214-6, p. 215 (articolo del 1908).

Ortega si spinge a sostenere che i socialisti non debbono cercare l'appoggio degli intellettuali: «A mio

modo di vedere, i socialisti debbono cercare solo i socialisti. Esistono in Spagna intellettuali che si dichiarano

socialisti? Io non li conosco: neppure il partito operaio li conosce. Ci sono tra noi persone che meritano pie-

namente il nome di intellettuali e sono abbastanza numerose da costituire un gruppo definito di spagnoli?

[...] Può qualcuno credere seriamente che il partito operaio guadagnerebbe qualcosa avendo tra le sue fila

questi “intellettuali”?». (ibid., p. 215) xvi ibidem. xvii id., «Nuevas glosas», in Obras completas (Taurus), cit., vol. I, pp. 227-31, p. 228. Si tratta di un

altro articolo di commento a una conferenza di Unamuno, dalla quale cita, con approvazione, ampi stralci; ad esempio: «Il partito socialista è un partito culturale. Il miglioramento della condizione economi-

ca dell'operaio e persino la scomparsa della proprietà privata dei mezzi di produzione non è un fine, ma un

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Il progetto del socialismo futuro, che inizialmente appare descritto nei termini di una

generica ricostruzione intellettuale e morale della Spagna, si chiarisce soprattutto nella decade successiva, quando gli elementi che stiamo analizzando si fondono in una visione fortemente unitaria e innovativa. Sul finire della prima decade del Novecento, Ortega ve-de con chiarezza che il socialismo è in Spagna l'unica forza viva, ed estranea al marciume politico-morale, e tuttavia quel socialismo, guidato dalla straordinaria figura di Pablo Igle-sias, rappresenta un passo avanti, ma non è la soluzione dei mali. Così scrive nel 1912, in Miscelánea Socialista:

Non è casuale né insignificante il fatto che il socialismo spagnolo è giunto alla pienezza della

sua esistenza senza l'intervento degli intellettuali; anzi, questo è un fatto esemplare, che defi-

nisce la nostra nazione. Io non conosco nessun altro paese in cui è accaduto questo; si noti be-

ne: nessun altro paese. La stranezza del caso ci obbliga a un vago sospetto, tanto grave quan-

to vago: al sospetto che tra noi ci saranno dovuti essere pochissimi intellettuali veramente in-

tellettuali. Perché è innegabile che un giorno l'intelletto europeo è stato socialista. Questo

giorno è passato; oggi è tardi: oggi l'intelletto non è più semplicemente socialista. È socialista e

qualche altra cosa in più. Orbene, il partito non può, per ora, accettare chi non riduce la sua

interpretazione storica e politica del mondo al socialismo. Ecco perché noi che siamo anche

socialisti non possiamo appartenere a questo partito.xviii

mezzo. Che si possa arrivare a che ciascuno ottenga il prodotto integro del suo lavoro e a che questo prodotto

venga ripartito in modo equo, è uno strumento per una cultura più intensa e più profonda, perché l'uomo si

addentri maggiormente nei misteri della vita e dell'universo. Il fine non è vivere tutti più comodamente. Po-

tremmo essere tutti ricchi e tutti disgraziati, perché la maggior disgrazia è limitare le nostre aspirazioni a ciò

che i materialisti della storia chiamano passarsela bene. [...] Il socialismo è un movimento culturale, ed è

piuttosto un metodo che una dottrina. Non è un partito di dogmi, ma di tendenze, di proponimenti. Non può

esservi ortodossia, né eterodossia, né scomuniche. Ma disciplina sì, perché senza disciplina non ci sono meto-

di. [...] Il socialismo è un metodo per il graduale miglioramento delle condizioni del lavoro umano, tendente a

mettere l'uomo nelle condizioni di andare sempre più in profondità nella cultura, nella conoscenza della vita

e dell'universo» (ibid., pp. 228-9). Cfr. ancora, da La ciencia y la religión como problemas políticos, del 1909: «Socialismo non è per me un

vocabolo appreso, come lo sono i termini scientifici: non è qualcosa di esterno a me, che io possa mettere o

togliere dal mio spirito. Per me socialismo è la parola nuova, la parola di comunione e di comunità, la parola

eucaristica che simboleggia tutte le virtù nuovissime e feconde, tutte le affermazioni e tutte le costruzioni. Per

me, socialismo e umanità sono sinonimi [...]. Per me socialismo è cultura. E cultura è coltivazione, costruzio-

ne. E coltivazione, costruzione, sono pace. Il socialismo è il costruttore della grande pace sulla terra. Come

potrei non lavorare affinché il socialismo cessi di significare principalmente inimicizia, negazione, lotta? No,

no: noi socialisti non siamo solo nemici dei nostri nemici, non siamo un principio di inimicizia» («op. cit.», in Obras completas (Taurus), cit., vol. VII, pp. 130-7, pp. 130-1.

xviii id., «Miscelánea socialista», in Obras completas (Taurus), cit., vol. I, pp. 564-70, p. 564. Pablo Iglesias Posse è stato il fondatore del PSOE (1879) e del sindacato UGT. Non aveva fatto studi rego-

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L'anno successivo, con un famoso articolo-manifesto intitolato Socialismo y aristocracia,

Ortega presenta il punto di arrivo della sua interpretazione del socialismo. Vede nel socia-lismo una realtà sociale complessa e stratificata: la superficie, la parte più visibile, è rap-presentata dal Partito Socialista come organizzazione politica militante; questa poggia sul piano meno visibile, ma fondamentale, del socialismo come teoria socialista e progetto di miglioramento dell'umanità:

A mio parere, conviene non confondere questi due ordini di Socialismo, sotto pena di rinun-

ciare al valore incalcolabile racchiuso nel Socialismo nella sua interezza. Il Partito Socialista

è lo strumento del Socialismo, ed è costituito da non poche affermazioni, che forse gli sono ne-

cessarie, ma che sono superflue nel Socialismo come progetto di soluzione dei mali attuali del-

la società. Così il Partito Socialista mette in primo piano nella sua ideologia la lotta di classe,

che il Socialismo, cioè l'organizzazione socialista della comunità, comincia con l'escludere.xix

Credo che il senso sia chiaro: il Partito si muove nel contingente e affronta i problemi

che trova, anche con realismo tattico, ma questa azione non esaurisce il socialismo; più ancora: non si identifica con il socialismo, ma è un possibile cammino per arrivare alla sua realizzazione.

Poi c'è una terza dimensione nel socialismo: come il partito è un mezzo per arrivare all'organizzazione socialista del mondo, questa, a sua volta, è un mezzo per un risultato forse non previsto dai proletari contemporanei; lo si può esprimere solo con un apparente paradosso: il socialismo ha il compito di ricostruire l'aristocrazia, dopo che il capitalismo l'ha distrutta. Come dice Ortega: «Io sono socialista per amore dell'aristocrazia.xx Ora occorre rendere comprensibile il paradosso.

Naturalmente, non si tratta di creare una classe sociale, e neppure un governo o un ce-

lari, ma aveva lavorato fin da giovane come tipografo, vivendo in una condizione di dignitosa po-vertà. Aveva acquisito, da adulto, una robusta formazione da autodidatta e aveva contatti epistolari con Engels. Fu il primo deputato della storia socialista spagnola (l'unico eletto nel 1910, dopo che era stato incarcerato per aver proclamato lo sciopero generale a seguito delle repressioni durante la semana trágica di Barcellona, a cui faceva riferimento la citazione di Ortega riportata sopra). Si dice che alla sua morte, il 9 dicembre 1925, partecipassero ai funerali 150.000 persone. Ortega lo cita più volte con ammirazione e, in occasione della sua elezione, gli dedica un articolo, pubblicato su El

Imparcial del 13 maggio 1910 («Pablo Iglesias», in Obras completas (Taurus), cit., vol. I, pp. 345-7. xix id., «Socialismo y aristocracia», in Obras completas (Taurus), cit., vol. I, pp. 621-3, p. 621. xx ibid., p. 622.

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to politico, definibili come aristocratici.xxi Si tratta, invece, di superare la frattura della so-cietà in classi contrapposte, prodotta dal capitalismo: la società organizzata secondo i prin-cipi del socialismo non avrà la stessa frattura in classi economiche della società attuale; più ancora: in una società socialista non saranno vigenti i valori capitalisti del profitto e della supremazia del denaro; al loro posto subentreranno altri valori più culturali e spirituali, che renderanno la vita migliore. Questo darà al socialismo una dimensione aristocratica:

Aristocrazia vuol dire stato sociale in cui influiscono decisivamente i migliori. Non si intenda,

intanto, governo dei migliori, perché questo sarebbe un modo limitato di vedere la questione. A

me non importa che non governino, cioè che non dispongano di mezzi violenti per imporsi. Ciò

che mi importa è che, governando o no, le opinioni più adeguate, più nobili, più giuste, più bel-

le, prendano il sopravvento che gli compete nei cuori degli uomini. A questo scopo è necessario

che vi siano tali opinioni, e perché vi siano, non esiste altro mezzo che suscitare, rendere possi-

bili uomini sapienti, giusti e dai sentimenti delicati. L'Umanità non può vivere senza aristo-

cratici, senza forti uomini ottimi. Se potesse vivere senza di essi, il Socialismo non avrebbe sen-

so. Perché la cosa grande, profonda del Socialismo, la sua missione storica, ciò a cui tende con

l'irresistibile energia di una potenza cosmica, è la produzione di aristocrazie vere - e se è nato

nella nostra epoca, lo si deve al fatto che in essa è diventata più impossibile che mai l'esistenza

delle aristocrazie.

xxi Qualche hanno più tardi, nel 1921, Ortega formula in modo compiuto la sua teoria del rappor-

to tra masse e minoranze in España invertebrada. In quest'opera viene chiarito in modo inequivoca-bile che la minoranza non è una classe, non è un soggetto sociale individuabile (la stessa visione torna in La rebelión de las masas), ma è il comportamento migliore in una circostanza data; tuttavia, questa visione dinamica dell'élite è presente già nella riflessione di Ortega negli Anni Dieci. Cfr. da España invertebrada: «Quando diversi uomini si trovano insieme, accade che uno di essi faccia un gesto più

elegante, più espressivo, più preciso di quelli abituali, oppure pronunci una parola più bella, più ricca di si-

gnificato, oppure esprima un pensiero più acuto, più luminoso, o manifesti un tipo di reazione sentimentale

di fronte a un caso della vita che sembra più indovinata, più vigorosa, più elegante o più giusta. Se i presenti

hanno un temperamento normale, automaticamente sentiranno che nel loro animo nasce il desiderio di fare

quel gesto, di pronunciare quella parola, di vibrare nella stessa emozione. Tuttavia non si tratta di un mo-

vimento di imitazione. Quando imitiamo un'altra persona, ci rendiamo conto che non siamo come lei, ma

stiamo fingendo di esserlo. Il fenomeno a cui io mi riferisco è molto diverso da questo mimetismo. Nel trovarci

con un altro uomo che è migliore, o che fa qualcosa meglio di noi, se godiamo di una sensibilità normale, de-

sidereremo essere veramente, e non fittiziamente, come lui e fare le cose come le fa lui. Nell'imitazione ope-

riamo, per così dire, fuori dalla nostra autentica personalità, ci creiamo una maschera esteriore. Al contra-

rio, nell'assimilazione all'uomo esemplare che ci passa davanti, tutta la nostra persona si polarizza e si

orienta verso il suo modo di essere, ci disponiamo a riformare veramente la nostra essenza. Insomma, perce-

piamo l'esemplarità di quell'uomo come tale, e sentiamo docilità verso il suo esempio» («España inverte-brad», in Obras completas, [Revista de Occidente], cit., vol. III, pp. 35-128, p. 103). Le minoranze non sono una classe, ma una sorta di lievito della società.

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Il Socialismo combatte la forma attuale di società, che chiama capitalismo. Il Socialismo non

vuole far altro che superare, vincere, annientare il capitalismo. Ebbene, il capitalismo si può

definire come lo stato sociale in cui le aristocrazie sono impossibili.xxii

L'impossibilità di avere un'autentica aristocrazia nel mondo odierno è dovuta al fatto

che il vertice della classe dominante, i capitalisti, non ha il potere grazie alle sue virtù e alle sue intime qualità, come poteva avvenire per i guerrieri o per le aristocrazie di sangue, bensì grazie a «un potere materiale anonimo, quantitativo: il denaro».xxiii Il denaro rende po-tenti, indipendentemente dalla persona che si è e dalle virtù che si possiedono - o che non si possiedono, essendo notoriamente più facile che un cammello passi... ecc. ecc. Oggi il singolo non può dedicarsi al proprio miglioramento morale e culturale, perché «il regime

capitalista lo obbliga a consumare le sue energie nella conquista del denaro, di un tanto per vivere

[...]. L'operaio, come individuo, come qualità, come cuore, sparisce; resta solo una quantità».xxiv Non è possibile alcun cambiamento nel quadro sociale se non si supera la struttura

economica capitalista. Il capitalismo è, per Ortega, l'impero della quantità, e il socialismo ha il compito storico di demolirlo. Liberando l'uomo dalla preoccupazione per il pane quotidiano,

la gente lotterà per... Chissà per cosa?

La storia è sempre invenzione, non può essere anticipata. Possiamo solo dire che ciò per cui gli

uomini lotteranno sarà simile a ciò che in altri tempi fu chiamato fama, gloria, amore, piutto-

sto che a ciò che oggi chiamiamo fortuna.

Torneranno le classi? Chi può dubitarlo? Ma non saranno economiche, gli uomini non si di-

videranno in ricchi e poveri, bensì in migliori o peggiori. L'Arte, la Scienza, la Delicatezza,

l'Energia morale, torneranno ad essere valori sociali.xxv

Si comprende, dunque, la ragione per cui Ortega vede nel socialismo uno degli stru-

menti principali per la ricostruzione della nazione spagnola, che è anzitutto un compito culturale e morale. Non può esistere una vigorosa vita nazionale se non si mette l'indivi-

xxii Socialismo y aristocracia, cit., p. 622. xxiii ibidem. xxiv ibidem. «Le vecchie, venerabili categorie sociali - il sacerdote, il guerriero, il legislatore, il nobile, il

piccolo proprietario che assapora sorso a sorso la vita, l'avventuriero, il sognatore, il galante, ecc. - sono mor-

te stritolate sotto la pressione del capitalismo. Il capitalismo ha creato al loro posto il capitalista e il proleta-

rio; entrambi, come si è visto, sono incapaci di produrre uomini che si occupino di se stessi, che accrescano la

qualità umana, che perfezionino il tipo umano» (ibid., p. 623). xxv ibid., pp. 622-3. Originariamente l'articolo è pubblicato su El Socialista, del 1 maggio 1913.

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duo nelle condizioni di un'effettiva libertà (la sola che permetta la formazione di minoran-ze qualificate), e questo si ottiene in primo luogo liberandolo dalle necessità, dalla dittatu-ra dell'economia, dal ricatto del lavoro. Il capitalismo ha spaccato la società in classi - più ancora: ha creato le classi - e questa divisione va sanata perché si possa ricostruire la coe-sione e la solidarietà del corpo sociale: senza di essa non esiste nazione. Ma, come si dice-va, il socialismo non è l'unica soluzione.

Il senso della nazione

Nazione e patria sono termini che Ortega usa senza alcuna paura di essere confuso con

la retorica conservatrice. D'altra parte, dopo il disastro della guerra di Cuba (1898) le idee di ricostruzione della patria e della nazione erano il cavallo di battaglia delle avanguardie intellettuali del paese (Maeztu, Unamuno, Azorín... in questo periodo si collocano su po-sizioni tra l'anarchico e il socialista). Per Ortega, la rigenerazione nazionale, non potendo contare su una società robusta e articolata, deve partire dall'individuo, dal basso, per così dire, dalla costruzione di vertebre sociali: «La Patria è qualcosa di intimo, che ciascuno di noi si porta dentro, che anima tutti i nostri pensieri, voleri, dolori e sogni; la Patria non è un

cosa oggettiva, che sta fuori di noi: la Patria sta in noi, dovunque andiamo.xxvi Si tratta di farsi

carico della frattura tra la Spagna reale e quella ufficiale, e portare la prima alla vittoria sul-la seconda; la Spagna politica è «vuota, falsa, convenzionale, inorganica», mentre la Spagna reale è compatta, anche se deve poggiare solo su se stessa: «Nella spontaneità della sua nasci-

ta ha una garanzia di virtù e di durata».xxvii La ricostruzione nazionale, dunque, non richiede l'avvento di un «messia politico» che operi dall'alto, imponendosi sul corpo sociale.

C'è un ulteriore elemento che Ortega integra nella sua visione - appare molto presto e acquista via via un peso sempre maggiore, fino a diventare l'elemento dominante: il tema delle autonomie e della struttura federale dello stato. È il tassello che mancava: un tema da sempre dibattuto, ma sul quale la politica conservatrice e quella liberale risultano falli-mentari. Per Ortega occorre riprenderlo, ma in una forma inedita, radicale e, ancora una

xxvi id., «Discurso para los juegos florales de Valladolid», in Obras completas (Taurus), cit., vol.

VII, pp. 71-90, p. 73 (1906). «Se la Patria è in noi, l'unico modo di essere patrioti è esigere da noi stessi il no-

stro miglioramento. In tal modo il patriottismo scaturisce dalla parte più interna delle nostre viscere e dal

grumo più profondo e più personale della nostra coscienza» (ibid., pp. 73-4) xxvii ibid., p. 77. Si vede qui una delle ragioni per cui la nascita spontanea del socialismo in Spa-

gna è, per Ortega, un pregio e non un difetto.

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volta, nata dalla dinamica sociale spontanea.xxviii

La struttura autonomista del corpo sociale è uno dei temi principali di una famosa con-ferenza del 1914, Vieja y nueva política, e della Liga de educación política promossa dal pensa-tore spagnolo. Nella conferenza ribadisce con forza l'attacco alla Spagna ufficiale, «immen-

so scheletro di un organismo evaporato»,xxix con «partiti fantasma, che difendono i fantasmi di

idee e che, appoggiati dalle ombre di alcuni periodici, fanno marciare alcuni Ministeri di allucina-

zione».xxx Vi insiste su uno dei punti forse più difficili da mettere a fuoco nelle idee politi-che di Ortega: per la grande opera di riforma nazionale, la conquista del potere, l'assun-zione del governo sono la cosa meno importante e quasi accessoria. Si tratta però di un'i-dea logica: una società nuova, che abbia riconquistato salute e vigore, produrrà in via na-turale una nuova classe dirigente, mentre non c'è speranza che avvenga il contrario, ad esempio andare al governo e imporre la ricostruzione nazionale per legge. D'altronde que-sta riforma dal basso (per usare un'espressione comoda, benché non del tutto adeguata), fa leva anche sulla robusta difesa delle autonomie locali, che rappresenta un'esigenza spontaneamente espressa dal corpo sociale.xxxi

Una completa teoria delle autonomie sociali, sia riguardo alla struttura federativa, sia riguardo alla differenziazione interna del corpo sociale in base alle professioni e alle fun-zioni di cui la società ha bisogno, si trova nel già citato España invertebrada. Analizzare questo saggio dal contenuto molto ricco, esula dai limiti di questa introduzione, che pren-de in esame (nella misura in cui sono separabili) non gli scritti teorici di Ortega, ma i suoi interventi nelle questioni politiche reali del momento. Sul tema delle autonomie mi sem-bra più opportuno il riferimento a un volume intitolato La redención de las provincias y la

decencia nacional.xxxii Ortega lo pubblica nel 1931, ma contiene una raccolta di articoli di El

Sol, risalenti al 1927-28: sono leggermente posteriori alla polemica con Romanones, ma non presentano idee nuove rispetto al pensiero orteghiano del 1925. In cambio mi pare che forniscano alcune indicazioni precise circa il sottinteso nella posizione di Ortega su quella polemica (non si dimentichi che essa avviene in un periodo in cui vige la censura sulla

xxviii Si veda la critica alle idee in materia di liberali e conservatori in uno scritto del 1012, «Ni le-gislar ni gobernar», in Obras completas (Taurus), cit., vol. I, pp. 559-63.

xxix id., «Vieja y nueva política», in Obras completas, (Revista de Occidente), cit., vol. I, pp. 265-308, p. 272.

xxx ibid., p. 274. xxxi «Lo Stato spagnolo e la società spagnola non sono per noi termini equivalenti, perché è possibile che

entrino in conflitto, e quando entreranno in conflitto è necessario che siamo pronti a servire la società contro

questo Stato» (ibid., pp. 275-6). xxxii «op. cit.», in Obras completas, (Taurus), cit., vol. IV, pp. 671-774.

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stampa) - vale a dire: se non va bene la proposta restauratrice di Romanones, qual è l'al-ternativa per uscire dalla dittatura?

In La redención de las provincias... Ortega attacca con forza il centralismo della politica spagnola, tutta focalizzata sulla capitale (e sul Palazzo). Per Ortega, a partire dalla costitu-zione del 1876, la politica nazionale è stata identificata con Madrid, dimenticando tutto il resto della Spagna: i politici «confondevano la nazione con il suo centro. E il centro [...] è solo

una parte del cerchio; precisamente quella che con maggiore attenzione deve guardare la periferia,

con lo scopo di mantenersi equidistante».xxxiii Si è trattato di una forma di particolarismo, pa-rola che rimanda a España invertebrada, indicando che una parte della nazione si occupa solo di sé, dei propri interessi, e trascura tutto il resto, senza coordinarsi con esso in un'i-dea di bene comune.

Attraverso analisi molto dense, Ortega cerca di mostrare che i principali mali della Spagna, da questa forma di centralismo particolarista, per così dire, al caciquismo, allo svuotamento di significato delle elezioni politiche, non sono nati da abusi, corretti i quali si potrebbero restaurare gli usi legittimi, ossia la Costituzione, ma sono piuttosto la diretta e inevitabile conseguenza della Costituzione, che era sbagliata in sé: «La Costituzione non

era cattiva perché alcuni ne abusavano - questa è la tonteria - ma se ne abusava in forma così gra-

ve perché era cattiva».xxxiv Costruita sul modello francese, prescindeva completamente dalla reale condizione della Spagna; di conseguenza, il paese è entrato in conflitto con la Costi-tuzione (ad esempio, rivendicando autonomia amministrativa), e quindi ha tentato di eli-minarla - eliminazione che viene poi realizzata da Primo de Rivera.

Il discorso autonomista, come si è sviluppato nella prassi politica, ha per Ortega i meriti di essere nato spontaneamente dalla società e di aver contribuito in maniera determinante alla crisi del centralismo e dei vecchi partiti. Tuttavia queste virtù non sono sufficienti. Se esso vuole ambire a costruire quelle vertebre di cui il corpo sociale è privo, è necessario che non cada a sua volta nell'errore particolarista, facendo del localismo, del municipio, il centro e l'orizzonte della propria azione. L'obiettivo è, infatti, quello di creare una nuova vita nazionale: «Come, da una Spagna in cui praticamente c'è solo vita locale = vita non naziona-

le, possiamo fare una Spagna nazionale?».xxxv Il localismo vigente mantiene la Spagna in una

xxxiii ibid., p. 691. xxxiv ibid., p. 696. xxxv ibid., p. 729. «Da una Spagna locale o non nazionale dobbiamo fare una Spagna nazionale. I politi-

ci del 1876-1890 hanno creduto che questo si ottenesse trascurando una parte del problema, negando imma-

ginativamente la vita locale. Io vorrei convincere i miei compatrioti che la soluzione autentica consiste pro-

prio nel forgiare, attraverso il localismo che c'è, un magnifico nazionalismo, che non c'è» (ibid., p. 730).

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condizione di estrema frammentazione. Occorre, dunque, una unità politica che sia affine ai sentimenti dell'uomo di provincia, ma che non si riduca alla portata del suo villag-gio.xxxvi Occorre piuttosto pensare alla riorganizzazione sulla base di grandi regioni omo-genee: «Io immagino che ciascuna grande regione si governa da sé, che è autonoma in tutto ciò che

riguarda la sua vita particolare; più ancora: in tutto ciò che non è strettamente nazionale. L'am-

piezza e la concessione di self-government deve essere estrema, al punto che risulta più breve elen-

care ciò che si trattiene per la nazione che ciò che si affida alla regione».xxxvii

La polemica con Romanones

Sono ormai chiare le ragioni per cui Ortega non poteva essere d'accordo con il proget-

to di restaurare la Costituzione e il Parlamento precedenti il colpo di Stato di Primo de Ri-vera: equivaleva a rimettere in auge la causa stessa che aveva portato al disastro nazionale e al golpe. È chiaro che la dittatura era comunque un fatto inaccettabile, ma, data la tradi-zione dell'intervento militare nella politica interna spagnola, c'era lo spazio per una posi-zione di distacco e di attesa, in vista delle opportunità che si sarebbero aperte al momento della restituzione del potere a un governo civile. In effetti, la fine di questa fase, dopo l'anno di transizione della dictablanda, coincide con la fine della monarchia e vede Ortega nettamente schierato a sostegno della repubblica.

xxxvi Ortega fa un esempio molto semplice per chiarire il suo pensiero: un municipio andaluso ha un serio problema di politica locale relativo alla coltivazione dell'ulivo, che non esiste in altre re-gioni spagnole, men che meno nel centro politico della capitale; tuttavia, l'intera Andalusia è un enorme e continuo uliveto, e non è logico che questo problema locale sia affrontato a livello di mu-nicipio.

xxxvii ibid., p. 747. Mi pare che questo sia il punto di massima vicinanza tra il pensiero di Ortega e la tradizione federalista di Francisco Pi y Margall, che il nostro pensatore non cita quasi mai. In una occasione, in un discorso su Federalismo y autonomismo pronunciato alle Cortes Constituyentes nel settembre del '31 (in Obras completas, Taurus, cit, vol. IV, pp. 831-6) afferma che il federalismo di Pi y Margall è una dottrina che non è stata aggiornata dai tempi in cui il suo autore l'aveva formulata, e che risultava più rispettabile per la qualità dei suoi seguaci che per il rigore delle sue teorie (p. 833). L'elemento differenziatore mi pare che per Pi y Margall le regioni sono nazioni indipendenti, che costruiscono uno stato federale delegando dei poteri; per Ortega, esiste già uno stato centrale e sovrano, che affida irrevocabilmente alle regioni quasi tutti i suoi poteri. Dal momento che esiste, appunto, uno stato spagnolo, la posizione di Ortega sembra la più ovvia, anche se la sostanza prati-ca cambia poco. Pi y Margall aveva elaborato un progetto di costituzione federale durante la Prima Repubblica spagnola, nel 1873; il testo non venne promulgato, e nel 1874 ebbe inizio la restaurazio-ne monarchica, con la successiva promulgazione della Costituzione poi vigente fino a De Rivera.

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Del progetto di fronte unico Ortega rifiuta l'idea che la cosa in assoluto più importante

fosse «la libertà innanzi tutto». Vi vede un'idea astratta di libertà, nella quale si può vir-tualmente fare qualunque cosa, ma all'atto pratico non si specifica alcuno scopo. Per Or-tega, il ritorno alla Costituzione vecchia avrebbe significato dichiarare vigente uno stato teorico di libertà, al quale però avevano corrisposto in passato delle condizioni molto limi-tate per il suo esercizio effettivo. Inoltre, questa libertà teorica, in una condizione sociale caratterizzata da gravi ingiustizie e squilibri sociali, era un po' come proclamare una sorta di «libera volpe in libero pollaio»: una dichiarazione valida per tutti, ma reale per pochi. Perciò alla «libertà innanzi tutto» Ortega contrappone la «libertà con tutto» - vale a dire: con tutto ciò di cui il paese ha bisogno.

In secondo luogo, il fronte unico si motivava anche agitando lo spauracchio di un ipo-tetico fronte repubblicano, e si proclamava apertamente a sostegno della monarchia. Su questo punto Ortega glissa elegantemente (la sua posizione repubblicana era un fatto no-torio) affermando che né la monarchia né la repubblica definiscono in sé una linea politi-ca: prima del problema istituzionale è necessario sapere che cosa si vuole fare, quale politi-ca si vuole attuare, e insomma che cosa si vuole fare della nazione.

La terza obiezione riguarda l'inutilità di restaurare istituzioni totalmente screditate, che hanno prodotto come risultato politico proprio la dittatura.

Ai primi tre articoli, come si diceva, replica la lettera di Romanones, che intanto rim-provera Ortega di attaccare «la libertà» senza aggettivi (anziché parlare, ad esempio, di li-bertà politica). Obietta il conte: la libertà umana, che è più ampia della libertà politica, non è una forma giuridica, ma una condizione essenziale per lo sviluppo delle potenzialità in-dividuali. Romanones nega, poi, di considerare la liberta come fine a se stessa; ma afferma che, quando si è in una situazione di privazione della libertà, inevitabilmente questa di-venta la prima condizione da recuperare. Senza di essa ogni discussione su progetti politici futuri può essere solo un esercizio intellettuale, senz'altra utilità che quella del mero pas-satempo.

Il Conte ritiene, inoltre, che, nell'attualità del momento storico, le forze della reazione siano vincenti proprio perché le forze liberali sono divise e incapaci di fare fronte. Quanto alla domanda su cosa fare della nazione, Romanones risponde in maniera vaga, afferman-do che questo dovranno deciderlo dopo i politici e gli intellettuali del paese, attraverso un confronto e una discussione dei vari progetti, da cui «nascerà, forse, l'ideale della nuova Spa-

gna» - esattamente, credo, il tipo di risposta che poteva solo confermare a Ortega tutte le sue riserve.

La replica di Ortega è una lettera molto strutturata, nella quale rivendica il suo ruolo di

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intellettuale, il suo diritto a occuparsi di politica come intellettuale, e di farlo con prospet-tive e metodi diversi da quelli dei politici (diciamo così: rifiuta un ruolo di intellettuale or-ganico al partito). In secondo luogo, ritiene che la dottrina della libertà richiamata da Ro-manones sia comune anche alla sinistra moderata, ma non ai socialisti. In modo molto in-teressante, per descrivere la concezione concreta della libertà, differenziandosi da quella liberale, Ortega usa il termine al plurale: non libertad, bensì libertades. Per lui, non è in questione la definizione di un principio secondo cui l'uomo è nato libero, ma la definizio-ne costituzionale di istituzioni e libertà concrete, che debbono essere equamente distribui-te e bilanciate. Per esempio: l'uomo è proclamato libero, ma la Costituzione formalizza la libertà d'impresa? e se la formalizza, consente anche la libertà di sciopero? Questo è, per Ortega, il terreno delle libertà concrete, e non la proclamazione di principio, in astratto, non accompagnata da un progetto politico. Queste libertà, che devono entrare in un pro-getto nazionale e in una politica, debbono essere «nazionalizzate», cioè effettivamente ri-spondenti alla realtà del paese (abbiamo visto che, per Ortega, la Costituzione del 1876 non lo era). Se non si elimina «la struttura arcaica della nazione», dice Ortega, la libertà è so-lo una parola vuota e priva di interesse.

La seconda parte della lettera è un'eccellente lezione sul realismo politico, che Ortega non intende in modo passivo, cioè come un accontentarsi della situazione vigente e gestir-la alla meno peggio, limitandosi a fare il possibile: realismo è partire dalle cose stesse per

poterle cambiare. La realtà è modificabile - secondo le sue condizioni, ma va modificata - lungo una linea di progressivo incremento del benessere morale e materiale della nazione. L'alternativa sarebbe il continuo compromesso, o il fallimento dell'utopismo ideologico. In questi anni Ortega cita più volte, come esempio di idealismo sterile, un progetto di Co-stituzione francese del 1790, che cominciava: «Tutti i francesi saranno felici». Si tratta di un esempio eloquente di confusione mentale, tipico di una politica astratta, a cui non ri-conosce più alcuna ragion d'essere.

Infine, nella terza parte, denuncia l'inconsistenza del liberalismo spagnolo, le sue re-sponsabilità nella crisi e la necessità di superare il partito liberale, che rappresentava la si-nistra nello schieramento costituzionale, con una sinistra rinnovata, le cui caratteristiche (socialismo, ricostruzione nazionale, federalismo) abbiamo già descritto: sostanzialmente, all'uscita «da destra» dalla dittatura, proposta da Romanones, contrapponeva un'uscita «da sinistra», secondo il progetto di un completo rinnovamento del paese.xxxviii

xxxviii C'è da dire che Romanones portò avanti la sua politica ostile a Primo de Rivera e, nel 1926,

partecipò a una cospirazione contro di lui, la cosiddetta sanjuanada (dalla data scelta, il 24 giugno), fallita la quale venne condannato al pagamento di una multa di 500.000 pesetas. Fu parte attiva an-

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che nella caduta del dittatore, nel 1930, e resse l'ultimo governo prima della proclamazione della Repubblica, gestendo le trattative per la transizione al nuovo regime. Allo scoppio della guerra civi-le si rifugiò in Francia, per poi rientrare, ritirandosi dalla vita politica.

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JOSÉ ORTEGA Y GASSET DIVAGAZIONIi

I SOPRATTUTTO, CHE NON SI RIFORMI NULLA Risulta ora che la maggiore aspirazione, l'ideale massimo dei buoni spagnoli consiste

nel ripristinare la Costituzione e il Parlamento precedenti il colpo di Stato. Non si dirà che siamo degli ansiosi. Quelle istituzioni erano cadute in tale discredito che i loro demolitori non hanno avuto bisogno di fare alcun gesto eroico per annullarle. Tuttavia, è bastato che si usasse loro violenza perché alcuni temperamenti sentimentali si decidessero a costituire in loro difesa niente meno che un fronte unico. Come si vede, alla suddetta Costituzione càpita come alla Cunegonda del romanzo di Voltaire, che era tanto più bella quanto più era violentata.ii

Noi che non siamo uomini politici, e di conseguenza non ci sentiamo in grado di innal-zare una nostra bandiera, aspettiamo che ne passi qualcuna sotto la quale reclutarci. Ma disgraziatamente tutte quelle che vediamo ondeggiare sono così poco attraenti che non ci decidiamo a seguirle.

Questa che viene agitata ora, proponendoci il ritorno alle delizie predirettoriali,iii diffi-cilmente incendierà i cuori. Sembra quasi uno scherzo che da tutto l'accaduto si tragga la conclusione della necessità di un ritorno a ciò che è stato causa dello sconvolgimento.

Ma il fatto che una simile cosa venga proposta seriamente, deve ispirare gravi preoccu-pazioni. Perché indica che lo spirito pubblico non è minimamente cresciuto, che noi spa-gnoli non ci siamo ancora convinti della sola cosa necessaria, dell'unico punto essenziale per il futuro storico del nostro Paese, vale a dire: che è ineluttabile una riforma profonda della nazione spagnola, e, pertanto, dello Stato. Questo sembra così evidente che, non trovando nel compatriota medio la stessa convinzione, uno si mette le mani nei capelli con il vago sospetto di soffrire una forma di demenza. Perché non c'è termine medio: o uno è demente, o lo sono gli altri.

Capirei molto bene che esistesse un'acerrima discussione su come dovrebbe essere questa riforma profonda dell'organismo nazionale; ma desta meraviglia che non si ricono-sca, che non si senta la sua inevitabilità.

i J. Ortega y Gasset, «Vaguedades», in Obras completas, (Taurus), cit., vol. III, pp. 788-94. ii N.d.T.: Allusione al Candide ou l'Optimisme di Voltaire, pubblicato nel 1759. iii N.d.T.: precedenti il Direttorio di Primo de Rivera.

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Ho sempre creduto che, analizzando fino in fondo i fatti, la causa decisiva della nostra

progressiva sventura sia che lo spagnolo medio - la politica, in fondo, la fa il tipo di citta-dino medio - non ha mai accettato non solo la necessità, ma neppure la possibilità di ri-forme importanti in qualunque ambito. Fino al punto che in Spagna basta pronunciare questo imperativo di alte modifiche, per vedersi collocato dalla gente nella quinta dimen-sione ed essere ritenuto un lunatico. Un progetto o idea di riforma è rifiutato a limine, sen-za dar luogo a controversie sul suo contenuto concreto. Tutto ciò che proporrete sarà giu-dicato a priori inverosimile.

Avrebbe interesse speculativo indagare la ragione sociologica di questa insensibilità verso la riforma, così energicamente rivelato dal nostro popolo. Perché è un fenomeno cu-rioso in sé, oltre a essere penoso per chiunque senta vivamente la sua patria. Lo spagnolo medio passa la vita dicendo che sta molto male, che tutto va male, e tuttavia non accetta che si faccia seriamente il tentativo di nuove posizioni nel corpo nazionale, per vedere se gli va meglio. E questo sotterraneo rifiuto di ogni riforma è comune a destra e sinistra.iv L'uomo di sinistra si spinge fino a tollerare che si modifichino certe parole nei Codici, con le quali si facciano constare nuove e vaghe libertà; ma rifiuterà, come il reazionario, che si tocchi di un sol pelo l'organizzazione reale del corpo spagnolo. Così, ora, la reazione di li-berali e democratici dinanzi al Direttorio si è ridotta a piangere le libertà perdute, o a po-stulare una nuova Costituzione, nuova solo nell'ordine formale giuridico delle libertà; ma costoro non hanno mostrato la minima urgenza nell'ideare e proporre una disarticolazio-ne della vecchia anatomia nazionale, allo scopo di provarne un'altra più efficace.

La ragione sociologica di una così strana ripugnanza verso ogni modifica si trova forse nel fatto che il tono medio - e pertanto decisivo - della Spagna è dato dal petit-bourgeois. Nell'intera nazione regnano, dominano, trionfano la morale, l'ideologia, i nervi del picco-lo borghese. E il piccolo borghese è, per definizione, l'uomo senza curiosità, incapace di affacciarsi fuori dall'orizzonte della sua routine, e che sente timore davanti a ogni cambia-mento, sia quale sia, per la mancanza dell'agilità mentale di rappresentarsi, di fronte a quella vigente, un'altra realtà desiderata.

In Spagna non si avverte l'influsso delle classi che si fanno carico, dovunque, di mobi-litare con la loro feconda inquietudine, con la loro capacità di entusiasmo per il meglio inesistente, l'inerzia della massa petite-bourgeoise. Manca l'aristocrazia. L'aristocratico celti-bero di ambo i sessi è un piccolo borghese che gioca a golf e si assoggetta alla morale angu-sta e anchilosata del commerciante e dell'impiegato. Manca la classe intellettuale - scritto-

iv N.d.T.: nei testi qui pubblicati, per «sinistra» va inteso il partito liberale e i riformisti moderati.

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ri, artisti, medici, ingegneri - che scuota i lombi della razza,v come con un frusta, con la ma-teria elastica delle sue idee. Manca l'operaio che turbi la beatitudine degli inerti, con l'o-stentazione frenetica della sua essenziale tragedia.

Siamo felici. Senza aristocratici di sangue o finanza, senza intellettuali della lira, dell'i-dea o del logaritmo, senza operai con fame e odio. La Spagna è il paradiso della piccola borghesia. E finché sarà così, non si potrà sognare nessuna riforma. E se non c'è riforma, non si potrà sognare una Spagna meno felice, ma un po' migliore.

El Sol, 6 marzo 1925 II FRONTE A FRONTE Un fronte unico?... Già la metafora è arcaica, è un residuo del vocabolario bellico che

dava un'aria così napoleonica alle colonne dei periodici durante la Guerra Tonta.vi Sono ormai passati quasi sette anni dalla firma dell'armistizio. Perché non rinnovare il lessico e le forme?

Un fronte unico? Di chi e per cosa? Di tutti quelli che credono che la cosa più urgente sia tornare, comunque sia, alla legalità e all'esercizio delle libertà. Non si può negare chia-rezza alla definizione e al proposito. È un modo di pensare e di sentire perfettamente cor-retto e inequivocabile.

Ma proprio per questo spinge a una posizione antagonista, non meno chiara, provoca la formazione di un fronte diverso, composto da quanti credono che l'opera politica urgente in Spagna non si può definire «solo e neppure principalmente» attraverso la legalità e la libertà. Quella apparente chiarezza contiene il proposito di intorbidare il fiume per far guadagnare i pescatori.

Il liberalismo spagnolo, che da tanto tempo è stato abbandonato dalla mano di Dio - forse perché il liberalismo è peccato-,vii pagherà ora di nuovo la falsità della sua posizione.

v N.d.T.: conservo l'uso del termine «razza» (raza), avvertendo che in questi anni non ha alcun

connotato razzista (come non lo ha tutt'ora nel castigliano ispano-americano). vi N.d.T.: allude, evidentemente, alla prima guerra mondiale. Posteriormente, l'espressione sa-

rebbe entrata nell'uso per indicare la seconda, in particolare, ironizzando sulla guerra lampo. vii N.d.T.: possibile allusione a un opuscolo scritto da Félix Sardá y Salvany, intitolato El liberali-

smo es pecado (1884), che ebbe grande diffusione popolare. Che il liberalismo fosse peccato era tesi sostenuta dai neocatólicos, cattolici di destra che si distinguevano dal carlismo per la loro accetta-zione della dialettica politica dei regimi liberali. Il sacerdote Félix Sardá y Salvany (1841-1816) fu un

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Gli uomini liberali commettono l'errore di parlare solo di libertà, come i personaggi dei romanzi rozzi che, per far conoscere il loro carattere peculiare, lo ostentano faticosamente in ogni pagina. Io non vedo perché chi è liberale debba essere solo liberale. È come se i ci-nesi, essendo gialli, si occupassero solo di essere gialli e non si dedicassero all'agricoltura. Liberale è una qualifica meramente aggettiva, che presuppone un sostantivo. La politica liberale deve essere per prima cosa una politica, e solo così potrà poi essere liberale.

Si è lasciato che conquistasse la pubblica piazza un'agitazione ipocrita sull'annullamen-to delle libertà, compiuto dal Direttorio. Le libertà non sono più materia patetica su cui tocchi combattere. Da temi che suscitarono dure discordie, sono diventate, come le forme di cortesia, maniere abituali della buona educazione sociale. Se i liberali non ne parlassero tanto, a nessuno, in tempi discreti, verrebbe in mente di discuterle. La stessa cosa accade con la legalità. È troppo evidente che una nazione non può vivere in salute senza di essa, perché si possa elevare al rango di ideale la sua riconquista, quando un caso senza conse-guenze la offusca. Ma c'è dell'altro: se in Spagna non c'è legalità costituita e non ci sono libertà in buon uso, non è perché la «reazione» gode di forze travolgenti, ma semplicemen-te perché i liberali non hanno avuto, negli ultimi trent'anni, una politica nazionale.

Nel giorno e nell'ora in cui un gruppo di uomini moderati definirà un programma di riorganizzazione nazionale, ispirato da un energico senso della nazionalità, le libertà, ormai radicate nelle nostre consuetudini, riappariranno automaticamente.

Ecco, dunque, un'eccellente occasione perché i veri liberali si diano il lusso di non ave-re l'apparenza di esserlo, e abbiano il tempo di preoccuparsi di bisogni più urgenti ed effi-caci. La libertà è una forma, con la qual cosa è già abbastanza. Ma la libertà solitaria è una forma vuota, un bicchiere vuoto. Parlare soltanto di lei è un formalismo tanto inutile e sterile quanto lodare una politica di forza e autorità. E ormai si sta vedendo nella pratica che la forza e l'autoritarismo, senza altro, sono un ulteriore formalismo. Basta forme vuo-te. Non ci servono bicchieri, ma sorgenti.

La libertà innanzi tutto?... Io non la desidero, perché con essa sola non si fa niente. La libertà con tutto: con tutto ciò di cui la Spagna ha urgente necessità, e che può riassumersi nella volontà esaltata, gigante, gioconda, di diventare una nazione fortissima e allegra.

I generali del fronte unico, usando lo stratagemma dei popoli inferiori, che collocano le loro donne davanti alle armi nemiche per demoralizzarle: mettono in risalto dama Libertà con lo scopo di affliggerci. Questo è un inganno. L'altro è pianificare la nuova vita politica partendo da un dilemma mistico, con cui si vuole condizionare tutto il resto: Monarchia o

polemista di orientamento conservatore molto noto all'epoca per i suoi attacchi al liberalismo, alla massoneria, al protestantesimo, secondo una linea di stretta coerenza con il Sillabo.

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Repubblica. Si vuole creare un fronte unico monarchico di fronte al docile spettro di un fronte unico repubblicano.

Io credo che sarebbe la più grave delle ingenuità accettare questa dogmatica demarca-zione di atteggiamenti che ci si vuole imporre. Né Libertà, né Monarchia, né Repubblica possono oggi, in nessun Paese europeo - lasciamo che la Germania si curi la grave ferita al fianco - definire una politica.

Prima di queste tre cose c'è la nazione: l'unica cosa essenziale. Ci sono i problemi e gli interessi nazionali, che la libertà, o la monarchia, o la repubblica possono solo precisare, ma non sostituire.

Pertanto sarebbe opportuno che, di fronte a questo fronte degli inganni, si unissero tutti coloro che ritengono ineluttabile una grande riforma della nazione per la nazione, co-loro che non desiderano tornare al vecchio Parlamento e all'antica Costituzione, bensì aspirano a trarne di nuovi da una conformazione diversa, previamente data al corpo spa-gnolo.

Intanto, diciamo a quelli che organizzano il fronte unico: con Libertà, Parlamento, Mo-narchia o Repubblica che politica faranno lorsignori? che faranno della nazione?

El Sol, 7 marzo 1925 III A NESSUNO GIOVEREBBE IL RITORNO Chiunque direbbe che la domanda di una riforma profonda nelle istituzioni spagnole è

un capriccio esclusivo di alcuni distillatori di quintessenze. Quanto più si mediti sul tema, meno si comprenderà che c'è qualcuno interessato a tornare all'antico. E ciò che più sor-prende è che alcuni uomini della politica tradizionale difendano e raccomandino calda-mente questo ritorno, perché essi sarebbero i primi a subire le disastrose conseguenze dell'operazione.

Se, come pare, ci sono alcune persone disposte a prendere su di sé la responsabilità di questa involuzione, di questo passo indietro, io proporrei di concedere subito loro la gran croce al Merito Militare. Per molte ragioni, ma soprattutto perché un'azione simile rivele-rebbe in loro un eroismo superiore a quello di tutti gli uomini di Plutarco.

Provi ciascuno a rappresentarsi la situazione che questo ritorno al passato intatto pro-vocherebbe. Tutto ciò che è accaduto nell'ultimo anno è solo risultato e manifestazione, su scala maggiore, del fatto basilare che genera, da tempo, tutte le vicende politiche in

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Spagna e in altri paesi affini: il discredito, la mancanza di autorità delle vecchie istituzioni, e soprattutto di quella più caratteristica e fondamentale: il Parlamento. Quanto è soprag-giunto in questi mesi, non ha fatto altro che acutizzare i problemi nazionali e danneggiare, piuttosto che favorire, il resto degli Istituti del Potere pubblico. Oggi più che mai, il Par-lamento dovrebbe ora affrontare da solo tutti i conflitti della vita pubblica. E se già ieri era incapace di portarli a soluzione, si vuole oggi, in circostanze ancora più gravi, tornare a un Parlamento uguale - cioè, peggiore, perché, nel frattempo, ha ricevuto nuove ammaccatu-re e lo hanno attaccato da tutte le parti.

Non è eroismo prestarsi a formare un governo che avrebbe come unico sostegno que-sto Parlamento disonorato e a cui tutti mancano di rispetto? Non c'è ladruncolo cittadino che non si insolentirebbe di fronte a un potere così debole, dietro il quale non ci potrebbe essere nessuno a garanzia, perché in politica l'esercito, se agisce, non può stare in retro-guardia. Non deve sembrare eroico che vi siano uomini tanto incoscienti, o energici, da essere disposti a naufragare in un diluvio universale di insolenze?

Basta solo pensare che dinanzi a questo Governo e a questo Parlamento dovrebbe esse-re presentato il conto di tutto il passato immediato - vale a dire, ciò che oggi è presente-, per prevedere a che passo marcerebbero gli eroi del ritorno.

Sicché, anche riducendo il campo visivo al punto di vista angustissimo di coloro che propongono questa marcia indietro, questa palingenesi, si avverte quanto sarebbe insen-sato tornare ai vecchi usi anziché tentarne altri nuovi.

Non si capisce per quale ragione un Parlamento elaborato con gli stessi meccanismi e con le stesse funzioni dei vecchi dovrebbe risultare diverso in qualcosa. Se si vuole un prodotto nuovo, sembra giocoforza introdurre qualche nuovo fattore. Ma è questo che si cerca di eludere.

In tutti i livelli della Spagna si soffre, da molto tempo, il grave errore di credere che l'u-nica politica sagace consista nel semplificare le questioni pubbliche ed evitare tutto ciò che può dar luogo a conflitti, dissensi, ore critiche e ondeggiamenti della società. In que-sto modo, cocainizzando la vita collettiva, si ottiene transitoriamente una calma apparente che è, in realtà, un'inerzia artificiale. Però questa calma di oggi non fa altro che condensare i conflitti in una data futura, oltre a togliere ogni dinamismo all'ambito pubblico. Non so-no queste minute virtù secondarie - calma, mansuetudine ed economia domestica, fedeltà coniugale-, non sono queste virtù da piccolo borghese le più urgenti in Spagna. Le impre-se esterne e interne che la nostra razza ha di fronte a sé, obbligano a contare su un popolo ad alta tensione, con masse elettrizzate e un sistema nervoso al massimo rendimento.

Si dovrebbe pensare che, a volte, la cosa più discreta da farsi in un Paese è complicare la

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sua esistenza, gettarvi temi che alzino la pressione passionale, mobilitarlo verso riforme che infervorino o almeno diano speranze a una parte dei cittadini. Solo agitando tali cappe - mi si permetta questa sapiente espressione da corrida - si possono compiere i compro-messi internazionali e rientrare nelle legalità infrante.

Ma gli amici del passato invariabile soffrono un'illusione funestissima. Considerato che è stato così facile passare dalla legalità a una situazione anomala di forza, credono che non sarà più difficile reintegrarsi da una situazione di forza a quella di legalità. E tuttavia, tutti sanno che accendere un fuoco è più facile che spegnerlo, o scendere un pendio piut-tosto che salirlo e snudare una spada piuttosto che inguainarla

El Sol, 12 marzo 1925

* * *

ÁLVARO DE FIGUEROA Y TORRES, CONTE DI ROMANONES IL FRONTE UNICOviii

Mio caro amico, ho letto con attenzione i suoi articoli su El Sol sull'attualità politica. In essi non allude

al mio nome, ma non peccherò di sospetti presumendo che si rivolgono a me in non picco-la parte: sono commenti al desiderio di formare un fronte unico di tutte le forze costitu-zionali per la restaurazione della libertà politica, e questa è la proposta che con calore, nato dalla convinzione, sto propagando. Mi ritengo dunque alluso e le scrivo queste righe per discutere con lei sul tema sollevato, giacché mi è molto gradito farlo, ora come in altre oc-casioni, con una persone di grande giudizio come lei.

Ci sono in questi articoli diverse affermazioni con cui sono in disaccordo. La più im-portante è forse questa: «La libertà è una forma». A mio modo di sentire, una cosa simile si potrebbe dire, sia pure con qualche improprietà, della libertà politica, ma non della «liber-tà» senza altri appellativi. La libertà politica, più che una forma, è una negazione, è l'assen-za di ostacoli al pieno esercizio delle attività cittadine. Ma se con tale parola intendiamo l'organizzazione di quelle istituzioni in cui tale attività può essere esercitata in condizioni di uguaglianza, disgraziatamente ipotetica, converrò con lei e dirò che la libertà politica è una forma.

viii Lettera di Romanones: El Sol, 13 marzo 1925, pag. 1.

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Ma la libertà piena, la libertà dell'individuo, che va naturalmente oltre la politica, non è

una forma, è una condizione essenziale del pieno sviluppo delle potenze spirituali e fisiche di un individuo.

Convengo con lei anche che ciò di cui la Spagna ha necessità è «diventare una nazione fortissima e allegra», e che per questo serve la volontà di conseguirlo. Ma le aggiungo che la condizione indispensabile perché questa volontà non si perda, più ancora, perché nasca, è godere di questa libertà integrale, per il cui conseguimento è cammino e strumento la li-bertà politica.

Dico ciò per spiegare come, a mio giudizio, la libertà politica non è un fine; forse pro-prio per considerarla un fine in diversi paesi i partiti liberali si sono debilitati; ma quando non se ne gode - come nel caso della Spagna-, è un principio inevitabile, un portico il cui attraversamento risulta indispensabile per percorrere quelle fasi del cammino che condu-ce verso «la nazione fortissima e allegra» che desideriamo. Se questo portico resta chiuso, intrattenersi ora a esaminare i sentieri che dietro di esso conducano più serenamente al fine desiderato, non sarebbe altro che un mero passatempo, sempre gradevole come eser-cizio intellettuale, ma senza trascendenza nell'ordine speculativo.

Che grande ottimismo il suo, nel credere che «basterebbe che un gruppo di uomini “moderati” definissero un programma di riorganizzazione nazionale, perché le libertà ri-comparissero automaticamente»! Io non considero un gruppo capace di un simile miraco-lo, per quanto moderati possano essere i suoi membri. Credendo di conoscere la realtà, in-tendo che sarebbe necessario molto più di un gruppo. Da qui il mio impegno per il fronte unico, composto da tutti i gruppi liberali coordinati; perché ritengo, e anche in questo dis-sento da lei, che le forze della reazione siano, nel momento presente, disgraziatamente tra-volgenti, e lo sono perché trovano divise e contrapposte tutte le altre che potrebbero con-tendere loro il terreno. Per questo possono essere adottate per il primo Municipio di Spa-gna risoluzioni ben diverse da quelle che, ispirandomi al supremo principio della libertà, ho sostenuto sulla Gaceta essendo ministro della Pubblica Istruzione!ix E ci sono anche spiriti «avanzati» che preferiscono questo a quello.

Io, che credo nell'influenza decisiva dell'opinione come base di ogni Governo e di ogni politica, concordando con il penetrante scrittore Augusto Romier, che nel suo recente li-bro Explication de notre temps

x dice che «l'opinione pubblica obbedisce ai ritmi combinati

ix N.d.T.: Allusione a un «Real orden» pubblicato da Romanones, allora Ministro della Pubblica

Istruzione, l'8 marzo 1910 sulla Gaceta de Madrid con la quale si permetteva per la prima volta l'im-matricolazione delle donne nelle scuole di ogni ordine e grado.

x N.d.T.: In realtà Lucien Romier, Explication de notre temps, Bernard Grasset, Paris 1925. Cfr.

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di tre influenze: quella della scuola, quella della donna e quella della stampa», mi sento profondamente allarmato nel vedere con chiarezza diafana, che per aver cessato di essere la libertà materia patetica su cui tocchi discutere, come lei dice, la scuola stia nelle mani della reazione; la donna dominata da essa; la Stampa sotto un regime speciale, e lorsignori, alta espressione dell'intellettualità spagnola, stiano pensando di opporre, intanto, al fron-te della legalità e della libertà (quello degli «inganni», secondo la sua definizione), un altro fronte: di coloro che non desiderano tornare al vecchio parlamento e all'antica Costitu-zione. Non è certo questo il cammino per vincere la battaglia.

Implicitamente, lei presuppone che il recupero delle forme di libertà sia facile; si spinge anche a dire che «se i liberali non parlassero tanto di esse a nessuno... gli capiterebbe di di-scuterle»; è vero che lei intercala la frase «in tempi discreti», frase di cui mi approprio per farne il fondamento della mia tesi, senza aggiungere commenti, perché in essa è detto tut-to.

E a partire da questo ottimistico giudizio sul futuro della libertà, lei afferma: Queste forme sono poca cosa; l'importante è rispondere a questa domanda: «Che politica faranno lorsignori? che faranno della nazione?». A chi sono rivolte queste domande?

Si rivolgono intanto agli uomini politici. Ma questi non costituiscono una categoria speciale di cittadini. Sono cittadini che hanno intensificato l'azione di questi.xi Ma a tutti allo stesso modo compete il dovere di cittadinanza; e se negli uomini politici c'è una spe-cialità, vocazione per funzioni direttive, ce ne sono anche, e molto qualificate, negli scrit-tori e nei pensatori, nei cattedratici e nei pubblicisti, in quanto assumono la nobile e altis-sima funzione di coltivare e dirigere lo spirito della collettività.

Così, forse, la domanda dovrebbe essere formulata in questo modo: dopo aver recupe-rato la libertà politica, che faremmo della nazione gli uni e gli altri? E a questa domanda dobbiamo rispondere noi, i politici, - ammettiamo provvisoriamente questa classificazione indebita -, ma anche gli intellettuali.

Questa domanda equivale a dire agli uomini politici: qual è il vostro progetto? Doman-da giusta, ma forse da non mescolare con l'opera attuale. Essa, però, ne implica un'altra, rivolta a chi la pone: e qual è il vostro progetto?

Esponga ciascuno il suo, senza rifugiarsi nella più lucida e comoda funzione di critico.

Christine Roussel, Lucien Romier (1885-1944), historien, économiste, journaliste, homme politique, Edi-tions France-Empire, Paris 1979.

xi N.d.T.: non mi è chiarissima la frase. Interpreto: gli uomini politici sono essi stessi cittadini, che hanno intensificato le azioni che caratterizzano la cittadinanza, sforzandosi di dedicarsi attiva-mente alla comunità.

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Il Paese riconoscerà questi diversi progetti. Essi si influenzeranno reciprocamente. E dal contrasto e dalla fusione parziali dei diversi progetti nascerà, forse, l'ideale della nuova Spagna.

Questo progetto comune dovrebbe essere, a mio giudizio, frutto di una stretta collabo-razione. Lei sa bene con quanto ansia io abbia cercato, in altre occasioni, che lei, e alcuni uomini di valore della Spagna giovane, partecipaste attivamente a un'opera di governo. Se quel proposito non si è realizzato, non è stato per mia omissione. Ciò che allora ho ritenu-to conveniente, oggi lo giudico necessario. Ma questa collaborazione ha per principio la rinuncia a un atteggiamento meramente negativo, nel quale si raccolgono molti allori e si praticano pochi sacrifici.

Le opinioni che affido a questa lettera sono, come vede, le stesse che propongo in pub-blico. Non ho due modi di pensare. Io non chiedo il segreto. Per questo affido il destino di questa lettera alla sua volontà,

e torno a dirmi suo affezionatissimo Conde de Romanones El Sol, 13 marzo 1925

* * *

JOSÉ ORTEGA Y GASSET INTERMEZZO POLEMICO

Al conte di Romanones

Eccellentissimo signor conte di Romanones. Mio illustre e caro amico: sono vivamente compiaciuto di vederla precipitarsi su di me,

rapido, agguerrito e agile come un giovane lottatore. Lei è una «ardita lancia»,xii e le ferite che mi apriranno i suoi colpi sono compensate dal diletto di assistere al suo ardore bellige-rante. Ho sempre creduto che il politico di razza si riconosce dalla velocità con cui accorre sulla breccia. Per questo - e se nell'allusione all'età lei vede un omaggio - le dirò che men-

xii N.d.T.: fardida lanza, espressione in spagnolo medievale, tratta dall'epica, e riferita al valente

guerriero.

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tre leggevo la lettera, dove mi combatte con gran valentia, dentro di me risuonavano i ver-si dell'antico romance:

Vecchio venite, mio Cid!

Vecchio venite, ed elegante!

Mi è dunque oltremodo gradito conversare con una persona come lei, a cui mi unisce

l'affetto e da cui mi separa quasi tutto il resto. Il dialogo più gustoso è quello che nasce tra due che si vogliono bene, ma non si trovano d'accordo.

Intellettualità e politica

Però non comprendo bene come lei abbia potuto prendere tanto seriamente le «divaga-

zioni» a cui mi sono lasciato andare da queste colonne. Lei stesso arriva a qualificarle come «meri passatempi, graditi solo come esercizio intellettuale». È chiaro, conte: non sono altro che meri passatempi. È questo un punto su cui desidero chiarezza, una volta per tutte. A mio giudizio, l'ideale sarebbe che gli «intellettuali» non si occupassero di politica, ma si dedicassero interamente alle loro occupazioni letterarie e scientifiche. Compiendo bene tali doveri, avrebbero fatto così tanto per la società che nessuno avrebbe diritto a chiedere altro. Non è incongruo che, stimando un uomo come poeta o matematico, lo consideria-mo obbligato a essere anche politico? Ma dato che le circostanze, in tutto il mondo, e spe-cialmente in Spagna, rendono impossibile avvicinarsi a tale ideale, mi sembra impossibile subordinare l'intervento politico del letterato e dello scienziato a questa norma rigorosa: l'intellettuale, nel fare politica, deve farla come intellettuale, senza lasciare a casa le virtù e gli imperativi del suo mestiere e della sua disciplina. Solo così potrà risultare feconda la sua collaborazione. Io non posso pretendere di essere un politico migliore di lei; posso so-lo aspirare a vedere le cose sotto un'altra angolazione, da un'altra distanza e con un altro rigore, in modo che le mie osservazioni siano in qualche modo complementari a quelle de-gli uomini politici. Né posso accettare che l'intellettuale licenzi la sua mente e si procuri ad

hoc un cervello da portinaio o da mulattiere per poter con esso opinare disordinatamente sulle questioni pubbliche. Pretendo dunque tutto lo spazio che mi è necessario per formu-lare un pensiero complesso, preciso e pieno di riserve e cautele. Di questo il politico potrà prendere la parte che gli sembra più discreta, lasciando il resto a mio uso esclusivo.

Nel tempo presente è della maggiore importanza trovare la giusta equazione che regoli le relazioni tra intellettuali e politica. E questo per due motivi opposti. Il repertorio delle

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nozioni politiche correnti risulta in ritardo rispetto ai fatti. Soprattutto la «sinistra» usa un campionario di concetti notoriamente arcaico, incapace di dominare la gigantesca compli-cazione della vita attuale.xiii Molte volte ho fatto notare che i gruppi che più si affannano a rappresentare l'avanguardia politica vivono con idee e sentimenti della retroguardia. Deve essere opera degli intellettuali aggiornare la coscienza pubblica. Ma, d'altra parte, coltivare i temi politici ha prodotto una depressione dell'intellettualità negli stessi scrittori. E que-sto non può essere. È necessario che il pubblico lettore esiga da chi scrive, prima di tutto e sopra tutto, sottile intellezione, curiosità, acume, sapere, e quel temperamento sereno, ve-race, degno, che è il segno dell'intelligenza, il tono peculiare di questo ufficio, alla fin fine il più bello del mondo.

Liberalismo astratto

Non si agiti, conte. Pur non essendo molte, ci sono più probabilità che si formi quel

fronte unico costituzionale, da lei promosso, che non l'altro fronte, raccomandato da me. Io chiedo troppo: chiedo che le persone cambino idee e sostituiscano quelle che hanno, anchilosate e semplici, con altre più flessibili e complesse. Sostengo, dunque, quelle per-denti. Lei non deve far altro che leggere i periodici di questi giorni, e troverà con soddisfa-zione che quasi tutti gli «intellettuali» convengono nell'essenziale con lei e si oppongono a me. La dottrina della libertà, che suggerisce nella sua lettera, e i simpatici spaventi che prova di fronte alla reazione invadente sono canonici per tutte le «sinistre» - eccetto, e mi interessa sottolinearlo, i socialisti. Il socialismo, ultimogenito del passato, è il primo parti-to in cui compaiono alcuni aspetti della politica futura, e per ciò stesso turba tanto i libera-li, che non lo trovano tanto liberale quanto vorrebbero. Neppure il socialismo vuole la li-bertà prima di tutto, la libertà sola, perché ha appreso da Carlo Marx, il quale lo aveva ap-preso da Hegel, che la libertà senza altro non è che una astrazione. Diceva questo filosofo che nel processo storico, dove si va elaborando la liberazione umana, «il liberalismo è la tendenza che si aggrappa all'astrazione; il concreto trionfa sempre su di lui e lo tiene in una perpetua bancarotta».

La libertà è una cosa che non si può volere da sola, come non si può volere solo il profi-lo di una donna senza la carne che lo sostiene. Per volere le libertà è necessario almeno vo-lere anche i mezzi per esercitarle e assicurarle. In Spagna avevamo, bene o male, un'ombra

xiii N.d.T.: La sinistra a cui si allude è formata, in questo periodo, da liberali e repubblicani. I so-

cialisti sono esclusi dalle considerazioni del presente articolo, come è chiaro dal successivo paragra-fo. Al riguardo si veda l'introduzione.

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di libertà (libertades) con la vecchia Costituzione e il vecchio Parlamento. Ma il fatto è che questi sostegni non dovevano essere molto fermi, quando così elegantemente queste li-bertà ci sono state estirpate. E ora, nel loro nome, lei mi chiede di tornare alla Costituzio-ne e al Parlamento che se le sono lasciate strappare. Che uscite ha lei, conte!

Così, guardando il caso anche dal punto di vista esclusivo dell'ansia per le libertà, risul-ta imprescindibile occuparsi di altre questioni che non sono liberalismo astratto. Per con-seguire efficacemente una stessa libertà in Inghilterra, in Francia e in Spagna, sarà neces-sario inventare strumenti differenti, perché tali sono le tre nazioni. Perciò io dicevo che l'aggettivo liberale non è sufficiente per definire una politica. Il liberale deve nazionalizzare la libertà, e di conseguenza ha necessità di una politica nazionale, che è ciò che non ha mai avuto la sinistra spagnola, e non avendola, è stata spazzata via dal quadro storico.

Non può esistere libertà in Spagna finché le istituzioni che la proclamano non godran-no di piena autorità, e non avranno autorità finché non saranno rispettabili, e non saran-no rispettabili finché non saranno sincere ed efficienti, e non saranno sincere ed efficienti se si preoccupano solo di essere liberali e non si occupano dell'esistenza nazionale, dei suoi altri problemi più urgenti. In fondo, in ciascun paese si affermano solo le istituzioni che lo portano al trionfo, quelle che accrescono la sua vitalità.

La Spagna è l'unico paese in cui si è tollerato che la sinistra parlasse solo dei suoi pro-blemi privati, dei suoi aggettivi differenziatori, senza interessarsi delle necessità storiche della nazione. La conseguenza è stata la perdita di ogni radicamento nei sentimenti spon-tanei della nazione, finendo col parlare solo alla sua parrocchia interna, senza neppure tentare, perduto l'imprescindibile orgoglio, di convincere gli esterni.

Cosa vuole, conte? Se essere liberale significa fare ciò che lorsignori hanno fatto nel lo-ro tempo, e ciò che fuori tempo continua a fare oggi la «sinistra» - vale a dire, parlottare sulla libertà-, io sono decisamente antiliberale. Ma sia chiaro che il mio antiliberalismo consiste non nel desiderare meno libertà di loro, ma nel desiderare contemporaneamente molte altre cose.

È incompatibile con la sottigliezza dei tempi credere che in politica si è fatto tutto, quando si è verbalizzato su liberalismo e democrazia - supponendo, come tante volte ho detto, che molti liberali e democratici abbiano un'idea chiara di cos'è il liberalismo e cos'è la democrazia. Occorre altro, conte. Occorre addentrarsi bene in ciò che è la Spagna e ri-solversi ad attaccare i suoi mali più antichi, dando al suo corpo, per la prima volta, un'or-ganizzazione dinamica che la spinga verso una vita vibrante e nobile. Finché regnerà l'in-sondabile volgarità regnante in Spagna, lascito della «destra» e della «sinistra» del XIX sec., non c'è spazio per parlare di libertà e democrazia, né di autorità e rispetto della legge, in-

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somma, di nessuna cosa seria.

Vede, dunque, perché io posso stare solo con chi si presenti deciso a riformare profon-damente le istituzioni spagnole, a eliminare l'arcaica struttura della nazione, con lo scopo di spingere la razza e forzarla a fare un salto nella storia. Senza questo, la libertà non mi in-teressa affatto, perché non sarebbe altro che una parola. Di questa libertà dico ciò che Cri-stina di Svezia disse della sua corona quando abdicò: Non mi abbisogna e non mi basta.

xiv In quanto all'anomalo collasso che il minimo di buoni usi subisce ora, non riesco a

preoccuparmene. Forse la vecchia Costituzione, col suo Parlamento e tutto il resto, mi ha abituato a passare lunghi periodi senza i diritti umani. Lei stesso, conte, di frequente ha dimostrato il suo amore per le libertà - alla maniera del boia all'impiccato - sospendendole.

El Sol, 15 marzo 1925 II SUL REALISMO IN POLITICA Se ho richiesto, conte, un ampio spazio per parlare di politica come «intellettuale», non

creda che io stia cercando un espediente per eludere i problemi più immediati e, per ciò stesso, più difficili. Su questo punto la sua lettera ha pienamente ragione, e per difenderlo mi troverà sempre al suo fianco. In politica, per quanto «intellettuale» possa essere, non si può uscire dal seminato. La linea in cui finisce l'area politica potrà essere lontana quanto si vuole, e quanto più è lontana, meglio è, perché questo misura il raggio della nostra pre-visione; ma la linea in cui essa comincia ci è rigorosamente imposta, e non lascia spazio al nostro arbitrio o all'immaginazione: è la linea calpestata in ogni momento dai nostri piedi. È il «qui» e l'«ora». Una generazione, nel cui grembo è caduto l'egregio dono rappresentato dalla teoria della relatività - per citare solo questo frutto, il più noto e glorioso della scien-za attuale - deve perseguitare dovunque l'utopismo, come sciocchezza, come immoralità e come anacronismo. Questa è la grande correzione che il nostro tempo farà alle idee politi-che del XIX secolo, correzione da cui derivano tutte le altre. Perché nel XIX secolo quasi tutte le idee e le emozioni politiche erano appunto utopiche - sia quelle progressiste, sia quelle reazionarie. Quelle persone non trovavano gusto nella politica se non cominciava col proporre qualche assurdo, perfettamente irrealizzabile, o per la sua stravaganza o per il suo semplicismo. (Si ricordi che uno dei progetti di Costituzione elaborato nel 1790 co-minciava: «Tutti i francesi saranno felici»). Le popolazioni si affrettavano a definirsi in ba-

xiv N.d.T.: in italiano nel testo.

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se agli attributi più discrepanti, e non sembrava grottesco denominarsi «di sinistra» o «di destra», ciascuno amputandosi in tal modo una metà di sé stesso. Senza questi sorsi di ac-quavite, i nostri nonni non si tonificavano per la politica. Romanticismo è ebbrezza, e la politica romantica cominciava con una piacevole frenesia. È chiaro che, giunti al potere e iniziando a governare, nasceva in loro un improvviso buon senso, e i loro atti da gover-nanti contraddicevano le loro gesticolazioni dall'opposizione. È destino di tutti gli utopisti avere necessità di una doppia politica, a seconda che stiano al Governo o all'opposizione - come gli scolastici usavano una doppia verità, che permetteva loro di sostenere una cosa in filosofia e un'altra in teologia.

Questa doppiezza comincia a sembrarci sia poco ingegnosa, sia poco morale. Soprattut-to, all'uomo dai trent'anni in giù, dà ripugnanza il politico frenetico. Questo fare quadri plastici di rigorismo dall'opposizione, per poi sottomettersi alle necessità proprie di ogni Governo, aveva un senso quando la politica era spettacolo; ma oggi la politica e la guerra hanno perso visibilità. Sono opera di severità e di precisione. Per questo è inammissibile ogni atteggiamento politico - sia pure «intellettuale» - che non contenga al suo interno, come elemento regolatore, il punto di vista del governante. E più di ogni altro è obbligato a tener conto di questo freno, che è al tempo stesso un metodo, il pubblicista.

In questo senso - e questo le dimostrerà che non limito lo sforzo di avvicinarmi a lei - l'unica politica stimabile è la politica realista. Ma è conveniente non abbandonare questo termine alle intemperie, senza, senza la protezione di chiarimenti, esposto a contrarre i si-gnificati più nocivi.

Politica realistica non può voler dire politica di interessi. Questa sarebbe piuttosto una politica materialista o di egoismo. È falso che la realtà si componga solo di affanni interes-sati. Se diamo una manata dentro di noi, vediamo che si alzano in volo passioni dal più va-riato piumaggio, e che insieme agli egoismi battono le loro ali generosità, appetiti, entusia-smi.

Politica realista non significa neppure idolatria dei fatti consumati e rinuncia a modifi-care l'esistente. Più che un fatto, la realtà è un flusso, dove accanto alla forma matura e og-gi vigente, si desta un germe che domani trionferà, e si trascina caduco un resto dello ieri. Ne deriva che il vero senso della politica realista, più che nell'accettare la realtà, consiste nel farla.

A mio giudizio, questa è la cosa decisiva. Politica realistica è politica di realizzazione. La realizzazione è il comandamento supremo che definisce l'area politica. Non va contro l'i-deale, ma gli impone concretezza e disciplina. La vecchia «politica di idee» pretendeva che i fatti venissero senz'altro ad aggiustarsi alle idee nate per generazione spontanea nelle te-

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ste. Siccome questo è impossibile, il politico idealista viveva perpetuamente in una posi-zione falsa. Il realismo è più esigente: ci invita a trasformare la realtà secondo le nostre idee; ma, al tempo stesso, a pensare le nostre idee in vista della realtà, a estrarre l'ideale non

soggettivamente dalle nostre teste, ma oggettivamente, dalle cose. Ogni cosa concreta - una na-zione, ad esempio - contiene, accanto a ciò che è oggi, il profilo ideale della sua possibile perfezione. E questo ideale, quello della cosa, non il nostro, è quello veramente rispettabi-le. L'ideale soggettivo è sempre sul punto di essere un capriccio o una mania.

Come in tutti gli altri ordini della cultura, per l'idealismo è giunta l'ora di assentarsi dalla politica. Ormai l'idealismo politico non è altro che la forma laica del bigottismo.

Ricordiamo, a mo' di esempio, un piccolo fatto avvenuto durante l'ultimo Governo prima del colpo di Stato. Il caso è esemplare, proprio perché si riferisce a una materia pic-cola. Di quel Governo facevano parte i riformisti. Per anni e anni essi avevano stentorea-mente dichiarato che non avrebbero mai nominato sindaci per regio decreto.xv Arrivato il momento, i riformisti nominarono sindaci per regio decreto. Siccome io conosco da vici-no le persone che rappresentavano il riformismo nel Governo, mi consta, senza il minimo dubbio, che costò loro assai più sacrificio nominare i sindaci e restare al potere, di quanto non sarebbe costato lasciare il potere ed essere fedeli alle loro reiterate dichiarazioni. Ciò toglie dall'esempio ogni valore di censura verso le persone e lo chiarisce come paradigma di una posizione falsa in politica.

E io domando: che cosa effettivamente sta male in quel fatto? Aver nominato i sindaci? In alcun modo. La circostanza obbligava a farlo. Per me l'indebito non è stato l'atto di quel momento, ma le idee di prima. Ciò che non mi sembra lecito è aver dato utopicamente alla questione dei sindaci una soluzione ideale, e averne fatto una questione di principio. Che fosse un errore lo dimostra il fatto che persone, il cui disinteresse mi è noto, dovettero ve-nir meno ad essa. Ed è questo che, con tutto il rispetto per tali persone, mi è necessario giudicare immorale. Immorale non è solo venir meno di fatto alla norma ideale, ma anche stabilire una norma ideale a cui poi è inevitabile venir meno. Siccome io, con questo ri-cordo, non intendo criticare nessuno, aggiungerò, se è necessario, che furono immorali per eccesso di bontà. Per me sono la stessa cosa risultare corto e oltrepassare.

Nel XVIII un cittadino dell'Estremadura pubblicò un certo volume in folio sulla compe-tenza degli alcaldes de cuadrilla.

xvi L'opera si divide in vari libri, i cui titoli suonano così:

xv N.d.T.: alcaldes de Real orden: sindaci nominati direttamente dal Governo, anziché attraverso

le elezioni amministrative. xvi N.d.T.: erano chiamati alcaldes de cuadrilla o de la mesta giudici nominati dalle associazioni

degli allevatori per risolvere le controversie tra i loro associati.

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Libro I: Su Dio. Libro II: Sulla creazione del mondo. Libro III: Sull'istituzione degli alcaldes de cuadrilla. Un tale libro avrebbe potuto scriverlo un riformista. È necessario combattere contro questa deviazione idealista, proprio nel nome di una

morale pubblica più rigorosa. Nel secolo scorso, per giudicare l'esemplarità di un uomo, si considerava solo se i suoi atti erano in accordo con le sue idee; ora bisogna esigere anche l'opposto: che le sue idee concordino con i fatti. Non bisogna aver cura solo di ciò che si fa, ma anche di ciò che si pensa. L'idealismo è peccato. Non esistono principi generali one-sti in politica; in politica sono onesti solo gli atti concreti. Il resto è quadro plastico e atteg-giamento da santone suburbano.

Come vede, la mia risposta alla sua lettera si complica e si prolunga. Lei mi chiedeva quale fosse il mio progetto, ed io, né breve né pigro, glielo espongo. Vedremo se lei sarà altrettanto gentile con me, quando io tornerò a chiederle: Bene, signor conte, qual è la sua politica?

Né deve infastidirla eccessivamente questa mia prolissità. Quanti più articoli scriverò per risponderle, tanto maggior pubblico si andrà radunando al suo fianco. Già ne ho le-gioni di fronte a me. Poco tempo fa volevo fare una conferenza a Saragozza e l'autorità me lo ha impedito. Poche settimane dopo sono andato a farne un'altra nella capitale andalusa, e il vescovo, d'accordo con il rettore dell'Università, che è un ultraclericale granitico, ha fatto l'impossibile per impedirlo. Ora tutti i liberali sono irritati con me. «Destra» e «sini-stra», le due chiese, mi scomunicano, ciascuna per la sua parte.

Tutto questo è un gran segno che sto procedendo lungo una buona strada. Perché nella politica che sta venendo, «destra» e «sinistra» sono quantità molto secondarie e, in un certo senso, inesistenti. «Destra» e «sinistra» non sono tutto il mondo. «Destra» e «sinistra» sono alcuni fantasmi monchi del passato.

El Sol, 18 marzo 1925. III NON C'È TANTA FRETTA Credo che il regime delle libertà e della democrazia siano forme del diritto politico così

indelebilmente iscritte nella sensibilità europea, che non è possibile immaginare seria-mente nessuna istituzione stabile che vi si opponga. Le stesse «estrema destra» ed «estrema

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sinistra», che presumono di poterne prescindere, le hanno sciolte nel loro sangue, e il giorno in cui, abbandonando la loro modesta posizione critica, volessero stabilire delle istituzioni, si vedrebbero obbligate ad accettarle.

Questo, che credo rispetto a tutta l'Europa - la Russia non è Europa-, lo credo anche ri-spetto alla Spagna. Contro tutto ciò che si dice, ed è già leggenda, ho visto che il nostro popolo è tanto liberale e tanto democratico quanto qualunque altro, né più, né meno. So-lo che il nostro popolo è oggi oltremodo incolto e privo di vitalità. Il suo liberalismo e il suo democratismo debbono essere, per forza, incolti e senza audacia. Sarebbe buffo se la debolezza nazionale, evidente in tutto il resto, non si manifestasse nell'azione politica.

Ma è un errore totale supporre che la «reazione» possieda in Spagna un grande vigore. Le sottane di quattro bigotte e le gonne di sei gesuiti non mettono insieme un'energia suf-ficiente a far cantare un cieco. È quantomeno illusorio credere che, sommate tutte le forze reazionarie del Paese, esse siano sufficienti per l'enorme opera di istituire un regime stabi-le, normale e duraturo. La verità di questo fatto apparirebbe evidente il giorno in cui la presunta «reazione» pretendesse di fare un passo decisivo.

Questa convinzione mi fa avversare l'atteggiamento piagnucoloso, manierato e come insicuro di sé, adottato sempre dai liberali titolari, anziché avere l'orgoglio di dimenticare cosa siano i liberali e i democratici, e l'esistenza stessa di liberalismo e democrazia, così come, nel fervore del lavoro quotidiano, si dimentica l'esistenza dell'aria che respiriamo.

Tuttavia, in Spagna, come in Italia - in via di principio una cosa analoga può accadere un giorno o l'altro in Francia, Germania e Inghilterra-, è stato sospeso di colpo e radical-mente l'esercizio delle libertà e l'impero della democrazia. Questa rarefazione subita dall'atmosfera, questa dispnea delle libertà ci obbliga a riflettere sull'accaduto. Natural-mente, non a indignarci, non a smaniare nelle riunioni private o nella carta stampata, ma a riflettere sull'accaduto. È possibile che accalorarsi eccessivamente ci porti a dare troppa importanza a un episodio, contro cui non è il momento di compiere alcuna azione. Intri-stisca chi trova soddisfacente intristire. A me urge molto di più rendermi ben conto di ciò che è accaduto e del perché. Prima dell'indignazione, la congiuntura ispira emozioni più tiepide e socratiche.

Per quanto poco si stimi il liberalismo spagnolo, la facilità con cui è stata sospesa la Co-stituzione e si è volatilizzato il Parlamento sembra eccessiva. D'altra parte non pare che si siano presentate grandi forze antiliberali capaci di istituire un altro regime durevole. Tutto ciò ci obbliga a pensare che, anche se le libertà sono state il capro espiatorio, questo non è un trionfo della reazione.

Di questo sono convinti tutti coloro che sono «di sinistra»; perché non lo riconoscono?

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Perché, invece, fingono di attribuirlo a formidabili poteri reazionari - come a loro volta i gesuiti attribuiscono tutto ai massoni? La ragione è molto chiara. Se la «sinistra» ricono-scesse che la causa dell'accaduto non è un inesplicabile crescita della reazione, dovrebbe riconoscere la pura verità: che in Spagna, come in Italia, la causa ultima - qualunque sia il dettaglio della genesi - di questo regime estemporaneo è la Spagna stessa, per aver lasciato che le sue istituzioni - Parlamento e Governo - perdessero il prestigio e l'autorità senza cui non c'è forma politica che si possa sostenere. E siccome questo lo abbiamo preannunciato dozzine di volte prima che accadesse, abbiamo pieno diritto a ripeterlo una volta che il fat-to si è consumato. Lorsignori non hanno voluto - né chi ha governato, né gli usufruttuari dell'opposizione radicale - mettere seriamente mano all'opera di riforma di quelle istitu-zioni, poco a poco o a salti, secondo le loro preferenze, e le hanno abbandonate indifese al caso. Loro non hanno sufficiente qualificazione per presentarsi ora come difensori ufficia-li delle libertà che loro stessi hanno abbandonato e malnutrito.

Il fatto è poco meno che incredibile. Dopo che la «sinistra» ha operato per anni e anni, sia nel Governo, sia nelle molteplici forme dell'opposizione, per ottenere come risultato la situazione attuale, non si fa udire nessuna voce che inviti a una revisione tattica, di posi-zioni, di concetti. Lungi da questo, la prima cosa che sentiamo è un'inconcepibile propo-sta di tornare allo stesso Parlamento. Sicché, dopo un così brillante successo, dopo aver errato, pretendono che l'universo si rettifichi e si aggiusti nuovamente ai loro antichi er-rori.

Questa cecità, in cui si rivela che Zeus ha deciso di perderli, mi obbliga a dissociare il mio liberalismo dal loro. Perché io e altri, come si è visto, vogliamo in maniera più ferma le libertà; almeno siamo disposti a rettificarci cento volte, tante quante siano necessarie, per ottenere nuove istituzioni liberali a cui nessuno ardisce.

E il fatto che necessariamente orienta ogni nuovo liberalismo in Spagna è che la sop-pressione del vecchio Parlamento si è verificata con il consenso dell'immensa maggioranza nazionale. Questo fatto non è invenzione di nessuno; è stato un avvenimento assoluta-mente autentico, e che lo si voglia dare per non accaduto, e si reclami senz'altro il ritorno alla stessa istituzione abbattuta, ci svela qual è stato l'errore capitale della «sinistra»: essere cieca e sorda verso tutto ciò che è nazionale; volere che la nazione si adattasse a lei, e non lei alla nazione.

La forma di quel consenso non appare canonica ai liberali formalisti, e in effetti non lo è. Ma si tratta appunto di un evento in cui si rivela l'insufficienza dei canali legali stabiliti. Questo stesso consenso - un fatto ben ampio ed evidente - avrebbe potuto attrarlo a sé la «sinistra». Ciò che ne sussegue è ora materia su cui la coscienza pubblica appare molto più

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divisa e problematica; ma quel «no» al regime inveterato è stato praticamente unanime. Circa la dose di ingiustizia e di esagerazione che c'era in quel «no», nell'accusare gli uomini politici di tutte le disgrazie nazionali, ho scritto nel momento più difficile un articolo che lei, conte, ha ritenuto opportuno citare nel prologo del suo libro.xvii Io dovrei dunque fare cento obiezioni a quel movimento dei miei concittadini; ma ciò che non mi passa per la mente è darlo per non avvenuto, in base al fatto che la sua forma è stata giuridicamente difettosa. In tempi illegittimi non c'è ragione di porre questioni giuridiche che debbono essere differite.

Ogni atteggiamento odierno deve, dunque, cominciare col dar soddisfazione, in qualche misu-

ra, a quell'evento enorme. Per questo, invece di ritornare in malo modo a un Parlamento che riannoderebbe la vecchia storia con identiche conseguenze, è necessario giungere a un ac-cordo su un'altra forma di Parlamento il cui repertorio differisca dal vecchio.

Con la propensione incorreggibile del «sinistrismo» ad adottare posture da statua eroi-ca, ci si è spinti a dire che l'importante è tornare prima possibile alla libertà, senza preoc-cuparsi d'altro. E magari al villano, che guarda le figure di cera nelle fiere, questo atteg-giamento sembrerà il più giacobino e commovente dei progetti. Ma io non riesco a pensare in questo modo. So che la libertà arriverà irrimediabilmente, prima o dopo, e ciò che mi preoccupa è cosa si farà il giorno dopo la sua ricomparsa. Perché non è eccessiva malizia temere che questa fretta per la libertà favorisca il proposito di consolidare la trama essen-ziale del passato. Tutto, piuttosto che vivere un giorno di più senza libertà - dicono molti. E io di contro: Tutto, tranne che reinsediare l'inerzia nazionale. Ed esponendo nei più mi-nuti particolari il senso delle due formule, sarebbe curioso vedere quale contiene in infu-sione le maggiori dosi di liberalismo.

Siamo un po' stufi di sentire gente che si lamenta, in epoca di censura previa, perché non può parlare, e vedere che poi, cessata l'anomalia costituzionale, non aveva niente da dire, e non aveva usato le ore di silenzio neppure per pensare. Sarebbe conveniente che questa volta riempissimo il magazzino per il giorno opportuno.

No; non è affatto giunto il momento di uscire allo scoperto. La ricostruzione di una Spagna vigorosa e libera, almeno di uno Stato il cui meccanismo istituzionale si erga ener-gico, imponendo rispetto a ogni frivolezza interna, è una cosa per niente facile, e di cui si è appena iniziato a parlare. Non ritengo impossibile che buona parte di ciò che conviene di-re possa essere detto anche oggi, riempiendo con attenzione fino alla sua massima elastici-tà lo spazio lasciato dalla censura.

xvii N.d.T.: Las responsabilidades políticas del Antiguo Régimen de 1875 a 1923, Renacimiento, Ma-drid 1924. Cfr. Conde de Romanones, Obras completas, Ed. Plus-Ultra, Madrid 1949, 3 voll.

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Se ora si elabora un programma di riforma spagnola sufficientemente profonda, e con

esso si affronta il momento pericolosissimo della ricomparsa della libertà, si sarà guada-gnato abbondantemente il tempo di libertà che ora si perde. Finché questo programma, che colleghi fortemente un ampio gruppo di volontà, non esiste, molte persone leali e ac-corte preferiranno che un velo di transitorie nebbie civili occulti la sua assenza.

La sua lettera è venuta contro alcuni miei articoli in cui mi propongo di riprendere lo sviluppo di un possibile programma, enunciato già nel giugno dell'anno scorso.xviii Se lei avesse ricordato ciò che ho scritto allora, non si sarebbe deciso a qualificare come negativo il mio atteggiamento, ma più delicatamente come equivocato. Questa faccenda del «nega-tivismo» è un luogo comune, che non le si addice, e con cui da dieci anni si va contro quanto scriviamo noi che, bene o male, abbiamo movimentato alcune idee in Spagna. Quando lei dice: «Torniamo al Parlamento usuale», crede di aver detto qualcosa di molto affermativo. In cambio, se io dico: «Andiamo alla riforma della Spagna, iniziando intanto dalla parte possibile», lei lo qualifica come negativo. Questo è un po' arbitrario, Conte. Combattiamo gli uni con gli altri, forgiando in ogni caso le nostre armi, e usiamo nella contesa il minor numero possibile di topici. La Spagna guadagnerebbe molto se - come i nobili con i loro privilegi all'aurora della Rivoluzione - noi spagnoli facessimo una rinun-cia generale ai topici.

E ora mi permetta di interrompere questo colloquio e proseguire le mie osservazioni su una politica del qui ed ora. Non so se lei vi troverà qualcosa che le sembri discreto; ma io debbo cercare di attirare l'attenzione pubblica su alcune trasformazioni ineluttabili a cui è necessario sottoporre la nostra nazione se si vuole che, un giorno, la libertà sia un uso con-tinuativo in Spagna e, con l'occasione, che circoli sangue nelle sue vene. Ma la lettera che mi ha diretto mostrandomi il suo liberalismo mi ha obbligato a soffermarmi a suggerire come è il mio.

Sa che ricevo sempre con giovamento i suoi chiarimenti di uomo esperto e che le sono molto amico.

El Sol, 19 marzo 1925xix

xviii N.d.T.: riferimento agli articoli pubblicati col titolo «Ideas políticas», in Obras completas

(Taurus), cit., vol. III, 678-94. xix N.d.T.: Di fatto, la serie di articoli termina con la lettera a Romanones. Ortega affronta le

questioni a cui allude in testi diversi, senza continuità con il presente.